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XXIV. La quiete dopo la tempesta XXV Il sabato del villaggio

3.2. D’Annunzio folklorista

Prima di analizzare nel dettaglio i singoli testi dannunziani, vorrei offrire un breve quadro riepilogativo sul rapporto fra D’Annunzio e il folklore. La ricchezza di scene, ambienti, tradizioni, riti, ma anche e soprattutto di frammenti di canzoni della tradizione popolare abruzzese ha determinato un grande interesse di demologi, filologi, regionalisti, delle più varie prospettive critiche2, nei confronti delle opere di D’Annunzio sopra menzionate, cui vanno

aggiunte anche Terra vergine, raccolta di novelle giovanile, e il dramma La fiaccola sotto il moggio, nelle quali, però, la festa è una presenza appena accennata e di cui pertanto non mi occuperò. Va detto anche che in tutta la vasta produzione critica emergono scarsi o nulli contributi sul tema della festa in D’Annunzio; al contrario, il rapporto col folklore e con l’Abruzzo è stato abbondantemente sviscerato, tanto che sono state rintracciate tutte o quasi le fonti documentarie delle canzoni, delle espressioni di origine dialettale e delle credenze citate o rielaborate da D’Annunzio; pertanto non ripeterò qui quanto è stato già detto, mettendo in nota i rimandi alle fonti folkloriche quando necessario o offrendo precisazioni su alcune questioni specifiche3.

2 Fra i saggi dei demologi vanno segnalati quello di Crocioni, Il folklore e D’Annunzio, nel saggio Problemi fondamentali del folklore (1928), quello di Toschi, Le tradizioni popolari nell’opera di Gabriele D’Annunzio (1968), il saggio di Di Nola, Alcuni paralleli del rito cocullese dei serpari (1987), che

però non affronta direttamente il testo dannunziano, e il recente contributo di Gandolfi, La figlia

di Iorio, palcoscenico del folklore drammatizzato (2013). In ambito letterario vi sono il saggio di

Rosina, Mezzo secolo della figlia di Iorio (1955), e quelli di Giannangeli dalla forte impronta regionalista e insieme nicciana: Il Trionfo della morte e l’Abruzzo (1983), D’Annunzio e l’Abruzzo del

mito (1988), D’Annunzio e il suo Abruzzo (1988), La figlia di Iorio e il canto popolare (1993); sempre

sulla scia di Giannangeli, il recente contributo di Plack, Il mito nella tragedia dannunziana: «La

figlia di Iorio»: una analisi critica (2003). Altri contributi storici sono quelli di Rossi, D’Annunzio giovane, il verismo e le tradizioni popolari (1981), La figlia di Iorio e il Tommaseo (1993), e i due

complessi saggi di Mariano che affrontano varie questioni, ma che mostrano un approccio fenomenologico-eliadiano alle questioni folkloriche, La genesi del Trionfo della morte e Friedrich

Nietzsche (1981), Il primo autografo della Figlia di Iorio (1993). Il saggio di Meda sulla Figlia di Iorio,

in Bianche statue contro il nero abisso. Il teatro dei miti in D’Annunzio e Pirandello (1993), offre una lettura psicanalitico-junghiana dei dati folklorici, non perspicua da un punto di vista antropologico. Il saggio più documentato per quanto riguarda il reperimento di aspetti folklorici - e non solo - è senz’altro Il popolo autore nella «Figlia di Iorio» di Gabriele d’Annunzio di Andreoli (2012). Infine segnalo per ultimi tre saggi, accomunati dalla tematica del “primitivismo” nella lettura dei dati folklorici dannunziani, che ritengo colgano nel segno più di molti altri, pur partendo da prospettive abbastanza diverse: il verismo, nel saggio di Gibellini, Per un diagramma del verismo dannunziano (1983); il cultural despair, nel saggio di Gunzberg, D'Annunzio naïf: primitivismo e arcaismo nella «Figlia di Iorio» (1984); la lettura politica, nel saggio di Pomilio, D’Annunzio e l’Abruzzo (1968).

3 Oggi i rimandi alle fonti, ovvero alla specifica letteratura folklorica, si trovano quasi tutti

130 Indiscusso arbiter elegantiarum d’Italia nella sua epoca, D’Annunzio fu anche folklorista? La risposta sembrerebbe affermativa a dar retta a Crocioni e Toschi e se teniamo conto del fatto che il suo nome figura nella “Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia” di Pitrè4. D’altra parte era stato D’Annunzio

stesso ad accreditarsi en ethnologue attraverso il Commentaire alla traduzione in francese della Figlia di Iorio di Hérelle, che per le credenze e i costumi che compaiono nel dramma segnala in Remarques particulières i precisi riferimenti bibliografici alla letteratura folklorica - ma si tratta di informazioni fornite da D’Annunzio in prima persona all’Hérelle. Vengono così offerti direttamente dall’autore i rimandi all’interno degli Usi e costumi abruzzesi di Antonio de Nino (1879-1891), delle Credenze, usi e costumi abruzzesi di Gennaro Finamore (1890), della rivista Archivio per lo studio delle tradizioni popolari di Pitrè, della Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli indo-europei di Angelo De Gubernatis (1869), delle Noterelle di varia erudizione di Giovanni Pansa (1887). Ma l’elemento forse più interessante è che il Commentaire traccia anche tutti i rimandi interni fra La figlia di Iorio e il Trionfo della morte, accreditando così il romanzo come un testo etnografico. Pertanto, al di là del giudizio che si potrebbe dare oggi sulla questione di un D’Annunzio folklorista, è indubbio che l’opera dannunziana testimonia una pervasiva presenza di personaggi, immagini, paesaggi, oggetti, credenze, rituali, tradizioni del mondo popolare abruzzese, non solo agreste ma anche di quello cittadino - Pescara e Ortona in particolare -, che mostrano un’attenzione costante di D’Annunzio per tale dimensione esistenziale e indubbi interessi conoscitivi demologici e antropologici. Tale interesse fu tale che D’Annunzio partecipò anche ad alcune ricognizioni etnografiche5 in compagnia di De Nino e di Michetti, come quelle

al santuario di Casalbordino o quella alla Grotta del Cavallone, presso Lama dei Peligni, per trarre ispirazione per l’allestimento della Figlia di Iorio (Gandolfi, 2013: 74).

A questo proposito è emersa fortemente nella critica la tendenza a subordinare l’interesse di D’Annunzio per il folklore al suo approdo al Verismo.

D’Annunzio. I contributi in tal senso partono dallo stesso Commentaire alla Figlia di Iorio, riportato in D’Annunzio (2013: 891-903), e poi dai saggi di Toschi (1968) e di Rosina (1955), ma sono reperibili anche in quelli di Gunzberg (1984), Giannangeli (1983, 1988a, 1988b, 1993), Meda (1993) e soprattutto Andreoli (2012).

4 D’Annunzio pubblicò alcune favole abruzzesi nella “Cronaca bizantina” del gennaio 1886 e

ancora delle Favole di Natale nella “Tribuna” del dicembre 1887 con lo pseudonimo di Duca Minimo, riprendendole da De Nino e rivisitandole, fatto che suscitò un certo risentimento nel Pitrè (Toschi, 1968: 579).

131 È difficile valutare il peso del Verismo italiano nell’opera di D’Annunzio6,

presenza di cui è stato tracciato anche un diagramma pieno di distinguo e differenze interne (Gibellini, 1981), e fino a che punto il Verismo possa identificarsi col primitivismo, categoria che nella critica anglosassone è stata propriamente utilizzata per autori più tardi come Lawrence o Eliot; come sarebbe azzardato trarre qui un consuntivo sulla reale spinta del Verismo negli studi demologici italiani. Di fatto D’Annunzio si mosse precocemente e consapevolmente contro il Verismo ed è pertanto più ragionevole ritenere che l’interesse per il folklore sia stato personale e profondamente radicato, non l’ossequio a una moda, perché, se tale interesse di D’Annunzio fosse stato subordinato al Verismo, sarebbe terminato con il suo rigetto, mentre non solo non si spense nel corso degli anni, ma produsse il suo capolavoro - La figlia di Iorio - in pieno Novecento e in pieno influsso simbolista.

È pur vero che gli interessi folklorici di D’Annunzio maturarono a partire dal 18807, di ritorno dal suo periodo pratese e cicognino, all’interno del

“cenacolo” del convento di Francavilla al mare, capeggiato dal pittore e fotografo Francesco Paolo Michetti, il “Cenobiarca”, nell’opera del quale risultano ben presenti istanze veriste. Sempre tramite Michetti e il suo cenacolo D’Annunzio entrò in contatto, divenendone amico, con il demologo Antonio De Nino8, con l’etnomusicologo Francesco Paolo Tosti e anche con altri eruditi

locali di tradizioni popolari, come Pasquale Masciantonio, chiamato “Pascàl” da D’Annunzio (Gandolfi, 2013: 68). Non v’è dubbio, pertanto, che l’approdo allo studio e a una più ampia conoscenza del folklore da parte di D’Annunzio sia avvenuto sotto il magistero di Michetti e di De Nino. Ma alcune distinzioni sono a questo punto necessarie. Se è vero che l’interesse di Michetti per il folklore muove i suoi passi dalla ricerca del “fatto vero”, come testimonia anche la sua opera di fotografo, e da una tensione verso gli umili e i vinti della storia, ispirato in questo dal Verismo letterario, la lettura che D’Annunzio dà dei quadri di Michetti è una lettura sostanzialmente altra. La recensione dello scrittore a Il voto, del 1883, raffigurante la processione devozionale dei fedeli di Miglianico che si avvicinano alla statua di San Pantaleone strusciando la lingua a terra dal portone della chiesa fino all’altare, ne mette in risalto l’elemento

6 Oltre agli Atti del convegno “D’Annunzio giovane e il verismo”, contributi più recenti sono

Oliva (1994), Bani (2014). Sul Verismo il mio riferimento è Bigazzi (1978).

7 Si tratta, lo ricordo en passant, dell’anno di uscita di Vita dei campi di Verga.

8 L’incontro con De Nino è del settembre 1881 (Papponetti, 2004); tuttavia, nel suo saggio Ciani

riporta alcuni stralci di lettere del 1880 e del 1881 in cui D’Annunzio dichiara tutta la propria insofferenza per le feste popolari, per cui la nascita del suo interesse per il folklore va posposta di qualche anno (Ciani, 1990) .

132 simbolico in un contesto di violenza e barbarie. La prima uscì sul Fanfulla della domenica, il 14 gennaio 1883. Ne riporto alcuni punti che testimoniano anche l’escursione etnografica compiuta da D’Annunzio con Michetti a Miglianico9 e

fanno emergere tutta la distanza fra l’osservatore e l’evento narrato, nonché la deformazione compiaciuta, estetizzante, intrisa di sadismo, dei fedeli:

L’impressione fu a Miglianico, alla festa di San Pantaleone, nella calura soffocante dell’estate, dentro la chiesa, tra il lezzo bestiale che esalava da quei mucchi di corpi umani accalcati nella mezza ombra. Era una greggia, una mandra enorme d’uomini, di femmine, di fanciulli, entrata a forza, per vedere il santo, per pregare il gran santo d’argento, per assistere al martirio dei devoti. La mandra nell’afa sudava e ansava come un solo gigantesco animale sdraiato sul pavimento a soffrire: un mugolìo si propagava sotto la navata, tra il fumo dell’incenso saliente a disperdersi. [...] E là, in mezzo ad un solco umano, fra pareti umane, tre quattro cinque forsennati s’avanzavano strisciando, con il ventre per terra, con la lingua su la polvere dei mattoni, con le punte dei piedi rigide a sostenere il corpo. Rettili. I muscoli delle gambe ignude si tendevano in rilievo sotto la pelle pelosa, sotto il sudiciume della pelle nerastra; le vene delle braccia si gonfiavano in un lividore verdognolo, come piene di un umore velenoso, quasi per scoppiare; e nello spasimo dello sforzo pareva che le reni si spezzassero. Tra le dita delle mani, tra le unghie dei piedi le chiazze del sangue apparivano già; e la bocca sanguinava nello strofinìo feroce su i mattoni, e su le macchie rosse che un fanatico aveva lasciate strisciava la lingua arida di un altro fanatico. Si avanzavano così, come rettili. Una superstizione cupa li acciecava. [...] E giungevano al santo, e gli si abbrancavano al collo in un supremo impeto che pareva d’odio, e cercavano con la bocca dolorosa quella fredda bocca d’argento, e gl’insanguinavano nel bacio la faccia, e prolungavano il bacio con una specie di godimento convulso, come per sentire il refrigerio del metallo su i laceramenti della lingua, come per sentire almeno rispondere a quel bacio. […] Parevano bestie colpite in fronte: le carni ignude della schiena, delle gambe, delle braccia prendevano come una lividura di cancrena. Il santo era lì, muto, con i due terribili buchi neri sotto la sporgenza del cranio, con la impronta sanguigna del bacio sul viso, nella immobilità, nella luce crudele. Da questa impressione il quadro emerse vivo e caldo e determinato subitamente. […] Egli aveva lì dinanzi un dramma, tutta una storia di brutalità, di superstizioni, di pervertimenti, di acciecamenti, di terrori; egli aveva lì dinanzi tutto uno squarcio della trista vita delle campagne, un lungo dolore. [...]Vi era cioè tra l’ambiente e le figure come una compenetrazione, come un legame necessario; onde le figure nel passaggio dalli studii al quadro per lo più non conservavano la stessa fisionomia né lo stesso significato, ma assumevano quella fisionomia e quel significato che loro

9 Secondo Ciani, in realtà D’Annunzio non sarebbe stato con Michetti alla festa di San

133 infondeva l’aria sacra spirante ivi entro [corsivo mio] (D’Annunzio, 1996, I: 94- 96).

Come si può facilmente scorgere questa descrizione è ben poco oggettiva e ben poco tesa a far emergere il “fatto vero”. Tutta la rappresentazione dei fedeli è fortemente connotata in senso bestiale e attraverso l’uso reiterato della metafora vengono definiti “rettili”, “mandra”, “gregge”. L’omaggio devozionale al santo è interpretato nei termini di un gusto decadente e perverso, lo stesso che potrebbe descrivere l’amplesso con la donna-vampiro: l’assalto alla statua è supremo, scatenato da un segreto odio; la bocca “cercata” - termine evidentemente sensuale - è insanguinata; nel bacio prolungato si manifestano convulsioni di piacere. Tutto è terribile, crudele, livido, cupo, insanguinato. I fedeli sono forsennati anelanti il martirio; la loro storia o meglio il trovarsi ai margini della storia delle plebi rustiche - demartinamente inteso10 - è

interpretato come un dramma brutale, superstizioso, cieco, perverso. Anche là dove D’Annunzio commenta propriamente il quadro di Michetti, segnala che le figure perdevano la loro fisionomia reale - il “fatto vero” che interesserebbe il Verismo - per assumere un significato simbolico, sacrale, ancestrale. Lo stesso significato che D’Annunzio scorge nelle manifestazioni folkloriche.

Nell’articolo su Michetti comparso su La Tribuna Illustrata nel maggio 1893, a proposito della tele michettiane, si legge:

Qui è tutta la nostra razza, rappresentata nelle grandi linee della sua struttura fisica e della sua struttura morale: la vivace antica razza d’Abruzzi, così gagliarda, così pensosa, così canora intorno alla sua montagna materna, d’onde scendono in perenni fiumi all’Adriatico la poesia delle leggende e l’acqua delle nevi. Qui sono le immagini eterne della gioja e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare. Qui passano lungo il mare pacifico nell’alba le vaste greggi condotte da pastori solenni e grandiosi come patriarchi, a somiglianza delle migrazioni primordiali. Qui si svolgono lungo i campi del lino fiorente, lungo i campi del frumento maturo, le pompe delle nozze, dei vòti e dei mortorii. Qui gli uomini accesi da una brama inestinguibile seguono a torme la femmina bella e possente che emana dal suo corpo una malìa sconosciuta; e si battono a colpi di falce, tra le biche gigantesche, in un tramonto sanguigno al cui lume si fan più nere e più tragiche le loro ombre sul suolo raso. Qui turbe fanatiche, con i torsi nudi tatuati di simboli azzurri, con le braccia avvolte di colubri11, o con canestre di grano sul capo, o con

10 De Martino critica l’impostazione “residualistica” di Pitrè, contemporaneo di D’Annunzio e

maestro di Finamore, nell’Introduzione alla Terra del rimorso, dove è ben delineato in altri termini il dramma delle plebi rustiche del Mezzogiorno d’Italia (1961).

11 Nell’opera di D’Annunzio ritorna spesso l’immagine degli uomini tatuati di azzurro, in

134 serti di rose e di vitalbe, vanno dietro i loro idoli gridando, stupefatti dalla monotonia delle loro grida. Qui la vergine dai capelli rossi che le cingono la fronte come un diadema di fuoco, chiusa nella sua profonda inconsapevolezza, conduce al pascolo di primavera la vacca gravida portando nel pugno una canna fronzuta da cui geme la linfa interrotta. Qui la vergine esangue, liberata da una fattura d’amore, dopo aver veduta la faccia della Morte, va a sciogliere un voto in compagnia del suo parentado che porta il dono della cera; e il gracile fantasma bianco, in mezzo alle belle femmine feconde, in mezzo agli agricoltori adusti e nodosi, passa quasi aereo nella luce del meriggio, sotto un azzurro inesorabile, lungo la messe alta bionda e infinita. Tutti i drammi e tutti gli idilli, tutte le immagini della gioja e del dolore di nostra gente sono qui come un visibile poema. E in ognuno di questi esseri l’artefice lascia intravedere un’anima senza limiti, il mistero delle sensazioni confuse, la profondità della vita inconsapevole, le meraviglie del sogno involontario ereditato (D’Annunzio, 1996, II: 189-190) [corsivo mio].

Anche qui, sebbene in maniera più idealizzata, emergono gli elementi che connotano la visione del folklore da parte di D’Annunzio. Quella abruzzese è una razza a parte e antichissima, che ha mantenuto le sue credenze e tradizioni millenarie, proprio perché promanano biologicamente dalla sua stessa natura, come tare ereditarie. La fede è fanatica e selvaggia, dunque, pre-cristiana, feroce. I santi sono in realtà idoli. Incantesimi e fatture fanno parte della vita di ogni giorno. Si scopre così che la misteriosa giovane donna col manto rosso nel costume tradizionale di Orsogna, raffigurata nei bozzetti michettiani per La figlia di Jorio, è in realtà una femme fatale, maga o strega, racchiusa nel suo mistero inattingibile (cfr. infra: fig. 2).

Anche da queste brevi note sarà facile cogliere quanto sia grande la distanza dalla lettura dei fatti folklorici che offre De Nino. Infatti, l’approccio di De Nino allo studio del folklore è proprio di un tardo positivismo. Il suo sguardo è quello di uno pseudo-scienziato in cerca di fatti curiosi e “bizzarri12

errori popolari ed è profondamente scettico riguardo alla materia narrata, mentre il tono dei suoi resoconti è essenzialmente scanzonato, quando non addirittura canzonatorio. A titolo di esempio, riporterò le parole di De Nino a proposito della festa di San Giovanni13 - che è lo sfondo cultuale della

dannunziana Figlia di Iorio:

al culto di San Domenico a Cocullo, rammentato varie volte nelle Novelle e nel Trionfo e soprattutto nella Fiaccola sotto il moggio, dove uno dei protagonisti è un serparo.

12 Il termine è di De Nino stesso, nell’introduzione Al Lettore (1963 [1879]: VIII).

13 Qui di seguito ne riporto anche altri a riprova di quanto detto: [La festa di San Giovanni:]

“Simile a un uso bolognese è questo ancora delle nostre giovinette. In mezzo a una camera oscura esse mettono tre piatti: uno con fior di farina, uno con farina semplice e uno con crusca.

135 [Ascensione alla Plaja:] – Attenzione! Il sole, appena esce, fa tre salti; e si vedrà comparire la testa di San Giovanni grondante sangue … - Ecco, spuntano i primi raggi. Tutti con la bocca aperta, con gli occhi spalancati, col respiro d’un tisico … Ecco … ecco … il sole si leva … abbarbaglia le pupille… - Oh, vedi? Sì, sì! No! Come? Non hai visto? – Ho visto un par di stivali! (1963 [1879]: 3).

Si potrebbero aggiungere molti altri esempi, dove De Nino mette in evidenza grasse mangiate invece di rituali barbarici, o dichiara che sedurrebbe volentieri qualche bella contadina. Completamente diverso è, invece, l’approccio al folklore di Gennaro Finamore, studioso che viene spesso associato a De Nino nei testi dei critici letterari, senza i dovuti distinguo. Le opere di Finamore si differenziano per una maggiore precisione, suddivisione e repertorizzazione dei fatti folklorici; l’atteggiamento nei confronti della materia narrata è molto più serio, ispirato da una impostazione vagamente arcaizzante e fenomenologica, come emerge chiaramente da questo passo sempre concernente la festa di San Giovanni, dato che agevola il confronto con quelli precedenti:

[S. Giovanni:] Generazioni, religioni, civiltà, barbarie, tutta una corrente di vita storica si è svolta, e quella intuizione del divino che nella giovinezza dell’umanità fu atto della coscienza ariana, dà ancora lampi, alla memoria dei presenti si riaffaccia, ed è ragione di credenze, di riti, di usanze, che vivono tuttora in mezzo a noi. La festa di s. Giovanni, più che una reliquia, è come un saldo monumento di una età anteriore alla storia, che il dente del tempo ha intaccato, ma non distrutto (1988 [1890]: 152).

In Finamore più che in De Nino, dunque, D’Annunzio può aver trovato una chiave di lettura dei fatti folklorici vicina alla propria sensibilità e alla propria concezione mitico-simbolica, come vedremo meglio in seguito.

Entra la giovane che vuol mettersi alla prova, e afferra uno dei piatti. Ci siamo dunque all’oroscopo: buon matrimonio, se fior di farina; mediocre, se farina semplice; disgraziato, se crusca. C’è chi ripete la prova, anche segretamente, fino a che non ne rimane contenta. – Care illusioni!” (1963 [1879]: 88). [Abluzioni in San Giovanni:] “Ragazzi e giovani e vecchi; uomini e donne, tutti si curvano sulla Fontanella e, allegri e modesti, si lavano mani e viso. Eppure dunque qualcosa ci si guadagna. A molti per quella mattina non si può dire: - Hai una faccia dove si può seminare prezzemolo! – La faccia bestiale che non era stata lavata per più mesi, ritorna faccia di uomo” (1963 [1879]: 107). [In San Giovanni al fiume:] “Si tuffano, si guerreggiano