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1.5. La festa nello Zibaldone

1.5.2. La lunga riflessione sulle feste del

La riflessione del 3 agosto 1821 occupa ben dieci pagine dello Zibaldone (1438-1448), ma la dissertazione si completa attraverso gli opportuni richiami, segnalati da Leopardi stesso nell’Indice, alle pagine 2255, 2322 e 60, e anche con le riflessioni del 10 maggio 1821 (Zib: 1026), del 1 settembre del 1821 (Zib: 1605) e del 27 novembre 1820 (Zib: 357), andando a formare un nucleo di analisi fortemente unitario. Esso rappresenta lo snodo cruciale della meditazione leopardiana sulla questione della festa e una delle sezioni più fortemente antropologiche, nel senso disciplinare attuale, dello Zibaldone. La dissertazione, che assume la forma di un piccolo trattato, ha lo scopo di chiarire la natura e le caratteristiche dei fenomeni festivi, procedendo a una loro classificazione – esigenza sempre molto avvertita da Leopardi – attraverso la tipica struttura dialettico-oppositiva del suo ragionamento. Così Leopardi rintraccia varie distinzioni che sono, in realtà, opposizioni sia a livello di significato che di ricaduta sociale (o performativa): quella tra le feste antiche e le feste moderne, quella tra le feste religiose e civili, quella tra le feste romane e le feste giudaiche, quella fra feste popolari e feste nazionali, fino a quella più importante tra feste popolari e non popolari, che è il vero cuore del problema che lo interessa. In breve, la questione che attanaglia Leopardi, sebbene per motivazioni diverse, è quella stessa che ha a lungo travagliato le riflessioni degli antropologi e dei demologi negli anni ’80 del ‘900, ovvero, se esistano ancora delle feste ‘realmente’ popolari.

Il ragionamento sulla festa prende le mosse dall’asserzione conclusiva della pagina 60, che recita: “Ragionevolezza benchè illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche in questo riguardo”. La pagina stabiliva già dalla data del 1819 la funzione positiva della festa e la sua ragionevolezza come istituzione per l’esistenza umana, in quanto fonte di piacere. Anche da ciò si può capire quanto sia lontano Leopardi dalle polemiche illuministiche che sono, ad esempio, ravvisabili nella voce dell’Encyclopédie di Faiguet. Leopardi, in seguito, nel maggio 1821 forse in relazione ai moti rivoluzionari, ha un momento d’entusiasmo che coinvolge anche le feste civili

69 (“patriotiche”), di cui viene messa in luce la funzione generatrice di forza e di virtù per il popolo, avvicinandosi quasi alle rousseauiane Considérations:

Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli e sentimento di se stessi, rianimassero con qualche sostanza con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società, se ci restituissero una patria, se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita e diverrebbero grandi e forti e formidabili (Zib: 1026).

Ma a distanza di pochi mesi sente il bisogno di ritornare sulla questione con un punto di vista più esteso e articolato, volto in primis a sciogliere l’accorpamento precedentemente tracciato tra le feste ecclesiastiche e quelle civili, fino a negare sostanzialmente la possibilità di quanto aveva entusiasticamente affermato. La riflessione agostana, che sembra riprendere il filo del discorso proprio laddove si era interrotto alla pagina 60, si apre nuovamente con la dichiarazione che quella delle feste cristiane è una bellissima istituzione:

Bellissima istituzione è quella del Cristianesimo di consacrare ciascun giorno alla memoria di qualcuno de' suoi Eroi, o di qualcuno de' suoi fasti, celebrando con solennità, o generalmente universalmente quei giorni che appartengono alla memoria de' fasti più importanti alla Chiesa universale, o particolarmente quei giorni che spettano ad un Eroe la cui memoria interessa questo o quel luogo in particolare ec. ec. Dal che risultano le uniche feste popolari che questo tempo conservi. E l'influenza delle feste popolari sulle nazioni è somma, degnissima di calcolo per li politici, utilissima quando risveglia gli animi alla gloria, colla rimembranza, e la pubblica e solenne celebrazione e quasi proposizione de' grandi esempi ec. (Zib: 1438)

In questo incipit utilizza nelle prime frasi la parola “memoria” tre volte e poco dopo la parola “rimembranza”, stabilendo di nuovo un collegamento tra festa e funzione memoriale. L’enunciazione chiave, però, è che le uniche feste davvero popolari sono quelle religiose, scindendole dalle feste civili e implicitamente opponendole a esse. Con feste religiose intende tanto quelle che si svolgono in relazione al calendario liturgico cattolico (le “solennità” e i “fasti”) o che hanno la loro giustificazione come commemorazione anniversaria di grandi esempi del mito cristiano, quanto quelle che celebrano la memoria di un “Eroe” - santo o deus loci - che “interessa quel luogo in

70 particolare”, riferendosi con ogni probabilità alle feste patronali e locali - oggetto degli studi demologici odierni. Il suo concetto di popolarità, invece, Leopardi lo chiarirà in seguito nella trattazione. Inoltre, Leopardi mette in luce che tali feste hanno una grande influenza sulla nazione, aspetto còlto anche dagli uomini politici, che le utilizzano spesso per i loro “calcoli”.

A questo punto il ragionamento di Leopardi fa una brusca virata e intenta un’anamnesi storica e genetica: l’epoca cristiana che mancava già di vita e fermentava in uno stadio tra la noia e la morte, non potendo essere l’origine di un istituto così pieno di vitalismo, di energia e di attività, ha necessariamente ricevuto la festa dal mondo antico, infondendole però la sua impronta esclusivamente religiosa e determinando al contempo e dolorosamente la scomparsa delle feste nazionali. Da qui Leopardi inizia la distinzione fra le feste nazionali antiche e moderne. Con feste nazionali moderne intende primariamente le feste onomastiche o anniversarie dei principi, o della loro incoronazione, quelle – per inciso – di cui si parla nella voce “Fête” dell’Encyclopédie. Si tratta di eventi in cui domina l’etichetta e che presentano uno squilibrio fra dominanti e dominati, i quali non partecipano affatto, ma sono quasi spettatori di una rappresentazione loro offerta, in cui si celebra la grandezza del principe. Questo squilibrio, questo dislivello di rapporti, che non è annullato ma sancito dalla festa-spettacolo, non può che generare invidia, odio o biasimo, al contrario dell’entusiasmo e delle generose virtù espressione della festa antica. Infatti:

la disuguaglianza toglie e la distanza delle condizioni fra l'onorato, e chi l'onora, toglie ancora quell'affezione, quell'inclinazione, quella specie di amicizia, che nelle antiche feste nazionali legava il popolo co' suoi passati Eroi, ed era capace di eccitare generosamente gli animi (Zib: 1441).

Leopardi trae complessivamente questa conclusione, ovvero, che la festa nazionale degli antichi era spiritualmente popolare e che, quindi, nel mondo antico le feste nazionali e le feste popolari coincidevano; al contrario nella modernità le feste cosiddette nazionali non sono più feste popolari e, dunque, neanche più vere feste, in quanto la festa per essere tale non può che essere popolare. Se ne deduce che la condizione principale affinché la ‘vera’ festa si verifichi è rintracciata nell’uguaglianza che vi si stabilisce, che è la sola a generare entusiasmo, partecipazione, concordia, spontaneità e spegnimento delle passioni individuali (Zib: 1440) e la quale unisce il popolo in

71 comunione125 (“affezione”, “amicizia” e “nazione”), legandolo agli eroi del

passato. Pertanto le attuali feste civili, non più popolari e incapaci di smuovere gli animi, risultano del tutto inutili per l’umanità.

Inizia, quindi, una disquisizione sulle feste del popolo ebraico, in cui l’elemento religioso e quello nazional-popolare erano indissolubilmente legati. In questo caso gli eroi celebrati dagli ebrei erano anche i loro santi, cioè, condividevano allo stesso tempo la marca dell’appartenenza etnica e quella della missione divina, essendo rappresentanti della nazione ebraica e della volontà del loro dio, fondatori della stirpe e della religione. Questa precisazione serve a Leopardi per stabilire il contrasto con le moderne feste cristiane, sì popolari, ma non più nazionali, essendo gli eroi di tali feste – i santi cristiani perlopiù di origine orientale - totalmente scissi da ogni rapporto con la nazione. Per opporre gli effetti della festa antica e quelli della moderna, osserva che il culto cristiano, essendo molto più spirituale rispetto ai culti degli ebrei e dei romani caratterizzati da una forte materialità, è del tutto inadatto a suscitare le virtù, le grandi illusioni, l’effervescenza vitale. Come sempre in Leopardi l’elemento della spiritualizzazione riveste un carattere negativo, in quanto espressione di un predominio della Ragione sulla Natura, dalla cui parte sta invece la materialità o corporeità, espressione di vitalismo e di eroismo.

Leopardi enuclea, poi, una questione che sembra alludere alla funzione identitaria della festa. Pur non utilizzando tale termine, l’attenzione dedicata al tempio di Salomone e alla pratica di tutto il popolo ebraico di recarvisi ogni anno lo porta alla conclusione dell’“esser tutta la Religione Giudaica quasi rinchiusa e immedesimata in quel tempio”, cogliendo in tale elemento materiale e nella festa, di cui rappresenta il fulcro, la carica di demarcatori dell’identità etnico-religiosa, che egli definisce “nazionale”. A questo punto passa a stabilire come presso greci e latini le feste fossero tutte nazionali, sebbene non tutte fossero religiose, a differenza di quanto accadeva presso gli ebrei. Distingue pertanto tra feste religiose, perlopiù anniversarie, e feste non religiose e non anniversarie, come il trionfo - quest’ultimo funzionale all’opposizione tra le feste nazionali moderne e quelle antiche, celebrate in onore di un uomo vivo:

I trionfi presso i Romani erano vere feste nazionali, benchè non anniversarie. Nè faceva alcun danno che forse la principal parte dell'onore di quella festa fosse renduto a un uomo vivo. 1. Non era egli che se lo

125 In questa direzione sembra avvicinarsi al concetto di communitas di Turner, il quale sostiene

che durante la fase liminale del rite de passage si attui una sorta di comunione fra individui eguali, che si oppone, ovviamente temporaneamente, alla struttura gerarchica della società (1972). Questo concetto è stato anche spesso utilizzato nell’interpretazione dei fenomeni festivi.

72 decretava, nè una truppa di servi e di adulatori che glielo concedeva, ma il senato ec. uguale a lui ec. 2. Per quanto egli fosse potente, non era mai più potente del popolo che celebrava la festa; anzi era in istato di tornare un giorno o l'altro come qualunque del volgo privato. 3. L'esempio suo non era inimitabile ai quelli romani, a' quali tutti era aperta la carriera degli offici pubblici. 4. Bench'egli facesse la principal figura, la festa era però nazionale, perchè concerneva le vittorie riportate dalla stessa nazione sopra i nemici suoi propri, e non vero rappresentante della nazione, perch'eletto da essa ec. e non rappresentante del principe, o rappresentante, come dicono, di Dio. 6. Questo era in somma un premio che la nazione libera e padrona concedeva spontaneamente a un suo suddito, e quindi l'effetto di dette feste, è era quello dei grandi premi che eccitano alla emulazione, ed animano col desiderio e la speranza di conseguirli (Zib: 1445-1446).

Ciò segna un grande diversità rispetto all’epoca di Leopardi, quando invece è sempre e comunque il principe a decretarla per i propri sudditi, che vi prendono parte come invitati, venendo così a mancare gli elementi della possibilità di emulazione, della partecipazione attiva alla festa e, in particolare, dell’uguaglianza. Questo è l’elemento chiave volto a ribadire la concezione di popolarità della festa secondo Leopardi.

Leopardi ritorna, infine, sulle uniche feste popolari moderne, cioè, quelle religiose, ritenendole essenzialmente delle feste anniversarie e delineando brevemente quali poterono essere state le celebrazioni antiche all’origine di queste, rintracciate principalmente nelle feste genetliache. In prima battuta porta come esempio solo l’abitudine dei discepoli di una dottrina filosofica di celebrare il compleanno del loro fondatore (“l'usanza de' settari de' diversi filosofi di celebrare ogni anno con conviti ec. la festa genetliaca dell'ἀρχηγὸς della loro setta”), traendolo dalla Vita Plotini di Porfirio. Tuttavia a distanza di qualche mese, il 15 dicembre 1821 (Zib: 2255), ritorna sull’argomento, segnalando come fosse un’usanza assai diffusa nel mondo classico quella di celebrare la data di nascita non solo dei vivi ma anche dei grandi uomini pubblici defunti, facendo riferimento a vari casi offerti nelle Odi di Orazio e dalla Vita Virgilii di Heyne. Nella nota del 2 gennaio 1822 (Zib: 2322) precisa che, in realtà, gli antichi celebravano non solo gli anniversari delle nascite ma anche quelli delle morti, e a questo proposito fa riferimento all’Eneide, V libro, vv. 46- 54126. Inoltre introduce il tema delle feste celebrate in commemorazione di una

vittoria in battaglia, portando l’esempio dei giochi aziaci e delle feste ateniesi in

126 Si riferisce qui all’istituzione dei ludi funebres in onore di Anchise, a un anno esatto dalla sua

73 onore di Atena, nel giorno della vittoria di Maratona o Salamina127. In questo

breve passo sembra cogliere l’elemento assai significativo che la festa è un fenomeno in cui su un nucleo originario spesso si stratificano storicamente azioni e intenti differenti, spesso di origine politica (“Celebravano annualmente in diversi tempi, diverse regolari festività in onore di questo o quel Dio, aggiunteci bene spesso delle ricordanze di cose patrie”). A questo proposito cita le Cereali ad Atene128, e a Roma i Lupercalia129, i Ludi saeculares130, e non meglio

precisate feste in onore di Bacco. Oggi diremmo che il suo significato è continuamente rinegoziato e, a generazioni di distanza, la festa nel suo intrinseco attualismo viene risemantizzata. Da questo primo blocco di riflessione possiamo anche estrapolare che per Leopardi la festa religiosa, antica e moderna, trovi il suo fondamento nell’anniversario, di morte o di nascita, di un “eroe culturale131”. Riguardo ciò, è significativo che utilizzi proprio il

termine “Eroe” in un’accezione molto ampia, riferendosi a santi, divinità o personaggi storici mitizzati. Tale lettura non è lontana dalle interpretazioni di molti antropologi e storici delle religioni che hanno letto la festa come attualizzazione, riscrittura o rifondazione di un mito132.

127 Qui le fonti o i ricordi di Leopardi vacillano, in quanto la festa che coincideva con la

commemorazione della vittoria di Maratona era quella di Artemide Agrotera. Le feste Panatenee in onore di Atena si svolgevano fra luglio e agosto, avevano una struttura complessa e quelle più importanti non erano a cadenza annuale. Invece, la battaglia di Salamina si svolse probabilmente nel settembre del 480 a. C. (Hunziker, 1877; Parke, 1994: 33, 54-55).

128 Probabilmente si riferisce alle Tesmoforie. Altre feste in onore di Demetra sono i celebri

Misteri Eleusini, descritti con un capitolo a parte in Barthélemy, Tomo V, capitolo LXVIII (1789).

129 I Lupercalia si svolgevano alle Idi di febbraio, in onore del dio Fauno. Per la maggior parte

degli studiosi si tratterebbe di una festa di origine pastorale e il termine deriverebbe dagli officianti del rito (luperci), a sua volta derivato da “lupum arceo”, la cui corsa intorno al Palatino aveva la funzione di allontanare i lupi. Di notizie su una stratificazione di nuove istanze politiche sopra la base pastorale della festa ne abbiamo poche, perciò non saprei a cosa si riferisca Leopardi con precisione: nel 44 a.C. Antonio, in veste di lupercus, offrì una corona a Cesare che la rifiutò, vista la disapprovazione del popolo; sappiamo che in seguito Augusto restaurò la festa e che fu indetta ancora nel 494 d.C. per stornare una pestilenza, suscitando le ire di papa Gelasio I (Di Nola, 1973: 537-538; Sabbatucci, 1988: 60).

130 I ludi saeculares furono rivitalizzati da Augusto il 17 d. C. In quella occasione Orazio compose

il Carmen saeculare in onore di Apollo e Diana. Essi in questa circostanza assumono una forte impronta politica.

131 Uso questo termine, estrapolandolo dalla letteratura etnologica e antropologica, mutatis mutandis, in riferimento ai santi del culto cristiano e alle divinità dei culti pre-cristiani di cui

parla Leopardi, i quali spesso localmente assumono tratti demiurgici per le comunità che li venerano come patroni. Se non sono fondatori della civiltà né dell’istituzione festiva in senso stretto, essi rivestono almeno il ruolo di eroi locali, e dunque della cultura di quella comunità. Sul termine in senso stretto, invece, si veda Di Nola (1970b).

74 L’entusiasmo del 3 agosto trova, tuttavia, il suo magro corollario nella sintetica asserzione del 1 settembre 1821:

Le odierne feste Cristiane son veramente popolari, ma inutili oramai al sentimento, all'entusiasmo, ec. e quindi inutilmente popolari. Il popolo non vi prende parte, se non come la prende agli spettacoli, a' divertimenti ec. anzi alquanto meno, perché p. e. gli spettacoli teatrali lo possono animare, commuovere, e lasciargli qualche impressione nello spirito; ma dopo le feste Cristiane egli se ne torna a casa col cuore posato, equilibrato, freddo, immoto come prima (Zib: 1605).

Dal suo osservatorio, Leopardi constata amaramente che neanche le feste cristiane, pur essendo popolari, sono ormai un incitamento alla vita e alla virtù. Inoltre significativamente riproduce la stessa contrapposizione rousseauiana tra spettacolo teatrale e festa. Non mi è possibile stabilire se Leopardi abbia letto davvero la Lettre sur les spectacles, soprattutto all’altezza del 1821, tuttavia in questo caso i termini del contendere risultano esattamente gli stessi, tanto da far supporre che fosse almeno a conoscenza del dibattito. L’idea di un popolo spettatore - “invitato” dice Leopardi - era già emersa in relazione alla discussione sulle moderne feste dei principi, ma qui l’opposizione tra i poli dello “spettacolo” e della “festa” è apertamente dichiarata. Un altro elemento che ricorre significativamente fra i due autori è il tema del “cuore”. Se per Rousseau il teatro esaspera le emozioni, determinando un esacerbamento del cuore incapace di produrre virtù nel malvagio e passibile di demoralizzare il virtuoso, e l’unica onesta possibilità di divertimento risiede nella festa, Leopardi ribalta icasticamente i termini della questione col constatare che è la festa ad aver perso ogni possibilità di smuovere il cuore degli uomini, tanto quella civile quanto quelle religiosa, capovolgendo così le conclusioni del ginevrino. Leopardi non ne parla in maniera precisa, ma si può immaginare che stia pensando alle grandi festività cristiane, come il Natale e la Pasqua, le quali hanno perso l’aspetto della partecipazione popolare e sono degenerate con il loro monumentale apparato da sacra rappresentazione a mero spettacolo. Da esse l’uomo moderno si sente ormai lontano, estraneo e quasi del tutto indifferente nel suo cammino verso la Ragione.

Uguale sorte accomuna le feste della Rivoluzione, nella riflessione del 20 novembre 1820:

I fasti della rivoluzione abbondano di altre prove di quello ch’io dico, e dimostrano qual fosse l’assunto dei riformatori. Si eressero altari alla Dea ragione: Condorcet nel piano di educazione presentato all’Assemblea

75 legislativa ai 21 e 22 aprile 1792 proponeva l’abolizione e proscrizione anche della religion naturale, come irragionevole e contraria alla filosofia, e così di tutte le altre religioni […] Non parlo del nuovo calendario, della festa all’Essere Supremo di Robespierre ec. Insomma lo scopo non solo dei fanatici, ma dei sommi filosofi francesi o precursori o attori o in qualunque modo complici della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente filosofo e ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango principalmente per aver creduto alla chimera del potersi realizzare un sogno e un’utopia, ma per non aver veduto che ragione e vita sono due cose incompatibili, anzi avere stimato che l’uso intiero, esatto e universale della ragione e della filosofia dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte della vita e della forza e della felicità di un popolo (27 novembre 1820) (Zib: 357, 358).

Leopardi mostra di essere pienamente a conoscenza dei fatti, citando addirittura il piano di educazione presentato da Condorcet all’assemblea legislativa il 20 e 21 aprile del 1792. Tuttavia, anche in questo caso il suo sguardo critico è feroce e lungimirante; tali feste insieme al calendario rivoluzionario che le sanciva scompariranno, infatti, senza lasciar alcuna traccia con i loro ideatori. Ma aldilà di ciò il passo è importante perché stabilisce che non è possibile istituire una festa “ragionevole” o basata sulla filosofia come pensavano di poter fare Condorcet e Robespierre, perché la Ragione e la filosofia non producono gioia, ma infelicità e freddezza, mentre la festa ha a che fare con la felicità, con la vita e con la forza degli uomini, e sta dalla parte della Natura. Si può intuire, così, con quanto sarcasmo Leopardi immagini una festa intorno all’altare della Dea Ragione, apparendogli più un ossimoro che un’utopia.

Dalla lettura di questi testi, che formano quasi un trattato unitario, si può