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Tavola 3. La festa nelle Novelle della Pescara

4.1. Il Trionfo della morte come “romanzo etnografico”?

Il Trionfo della morte di D’Annunzio si trova citato in ben due opere piuttosto recenti di celebri e molto tradotti antropologi statunitensi. Segno che l’opera dannunziana ha suscitato un certo interesse non solo nel versante demologico italiano, ma anche nel più ampio ambito antropologico a livello mondiale. Si tratta delle parole di Crapanzano nel saggio Tuhami (1980), riportate però anche in Opere e vite di Geertz:

Sono sempre stato affascinato dalla descrizione che D’Annunzio fa nel Trionfo della morte (19001) del desiderio ossessivo dell’eroe e dell’eroina di conoscersi totalmente l’un l’altro. La presunzione che questa conoscenza possa esser raggiunta può avere due diversi fondamenti: credere nel totale possesso sessuale – un possesso che giunge, come aveva capito D’Annunzio, ad un annientamento totale – oppure ridurre l’Altro a

1 In realtà nel 1894.

180 qualcosa che può essere afferrato una volta per tutte, un esemplare. L’uno oggetto di passione, e l’altro, prodotto di scienza, in realtà non possono essere separati così facilmente, e, naturalmente, tutti e due sono illusori (Crapanzano in Geertz, 1990 [1988]: 104).

In realtà, l’immagine dell’amore ossessivo, divorante, fra Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, soprattutto quello che è descritto nella prima parte del romanzo, è scelta come metafora per illuminare i problemi teorici e i rischi insiti nella conoscenza etnografica, secondo le modalità tipiche dell’antropologia ermeneutica statunitense. Non è dato sapere, dalle sue parole, se Crapanzano abbia anche riflettuto sui risvolti etnografici del Trionfo della morte. Tuttavia su tale questione D’Annunzio è assai esplicito e ce ne dà contezza in primis attraverso l’elaborato apparato paratestuale dell’opera.

Nella lunga dedica a Michetti, ivi definito Cenobiarca, attraverso un articolato gioco metaforico, tra l’altro, introduce anche il tema della festa2:

Tu ritroverai dunque, o Cenobiarca, in questa prosa che ti ho scritta, qualche precisa imagine e qualche nobile ritmo. Durante un lustro io ho portata in me questa prosa per arricchirla e per addensarla. Come negli antichi Trionfi della Morte il pittore adunava le fuggitive grazie della Vita, così in questo Trionfo io più volte

le feste ho celebrato

de' suoni, de' colori e de le forme3 (TDM: 643).

Qui il concetto di festa è utilizzato in maniera metaforica per indicare gli artifici della lingua volti a suscitare nel lettore stupore e meraviglia, ma non è un caso che egli introduca attraverso questa immagine un tema che così ampio rilievo avrà nella narrazione. Si può anche notare lo studiato gioco di antitesi tra i “Trionfi della Morte” e la “Vita” e “questo Trionfo” della morte e la “festa”, dove “vita” e “festa” vengono equiparate in un’uguaglianza, che sarà poi smentita dallo svolgimento dell’intreccio narrativo. In seguito, di lì a poche righe, la dichiarazione dei contenuti etnologici presenti nel romanzo si fa esplicita:

[§1] E ti ho anche raccolta in più pagine, o Cenobiarca, l'antichissima poesia di nostra gente: quella poesia che tu primo comprendesti e che per sempre ami. Qui sono le imagini della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare.

2 D’ora in poi, per quanto riguarda il Trionfo della morte, indico solo i numeri di pagina preceduti

dalla sigla TDM; tutti i riferimenti sono a D’Annunzio (2005).

3 I versi sono di D’Annunzio stesso, ripresi dalla Ballata VI e dall’Isotteo; cfr. Note in D’Annunzio

181 [§2] Sente talvolta il morituro passar nell'aria il soffio della primavera sacra; e, aspirando alla Forza, invocando un Intercessore per la Vita, ripensa la colonia votiva composta di fresca gioventù guerriera che un toro prodigioso, di singolar bellezza, condusse all'Adriatico lontano (TDM: 643- 644).

Nel primo paragrafo [§1], le tradizioni e le credenze popolari abruzzesi sono definite con le espressioni “poesia di nostra gente” e “selvaggia fede”, attraverso immagini che in parte riprendono e in parte stemperano la visione del folklore delineata attraverso le novelle. Inoltre, il magistero di Michetti in questo campo è riconosciuto e dichiarato apertamente (“che tu primo comprendesti”). Il secondo periodo [§2], tratta all’improvviso e, direi, in extremis degli influssi nicciani acquisiti dopo la stesura della prima parte del romanzo: il recupero del rito classico nel folklore, con l’evocazione della cerimonia del ver sacrum4 (“primavera sacra”), e l’invocazione all’Intercessore per la Vita, Zaratustra.

Ancora più netta è nell’appendice finale la dichiarazione della componente etnografica del romanzo:

NOTA AI LIBRI IV E V

Tutte le particolarità etniche del quarto libro e del quinto sono rigorosamente esatte. I capitoli V, VI e VII del quarto libro - intorno al Santuario di Casalbordino - sono il risultato di una osservazione diretta, ripetuta nello stesso luogo e alla stessa epoca per più anni di seguito. Un'egual cura di verità è nell'episodio del Novello Messia. Oreste, nato da Agapito de Amicis e da Maria Raffaella de Philippis il 27 aprile 1824 in Cappelle, morì nel suo letto la sera del 20 settembre 1889. Su questo Messia (distinto forse da caratteri più notevoli di quelli che Giacomo Barzellotti illustrò in Davide Lazzaretti) Antonio de Nino ha raccolto con la consueta diligenza molti curiosi documenti in un saggio, poco noto, intitolato Il Messia dell'Abruzzo (Lanciano, Rocco Carabba, ed., 1890) (TDM: 1019).

Sono almeno quattro i viaggi di D’Annunzio a Casalbordino per le sue ricognizioni sul campo di cui abbiamo contezza: il primo nel giugno 1887 con Michetti, il secondo nel 1889 con Barbara Leoni5, sua amante e ispiratrice della

4 Il ver sacrum è un antica cerimonia italica durante la quale, all’inizio della primavera, un

gruppo di giovani consacrati, guidati da un animale sacro (un picchio, un toro o un altro animale), venivano allontanati dalla comunità madre per andare a fondare una colonia. Secondo la tradizione quelle abruzzesi dei Marsi furono colonie che avevano come animale totemico il toro. D’Annunzio potrebbe aver trovato notizia di tale rito proprio in Finamore, nel capitolo dedicato alla festa di San Giovanni, dove lo studioso cita la Storia dei Marsi di Colantoni, che parla delle “sacre primavere” (1988 [1890]: 153).

182 figura di Ippolita Sanzio, e poi di nuovo con Michetti nel 1891 e nel 18936. I

taccuini di appunti dannunziani su queste spedizioni non sono stati reperiti7,

ma potremmo ricostruire un ideale diario di campo dell’“osservazione diretta” di D’Annunzio alla festa della Madonna dei Miracoli a Casalbordino, attraverso alcune lettere che D’Annunzio scrisse a Barbara Leoni8. Da queste lettere non

6 Cfr. le Note (D’Annunzio, 2005: 1288).

7 Le edizioni dei taccuini dannunziani reperiti sono quelle a cura di Bianchetti e Forcella

(D’Annunzio, 1965) e Bianchetti (D’Annunzio, 1976); fra essi non è presente nessuno dei taccuini etnografici che dobbiamo supporre D’Annunzio abbia scritto.

8 [Lettera a Barbara Leoni dell’11 giugno 1887:] Jeri mattina, prima dell’alba, partimmo per

Casalbordino. La chiesa della Madonna dei Miracoli è in mezzo a una pianura limitata dal mare. Una moltitudine immensa di fanatici si agitava intorno alla chiesa gridando. Lo spettacolo era terribile. Dinanzi all’Immagine centinaia di femmine cenciose, tutte sanguinanti, si trascinavano nella polvere. Gli urli, i pianti, gli strepiti salivano al cielo. Una polvere ardente avvolgeva ogni cosa, e il sole bruciava come una viva fiamma su la pianura aperta. Siamo rimasti là sette ore. La moltitudine si rinnovava di continuo. Non ti dirò quel che ho veduto! Stanchi, siamo andati in cerca d’ombra. Ma mi tormentava il pensiero della lettera che doveva essere certamente a Casalbordino. Il paese è lontano dalla chiesa circa tre chilometri. Allora ho lasciato i miei amici all’ombra di certe grandi querci sul ciglio di un fossato; e sono andato a Casalbordino, a cavallo. La strada era bianchissima, d’una bianchezza accecante, a traverso campi di frumento. Il sole ardeva a sommo del cielo, nell’azzurro crudele. Ai lati della strada, di tratto in tratto, stavano distesi in mezzo alla polvere certi esseri deformi che non avevano più apparenza di creature umane: uomini malati d’elefantiasi, che mostravano una gamba nericcia, enorme come un tronco d’albero; uomini storpii che tendevano le mani ritorte come radici; ciechi che avevano li occhi incavati e rossi, d’onde sgorgavano materie purulente; lebbrosi tutti coperti di piaghe; donne idropiche che scoprivano il ventre gonfio, per muovere la pietà; tutte le più miserabili deformità e le infermità più ributtanti erano là tra la polvere, al pieno sole. Che cavalcata lugubre fu la mia! Quegli esseri chiedevano l’elemosina urlando ed avvoltolandosi tra la polvere con gesti così disperati ch’io mi sentii d’un tratto invadere da una specie di sbigottimento. Spronai il cavallo e giunsi su la piazza di Casalbordino a gran carriera. Non avevo sbagliato; la tua lettera c’era. Come ti ringraziò il mio cuore, Barbara! Ma era una lettera triste, piena di singhiozzi e di lacrime. Ripassai per la strada dei mendicanti. Avevo il cuore così gonfio che non sapevo più trattenere il pianto. Quei miserabili urlavano ancora, mostrandomi le loro piaghe, tendendomi i loro moncherini, guardandomi con i loro occhi bestiali dalle palpebre infiammate. Intorno, la campagna ondeggiava nella sua bella opulenza; e, al fondo, il mare vaniva in un colore virginale, tra il verde del berillo e l’azzurro della turchese. Che giorno indimenticabile! Quando jeri sera tornai a casa, avevo intorno alla fronte un cerchio come di fuoco, e la stanchezza era così invincibile che a pena mi gettai sul divano, mi addormentai d’un sonno pesante come la morte (in D’Annunzio, 2005: 1331). [Lettera a Barbara Leoni del 10 giugno

1891:] Jeri mattina partimmo per Casalbordino io Ciccillo [Michetti] e Costantino Barbella, col

primo treno, con il medesimo treno che portò me e te a San Vito due anni fa. Che giornata orribile! Che fatica! Incominciammo già con una corsa precipitosa per arrivare in tempo alla stazione e finimmo con un’attesa di cinque ore in una piccola cantina di Casalbordino, morti di stanchezza, inebetiti, taciturni. Nella tua lettera da Subiaco tu nomini le ginestre. Jeri mattina, passando col treno, passando tra le due gallerie nostre, vidi il paradiso perduto che era tutto fiorito di ginestre, ammantato di giallo come in un capitolo dell’Invincibile [è la prima stesura del Trionfo]. Il profumo mi giunse nella fuga. E Ciccillo diceva sorridendo: “Cari luoghi!”. E rammentammo tutt’e tre il pranzo allegro sotto la quercia. Non ti dico nulla della mia anima. Ti racconto qualche piccolo fatto. Alla stazione di San Vito rividi il pazzo, quel povero diavolo che

183 emerge nessuna attenzione per il rituale di Casalbordino in sé, essendo tutte incentrate sulle sensazioni di D’Annunzio, provocategli dalla visione dei malati che si recavano al santuario nella speranza del miracolo. Essi vengono descritti non solo nei consueti termini di fanatici e di selvaggi, ma paragonati ad animali e anche a piante, come appartenenti a specie subumane e ributtanti. L’impressione che ne ricava sembra particolarmente torturante, se le fiamme dei loro occhi paiono averlo contagiato al suo ritorno a casa.

Certo quel che possiamo ricostruire è ben poca cosa rispetto ai meticolosi carnets d’enquête di uno scrittore come Zola, che sono stati anche pubblicati a parte, come quelli di Lourdes9, “romanzo etnografico” che uscì in

contemporanea al Trionfo della morte e opera che D’Annunzio fu accusato di aver plagiato per l’episodio del fanatismo religioso a Casalbordino. Il fatto impedì anche che la prima traduzione in francese del Trionfo, fatta da Hérelle, fosse pubblicata per intero; infatti, tutto l’episodio di Casalbordino – insieme ad altri in verità - venne espunto per intervento di Brunetière, editore della Revue des deux mondes10. Ad oggi pare che le accuse siano del tutto infondate, in quanto la prima puntata di Lourdes comparve solo il 15 aprile 1894, quando il Trionfo era già concluso e consegnato a Treves11, che lo pubblicherà nel maggio

del 1894. Ma più che i tempi di pubblicazione giocano a favore le lettere, che testimoniano l’interesse autentico di D’Annunzio per il fenomeno religioso folklorico fin da tempi assolutamente non sospetti. Tuttavia la notizia dell’inchiesta di Zola a Lourdes era giunta in Italia assai prima sia della stesura definitiva del romanzo zoliano che del termine di quello dannunziano, come testimoniato da una lettera dello stesso D’Annunzio a Treves (1° settembre 1893):

pare un orso melenso. Non te ne ricordi? Gli feci l’elemosina, anche da parte tua. Rividi la fornace, la viottola lungo il binario, il punto della spiaggia dove alzavamo la tenda gaudiosa, tutto come in una visione fulminea. A Casalbordino, al santuario, mi straziai ferocemente i nervi assistendo allo spettacolo selvaggio dei fanatici che giungevano in compagnie innumerabili. Urli, pianti, singhiozzi, cantilene, svenimenti tragici, sangue, lacrime, un sole cupo, un’afa schiacciante, un temporale nell’aria rossastra come il rame, tutte le tristezze … Dovemmo rimanere laggiù per molte ore, non potendo partire con nessun treno. Eravamo così stanchi che dopo mezzogiorno ci addormentammo nella campagna, sotto un albero. Io, cioè, non dormii. Rimasi disteso a pensare. A chi pensavo? Per chi soffrivo? Mi venne un dolore di capo insopportabile. Scendemmo alla stazione, lontana molto dal santuario, alle cinque. E non essendo riusciti a salire su un treno merci, dovemmo aspettare cinque ore per il treno delle dieci (in D’Annunzio, 2005: 1331-1332).

9 Il carnet d’enquête di questo romanzo è stato recentemente pubblicato anche in Italia col titolo Viaggio a Lourdes (2010).

10 Tutta la questione è riportata nel dettaglio nelle Note (D’Annunzio, 2005: 1295 ss.)

11 La dedica a Michetti recita “nel calen d’aprile del 1894”, mentre in calce al romanzo troviamo la

184 Lavoro con assiduità. Purtroppo, come sempre mi accade, il romanzo si complica e si allunga. Saranno circa 9000 cartelle come il Piacere. Certe parti (per esempio lo studio del fenomeno religioso in Abruzzo, su documenti che per atrocità faranno impallidire quelli raccolti a Lourdes da Zola) prendono un grande sviluppo (in D’Annunzio, 2005: 1289).

Questo passo è importante soprattutto perché ci mostra un D’Annunzio assai consapevole della posta in gioco nel “campo letterario” italo-francese. Anzi tutto il Trionfo della morte potrebbe, in parte, essere letto come un lungo J’accuse nei confronti di Zola. Infatti, D’Annunzio non esita a competere col maestro del Naturalismo, pur mutuandone il lessico, gli strumenti del mestiere e ancora in parte l’ideologia, come è testimoniato dalle espressioni “studio del fenomeno religioso in Abruzzo” e “documenti”, che rimanda al goncourtiano document humain12, ma anche “atrocità” (concetto che, però, dopo l’esperienza delle

novelle, è già autenticamente dannunziano), prendendo la propria posizione nel campo con la scelta di affrontare la questione del fenomeno religioso attraverso una traiettoria radicalmente diversa, dallo psicologismo introverso di Barrès al vitalismo dionisiaco di Nietzsche. In questa battaglia nel campo letterario, poi, non bisogna dimenticare che prenderà parte anche il discepolo ribelle di Zola, Huysmans, con Les foules de Lourdes del 1906.

Anche dal punto di vista di questo “studio del fenomeno religioso”, bisognerà comunque misurare le distanze fra i culti oggetto dei due romanzi. I tratti di similarità sono ravvisabili nel fatto che si tratta in entrambi i casi di santuari mariani, la cui leggenda di fondazione è legata a un’apparizione della Vergine Maria e a guarigioni miracolose. Nel caso di Casalbordino si tratta, però, di una manifestazione della Madonna della Misericordia, culto di origini assai antiche che ebbe il suo apice di diffusione nel periodo medievale - come testimoniano le numerose rappresentazioni dell’epoca secondo l’iconografia classica della Vergine col mantello spiegato sulle braccia in atto di proteggere i fedeli -, poi rinominata localmente Madonna dei Miracoli, in virtù delle numerose guarigioni avvenute nel santuario. Il numen di Lourdes, che nelle prime apparizioni si definisce semplicemente come la “bianca Signora”, s’identifica in seguito con l’Immacolata Concezione; figura dell’immaginario

12 Un recente riesame della questione del document humain nel naturalismo francese è in Scarpa

(2017), dove si legge: “C’est dans le journal des Goncourt (1956: 1081) qu’on la trouve pour la première fois […] Mais c’est Zola qui lui donne toute sa notoriété” (2017: 100-101). D’Annunzio utilizza l’espressione “documenti veramente umani” nella lettera a Nencioni del 24 giugno 1884 (De Felice et alii, 1978: 76).

185 molto più recente e più controversa, essa appare come l’ipostasi di un dogma della Chiesa Cattolica stabilito solo nel 1854, ovvero, quattro anni prima delle sue apparizioni a Bernadette. Abbiamo quindi un culto antico, quello di Casalbordino, la cui leggenda di fondazione risale al 1527, e un culto recentissimo ai tempi, quello di Lourdes che decorre dal 1858, solo una trentina di anni prima rispetto alla stesura del romanzo di Zola. Nel primo caso, poi, si verificò una sola apparizione miracolosa, secondo il tipico modello folklorico di fondazione dei santuari, dando origine a un culto in cui la pratica del pellegrinaggio venne ben presto assorbita e riformulata localmente nella tradizionale dimensione della festa folklorica, a cadenza annuale. Nel caso di Lourdes, invece, si tratta di un culto di recente introduzione che si esplica unicamente nella forma del pellegrinaggio - senza nessuna cadenza specifica -, e con modalità assolutamente moderne, dalla costituzione dei treni dei malati a quella dei barellieri, e con la presenza massiccia di preti, ma soprattutto di ambulatori, di medici e del celebre e già attivo bureau des constatations, cioè, attraverso il moderno fenomeno della ‘medicalizzazione del miracolo’. Ma per commentare il fenomeno che Zola descrive in Lourdes, conviene utilizzare le parole del magistrale saggio di Gallini:

Zola capita per caso a Lourdes, nell’estate del 1891. Il possente apparato simbolico che si dispiega ai suoi occhi di osservatore assieme affascinato e respinto è ormai nel suo pieno. Eppure, poco più di trent’anni sono passati dal tempo delle Apparizioni. Da allora, le parole della Vergine si sono tradotte nella realtà di una possente organizzazione capillare e centralizzata, capace ci convogliare masse enormi di pellegrini provenienti da tutte le parti della Francia e del mondo (1988: 4-5) […] Formazione storica recente, Lourdes è senza dubbio uno dei più importanti santuari cattolici dell’età contemporanea […] Ha un’organizzazione molto complessa, che le permette non solo di riprodursi e incrementarsi, ma anche di diffondersi con organi promozionali, come la stampa (1988: 7).

Sempre dall’analisi di Gallini sul romanzo zoliano, veniamo a sapere del fatto che anche l’introduzione di una specifica liturgia era avvenuta solo da quattro anni ai tempi dell’inchiesta di Zola, del 1891, ma era stata minuziosamente studiata a tavolino e organizzata da due prelati, Maria- Antonio e Lagardère (1988: 112). Gallini parla a questo proposito di “reinvenzione”, in quanto, la processione del SS. Sacramento, quella più importante13, non è una processione già esistente nel novero di quelle previste

dal calendario liturgico cattolico - e non ha neanche nulla a che vedere col culto

186 mariano o con le apparizioni in sé -, ma consiste nell’aver elevato a dimensioni collettive il cosiddetto “viatico”, cioè, il rito con cui si porta l’ostia consacrata al capezzale dei morenti. Quindi quello che si dispiega a Lourdes è un grande rito pre-mortuario collettivo, dispensato agli infermi in attesa del miracolo. Nulla di più lontano da quanto accadeva a Casalbordino nel giorno dei festeggiamenti per la Madonna dei Miracoli. Appare evidente che non c’è posto per la festa a Lourdes.

Come per Lourdes di Zola, la definizione di “romanzo etnografico” per il Trionfo della morte va intesa in un’accezione estensiva e ante litteram, perché queste opere furono scritte assai prima della fondazione del moderno fieldwork malinowskiano, come si fa, del resto, abitualmente per i cosiddetti excursus etnografici di Erodoto, Cesare o Tacito. Essi testimoniano, cioè, pervasivi interessi conoscitivi di tipo antropologico, che vengono suffragati attraverso concrete indagini sul terreno da parte degli scrittori, sebbene non metodologicamente elaborate e scientificamente orientate. Inoltre, in queste opere affiora in maniera aurorale l’aspirazione a ibridare il genere del romanzo con l’inchiesta, così da far emergere l’ideologia, se non addirittura la prospettiva interna, dei portatori di cultura locali attraverso le tecniche narrative della fiction letteraria, fatto che sembra avvicinarli come tendenza e/o anticipazione ai contemporanei tentativi di scrittura di veri e propri “romanzi etnografici”.