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Il tema dell’illusione nell’opera di Leopardi è stato già svolto da vari punti di vista e non mi è possibile qui addentrarmi nei dettagli della questione, per la quale faccio riferimento ai lavori di Capone (1968), che si muove nel tradizionale ambito della letteratura italiana attraverso confronti con Foscolo e Manzoni, a Sozzi (2007), il cui lavoro di ampio respiro si colloca nel contesto di una letteratura comparata a forte impronta francesista, e a Gasparri (2010), che svolge il tema tra glottologia, filologia e filosofia tedesca e nel quale è presente anche un micro-saggio dal titolo L’illusione in Leopardi. Tuttavia, da quanto è emerso nella mia trattazione, la questione dell’illusione è centrale non solo nella poetica e nel pensiero filosofico leopardiano, ma anche nella sua antropologia e in particolare nell’interpretazione del topos festivo. Viene da chiedersi, pertanto, da dove scaturisca questa tensione verso l’illusione e in che modo debba intendersi in relazione alla festa. Va interpretata come un prodotto meramente storico, cioè, l’illusione come frutto di una delusione legata a precisi accadimenti che coinvolsero il poeta, oppure, la fuga nell’illusione della festa rappresenta una forma nostrana e poco esotica di escapismo romantico?

Conviene, intanto, riassumere alcune idee emerse dalle ricerche sulla questione. Per prima cosa, il termine “illusione” che deriva dal latino ludus, era connesso nell’antichità classica soprattutto alla sfera del gioco e a quella della derisione. Per molto tempo è prevalsa la sua accezione negativa nel senso di

147 “La mezza filosofia è madre di errori , ed errore essa stessa; non è pura verità né ragione, la

quale non potrebbe cagionar movimento. […] Così gli errori della mezza filosofia possono servire di medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima analisi dalla filosofia” (Zib: 520-521). Sulla “mezza filosofia” si veda D’Intino (2009: 101 ss.).

87 errore e inganno. Tuttavia la sfera del falso non esaurisce la portata semantica del termine, essendo determinante anche la dimensione dell’immaginazione e del fantastico. È soprattutto con questa accezione che viene utilizzato da Leopardi, in cui, in breve, si può sostenere che “illusione” si oppone a “disillusione”, all’interno di una dimensione soggettiva, mentre “falso” si oppone a “vero”, in una dimensione oggettiva. Pertanto, “l’illusione” si oppone al “vero” solo latamente, essendo le due prospettive disomogenee fra loro e, così, si spiega la sostanziale positività di entrambe nella filosofia leopardiana (Gasparri, 2010: 255-257). La svolta verso l’affermazione di un’accezione migliorativa del termine, nel senso fantastico e proiettivo-compensativo, va fatta risalire alla Francia fra il XVII e il XVIII secolo (Gasparri, 2010: 34, 38, 171). Così l’uso di tale accezione del termine può derivare a Leopardi dai moralisti e dai filosofi francesi e in particolare da Rousseau, sia direttamente che tramite Foscolo.

È come sempre Rousseau a giocare un ruolo chiave anche nella questione dell’illusione148. Con Rousseau abbiamo il pieno sviluppo del termine in senso

di fiction romanzesca (e romantica), di rêverie, di una dimensione altra di piacere e appagamento che funge da compensazione alla negatività del mondo. Questa dimensione ha anche un proprio nome-localizzazione, quello di “paese delle chimere”, termine preso a prestito da una lettera della Nouvelle Héloïse che dà il titolo al libro di Sozzi e al capitolo dedicato a Rousseau (2007: 135 ss.). Infatti, Rousseau utilizza spesso il termine illusione come sinonimo di “chimera” ed espande il tema verso le sfumature della speranza, dell’attesa e della consolazione. Anche Leopardi utilizza il termine “chimera” nello Zibaldone, ma solo otto volte, in un’accezione abbastanza vicina a quella rousseauiana. Il termine però era già attestato con tale accezione nella nostra lingua, come si può vedere nel Vocabolario della Crusca (1729-1738: 648). Detto questo, è già stata chiarita la sostanziale differenza fra l’“illusione” di Rousseau e quella di Leopardi:

lo struggimento rousseauiano non nasce da delusioni metafisiche, dallo scoperta dell’amara vanità di sogni eternamente inappagati: nessun disincanto incrina la gioia della sua limpida visione interiore […] sono gli uomini, gli “altri”, i responsabili della fine delle illusioni […] È quando l’attesa viene tradita, quando gli “altri”, corrotti da congegni sociali sbagliati, degradano e incrinano ogni rapporto umano, è allora che scatta il

148 L’analisi dell’illusione in Rousseau è svolta, oltre che nel già citato Sozzi (2007), con estrema

88 meccanismo compensatorio delle chimere e delle favole (Sozzi, 2007: 138- 139).

In Leopardi invece le illusioni sono un prodotto della Natura, sia che le si voglia vedere come effetto di una madre benevola intenta a concedere ai propri figli un po’ di piacere, sia che le si veda come un astuto marchingegno della matrigna per celare lo spietato meccanismo di produzione e distruzione. La loro presenza è consustanziale alla specie umana, non accessoria come per Rousseau. Infatti per Rousseau la Natura nulla ha a che fare con le illusioni né le incoraggia. Per questo nell’Émile, con un inaspettato dietrofront, le rifiuta al fine di non creare sofferenze che nascono dalla sproporzione fra desideri e facoltà (Sozzi, 2007: 140-141). Insomma, per Rousseau si può anche non illudersi e l’illusione è una questione “individuale”.

Il ruolo giocato da Foscolo in questa meditazione leopardiana non si può sottovalutare - come in molte altre, in realtà. Se nell’Ortis sotto effetto dell’innamoramento indulge spesso in un’esaltazione solipsistica ancora di forte impronta rousseauiana149, il cui esito poi non può che essere la delusione e il

suicidio, in Dell’origine e dell’officio della letteratura, la fantasia sembra svolgere un ruolo simile a quello della Natura leopardiana (“così lo illude, e gli fa obliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre della morte gli si addensano intorno”) (in Sozzi, 2007: 392). Tutto sommato, però, nelle opere foscoliane non riusciamo a non leggere in sottofondo il motivo scatenante della delusione per i moti indipendentisti, per il tradimento di Campoformio e per l’amara condizione dell’Italia (Capone, 1968: 149, 161). In fondo, è Foscolo stesso a parlare di un’“illusione storica150”.

Che vi sia l’effetto determinante di una delusione storica nel pensiero di Leopardi, come sosteneva Luporini, oggi viene dai più negato (Sozzi, 2007: 272).

149 Ad esempio, si legge nella Lettera del 15 maggio: “io delirando deliziosamente mi veggo

dinanzi le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l’Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti, le Najadi, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. — Or non è tutto illusione? Tutto. Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza; e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele” (Foscolo, 1976: 81-82).

150 In uno scritto di Foscolo riportato da Sozzi si legge “anche l’illusione storica accrescerà e

dirigerà sempre più gli affetti e i pensieri dell’uomo, perché così ordinò la natura, che tutto sia vano e che tutto sembri reale” (2007: 390).

89 Il quadro teorico da me delineato mi spinge sulle stesse posizioni, per cui non mi dilungherò oltre. Verrebbe la tentazione, parafrasando celebri formule critiche, di parlare allora di “illusione cosmica” in Leopardi, per rispetto a quelle di Rousseau e Foscolo. Tuttavia è più coerente parlare di “illusione antropologica”, in relazione alla visione di Leopardi che, mi spingo a sostenere, individua nell’illusione una componente organica dell’uomo. L’illusione, infatti, non può essere evitata né, pertanto, considerata come il frutto-rifugio di una delusione storica. Come ho già detto rappresenta un meccanismo compensativo predisposto dalla Natura e consustanziale all’uomo. In questo senso è molto più vicino alla māyā della filosofia indiana, trovando in ciò una forte consonanza con le posizioni schopenhaueriane151. Se estrapoliamo alcune parti dalla

definizione di māyā data da Piano, non possiamo non convenire che assomiglia molto a quello di cui parla Leopardi:

il termine acquista il significato di “gioco illusorio” o “ipnosi”, diventando sinonimo ora della Natura (prakŗti) ora della potenza divina (Śakti), attraverso la quale l’Assoluto produce, conserva e annienta l’universo, in un processo ciclico senza principio né fine […] la māyā finisce con l’identificarsi con l’ignoranza (avidyā) o la nescienza (ajñāna), che conduce a false identificazioni (in Sozzi, 2007: 307)

Se, poi, sostituiamo l’Assoluto con l’Arimane del frammento152 la coincidenza è

quasi perfetta. Certo, in Leopardi la visione non è mai così netta e permane pur sempre un’ambivalenza e un’oscillazione fra il valore positivo attribuito talora alla ricerca “vero” e talora alle “illusioni”. D’altra parte, in una visione che non offre scampi soteriologici, l’unica possibilità di felicità per l’uomo è trattenersi nella nescienza, al di qua del velo, secondo i dettami della “mezza filosofia”.

Occorre precisare, però, che non tutte le illusioni sono direttamente opera della Natura, la grande tessitrice dell’apparir delle cose. Essa, tuttavia, predispone nell’uomo anche il meccanismo illusorio, cioè, la facoltà di illudersi,

151 Sarebbe davvero lungo esplorare tutta la questione del rapporto e della somiglianza in

ambito filosofico fra Leopardi e Schopenhauer, che è diventato quasi un luogo comune. A questo proposito si può far riferimento al saggio di Felici, Schopenhauer lettore di Leopardi e il

dialogo desanctisiano (2006: 163-184).

152 Riporto solo l’inizio dell’abbozzo dell’inno Ad Arimane: “Re delle cose, autor del mondo,

arcana/ Malvagità, sommo potere e somma/ Intelligenza, eterno/ Dator de' mali e reggitor del moto,/ io non so se questo ti faccia felice, ma mira e godi ec. contemplando eternam. ec./ produzione e distruzione ec. per uccider partorisce ec. sistema del mondo, tutto patimen. Natura è come un bambino che disfa subito il fatto” (Leopardi, 1988, I: 685).

90 come si evince dalla “Teoria del piacere153”. Inoltre si potrebbe forse tentare,

come è stato fatto, una distinzione fra illusioni dell’intelletto e illusioni dell’immaginazione o del fantastico: l’“inganno fantastico” di cui Leopardi parla nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e quello dell’intelletto di cui parla nel Tristano (Gasparri, 2010: 267).

Certamente, la festa o la religione non hanno la loro origine nella Natura quanto nella Ragione (intesa come abbiamo vista nell’accezione di “cultura” e non di raison), tuttavia agiscono con un movimento contrario al percorso evolutivo dell’uomo che va dalla Natura verso la Ragione; trascinate dalla fiumana evolutiva che le conduce verso una maggiore razionalizzazione, spiritualizzazione, freddezza, si muovono di per sé à rebours, risospingono temporaneamente l’uomo verso la Natura. Pertanto, la festa è, sì, un prodotto umano, ma trova la sua origine possibile nella ‘naturale’ tendenza alla compensazione immaginativa: è un’illusione dell’immaginazione154. Così, da

una parte, la festa ha la funzione di stimolare la virtù e l’eroismo ed è espressione di un intrinseco vitalismo, dall’altra, essa nasce soprattutto come ricerca di un sollievo dal male di vivere, ristabilendo l’inganno immaginario dell’accordo fra uomo e Natura. Messi in luce tali aspetti, l’illusione antropologica della festa sembra assumere in Leopardi una funzione simile a quelle enucleate molto più tardi da Malinowski per la religione e, soprattutto, per la magia:

Sia la magia sia la religione offrono scampo da situazioni e impasse tali da non offrire altra via d'uscita pratica all'infuori del rituale e della fede nel regno del sovrannaturale (1976 [1925]: 91) […] La funzione della magia è quella di ritualizzare l’ottimismo dell’uomo, di accrescere la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura. La magia esprime il valore maggiore per l’uomo della fiducia rispetto al dubbio, della fermezza rispetto alla irresolutezza, dell’ottimismo rispetto al pessimismo (1976 [1925]: 93-94).

153 Ne riporto solo un breve passo per quello che qui ci interessa: “Il piacere infinito che non si

può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia: 1. che la speranza sia sempre maggior del bene; 2. che la felicità umana non possa consistere se non nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l'uomo e nessun essere vivente, dell'amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt'uno coll'amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall'altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza” (Zib: 167)

154 Come abbiamo già visto, Leopardi in Zib: 1026 accosta il tema della festa a quelli

dell’illusione e dell’immaginazione; questo accostamento permane in sottofondo in tutta la lunga dissertazione dell’agosto del 1821.

91 In conclusione, una lettura della festa nella sua opera ci consegna un Leopardi, che pur avendo intrapreso per sé la strada dell’“acerbo vero” e della demistificazione di ogni illusione consolatoria, guarda con indulgenza e con compassione alla sorte dei suoi fratelli umani, ai quali non nega ma anzi auspica il trattenersi al di qua del velo dell’illusione, anche attraverso la macchina festiva, che, con il riso la danza e l’ebbrezza, offre loro la possibilità di trovare uno scampo alla souffrance e di coltivare generose speranze e fiducia nella rigenerazione delle energie vitali.

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II.IC

ANTI DELLA FESTA