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Tavola 3. La festa nelle Novelle della Pescara

3.3.3. Gli idolatr

La novella Gli idolatri è certamente una delle più importanti della raccolta, come testimonia il fatto che col titolo San Pantaleone era posta in apertura della raccolta del 1886, cui dava anche il nome. Occorre specificare che la novella non descrive propriamente una festa popolare, ma la processione eccezionale di San Pantaleone, che avrebbe dovuto tenersi per scongiurare il pericolo incombente sul paese di Radusa, ma che poi prenderà la forma di una “processione di battaglia42” contro il paese di Mascalico, in un’abruzzese Guerra

di santi. È chiaro, però, che questa novella rappresenta un testo chiave per

156 comprendere la concezione del folklore nel primo D’Annunzio, pertanto la sua analisi è centrale per questo studio, come è chiara, peraltro, la sua importanza per comprendere le distanze che separano D’Annunzio da Verga nell’utilizzo del materiale folklorico. Inoltre, essa va a costituire un dittico con la novella successiva, L’eroe, in cui la festa è centrale, e della quale costituisce l’antecedente narrativo.

Sui nomi dei due paesi immaginari Contini suggerisce una derivazione siciliana: le borgate catanesi di Màscali e Raddusa (1976: 376). Tuttavia è abbastanza evidente il gioco fonico fra Mascalico e Miglianico, paese della festa di San Pantaleone, raffigurata nel quadro di Michetti, Il voto, e descritta da D’Annunzio nel suo articolo già citato43. Bisogna, però, notare che con un

evidente gioco letterario nella novella il culto di San Pantaleone è ‘traslato’ a Radusa, mentre a Mascalico viene assegnato come patrono San Gonselvo.

In merito alla questione si è tentato anche di stabilire un raffronto fra gli eventi descritti nelle due novelle e concreti elementi etnografici del locale culto di San Pantaleone a Miglianico, con esiti invero assai discutibili. L’ampio saggio di Pannunzio (2001) mette in campo molte questioni e ha senz’altro il merito di portare a conoscenza di testi locali o poco noti sulla festa di San Pantaleone a Miglianico, offrendo anche alcuni dettagli demologici di indubbio interesse44.

43 Cfr. le Note in D’Annunzio (2006: 912).

44 Dal saggio di Pannunzio emergono anche alcune notizie interessanti e alcune considerazioni

proprio a partire dai testi reperiti, che l’autore, però, non ha tratto. Le indicherò brevemente. Dall’inchiesta recente di Bosi (1985-86: 74-76) si evince che la statua di San Pantaleone di Miglianico è attualmente una statua lignea, fatto che conferma quanto descritto nei resoconti precedenti di Balzano (1927) e di Verlengia (1958,), che parlano l’uno di una statua lignea dorata e l’altro di una statua lignea di gusto bizantino. La rappresentazione lignea è descritta anche nel racconto della festa di Miglianico di Janni, nella narrazione dal titolo La vecchia fede, del 1897 (tutti i riferimenti bibliografici in Pannunzio, 2001). Pannunzio conclude che quella di San Pantaleone fosse una statua di legno e D’Annunzio sia stato tratto in inganno dalla luce. D’altra parte, D’Annunzio parla espressamente di “simulacro d’argento” nel suo resoconto sul Fanfulla

della Domenica (1996, I: 98) - senza dubbio il modello di quello nella novella -, fatto che è

confermato inequivocabilmente dal quadro di Michetti (fig. 1). Se ne doveva pertanto dedurre che nella chiesa di Miglianico fossero presenti due diversi sacra di San Pantaleone, almeno a partire dal 1897. Il fatto di per sé non desta stupore; infatti non è raro trovare una simile coabitazione in altre località, dove spesso il simulacro meno pregiato o di più recente acquisizione viene utilizzato per la processione, mentre l’altro, quello più prezioso, viene tenuto al sicuro dentro la sacrestia ed esposto in chiesa alla venerazione dei fedeli solo in casi eccezionali. È facile credere che nel tempo quello d’argento sia andato trafugato. Altri aspetti etnografici interessanti riguardano il fatto che D’Annunzio, Janni e Balzano concordano sulla pratica dello “strascico” (chiamato anche “struscio” o “strascino”) della lingua a terra, durante la festa di San Pantaleone. A meno di postulare una triplice menzogna, possiamo ritenere accreditata tale pratica nella festa di San Pantaleone. Così non c’è bisogno di supporre che essa derivi in realtà dal pellegrinaggio a Casalbordino, dove è altresì attestata, come fa Jacobitti in relazione al Voto di Michetti (in Pannunzio, 2001). La presenza di una grata intorno al santo per

157 Tuttavia il saggio prende le mosse da un errore concettuale piuttosto grave dal punto di vista antropologico, ovvero, che quella narrata negli Idolatri sia la festa patronale di San Pantaleone. In realtà, appare chiaro che si tratta di una di quelle, in vero, non frequenti processioni eccezionali in cui il santo viene fatto uscire dalla chiesa fuori dal periodo festivo, solitamente per scongiurare una calamità, che in questo caso sembra annunciata dai barbagli rossastri nel cielo (lo stesso tipo di processione viene evocata nel finale della Vergine Anna). Ciò si evince dal fatto che i popolani chiedono a Giacobbe, uomo di fede ed esperto delle tradizioni religiose locali, con cui il prete si è consultato, che cosa abbia deciso di fare il sacerdote. È evidente che il popolo reclamava la processione della statua del santo per le vie del paese, mentre il sacerdote, visto lo scarso pericolo, acconsente solo a elargire una benedizione col braccio d’argento di San Pantaleone dal portale della chiesa. Tutto questo non avrebbe senso se si trattasse della festa patronale, dove la processione del santo è d’obbligo. Anche l’approvvigionamento di ceri sarebbe avvenuto per la festa con largo anticipo e non all’ultimo minuto. Che tale processione avvenga d’estate, più o meno a ridosso della festa, è del tutto irrilevante. L’altro problema teorico del saggio di Pannunzio è quello di voler assegnare i tratti della festa di San Pantaleone a Miglianico anche alla festa di San Gonselvo a Mascalico nell’Eroe45, dopo aver giustamente escluso l’esistenza di un culto di un San Gonselvo in Abruzzo – probabilmente una pura invenzione dannunziana come i nomi dei paesi. Gli indizi su cui si basa sono debolissimi e riguardano alcuni aspetti esteriori che accomunano tutte le processioni di tutte le feste popolari, come l’esposizione di coperte e lenzuoli alle finestre, le infiorate, l’uso delle bandiere dei santi (stendardi). Ora, proprio il racconto di Janni, riportato integralmente da Pannunzio, La vecchia fede del 1897, ci informa della presenza di altre statue di santi e della Madonna che venivano portate a spalla durante la processione del 27 luglio a Miglianico, insieme a quella del patrono: “Passavano, innanzi al Protettore, gli altri santi, e le Madonne, che ne abbellivano il trionfo” (in Pannunzio, 2001). Ciò fa escludere definitivamente che quella rappresentata nell’Eroe sia tale processione, mentre si tratta invece di un’invenzione di D’Annunzio, sebbene costruita sulla conoscenza delle reali pratiche

impedire che venga toccato e baciato - pratica descritta ampiamente in D’Annunzio e confermata in Janni - è invece testimoniata solo dal resoconto di Balzano e, quindi, possiamo stabilire come termine ante quem della presenza di tale grata il 1927.

45 Tuttavia alla fine, dopo aver affastellato le informazioni più svariate, Pannunzio deduce una

incomprensibile “uguaglianza strutturale” che riguarderebbe la festa di San Pantaleone fuori dall’Abruzzo, la festa della Madonna della Libera dell’8 settembre e la festa di San Gonselvo nell’Eroe.

158 processionali in Abruzzo. Queste precisazioni nel loro complesso dimostrano che, nonostante i singoli tratti folklorici – o pseudo-folklorici - siano usati in maniera rispondente al codice culturale e alla logica antropologica, le due novelle non hanno una reale aderenza etnografica locale, ma in esse domina la finzione letteraria. Anzi, possiamo spingerci a sostenere che negli Idolatri e nell’Eroe per la complessa reinvenzione del materiale folklorico D’Annunzio è stato uno scrittore di ethno-fiction.

Fig. 1. F.P.Michetti, Il Voto, dettaglio, Galleria d’Arte Moderna, Roma.

Si può anche notare che il processo di trasformazione del titolo della novella, che passa da Il fatto di Mascalico46 a San Pantaleone per diventare infine Gli idolatri, traccia un progressivo spostamento da istanze veriste e oggettivanti a un’impostazione di tipo simbolista e non lascia dubbi sulla lettura della religione popolare da parte di D’Annunzio, che viene interpretata come una forma di idolatria, mescolata di barbarie e violenza.

46 Con questo titolo fu pubblicata per la prima volta nel Fanfulla della Domenica del 15 giugno

159 Per comprendere meglio la strategia rappresentativa dannunziana si possono isolare alcune espressioni chiave che costituiscono campi semantici organizzati all’interno della struttura narrativa, il cui uso insistito carica di un sovrappiù di senso il mero significato dei termini. In particolare, il campo semantico del “rosso”, che sovrasta tutta la novella ed è espresso attraverso immagini di fuoco e di sangue47, connota l’interpretazione del comportamento

religioso dei devoti di aspetti di ferocia che sono estranei alla matrice semantica del termine “idolatria”. Su questo sfondo rosso si staglia l’immagine del busto d’argento di San Pantaleone, definito a più riprese “bianco”, per marcare l’opposizione cromatica, e, inoltre, “impassibile” (NDP: 188) e privo d’espressione - “guardando innanzi a sé dalle due orbite vuote” (NDP: 185) -, cioè, indifferente o addirittura crudele. In opposizione al sangue, emerge nell’ultimo capitolo degli Idolatri anche la nota dell’incenso che impregna la chiesa di San Gonselvo. L’incenso è una presenza costante nell’opera di D’Annunzio in relazione alla festa, come si è visto nella novella La vergine Orsola, in cui si contrapponeva alla sensualità, mentre nel finale di questa novella acuisce la discrepanza tra l’elevazione spirituale, la santità e la mitezza48

che esso rappresenta e la furia sanguinaria dei devoti. Oltre a quello cromatico vi sono altri campi semantici che si dispiegano nella novella, rafforzando la valenza del primo: quello del “bagliore”, quello del “fragore” e quello della “guerra”49.

47 I termini che lo costituiscono sono molto numerosi - riporto anche alcuni sintagmi

particolarmente espressionistici: “roventi”, “fornace”, “roggi”, “granito”, “scoppio”, “incendio” (tre volte), “rossori sanguigni”, “rossicci”, “ardore”, “sangue” (sei volte), “plaga vermiglia”, “raggi sulfurei e violetti”, “fiammeggiamento delle acque” (con ossimoro), “sanguinante”, “scintilla d’incendio”, “rossore tragico”, “schiuma rossigna”, “più sanguigna”, “una sola fiamma”, “fatalità sanguinaria”, “ardevano”, “accensione eguale e cupa” (con ossimoro), “cenere che covasse il fuoco”, “una corrente rossa fiammeggiava” (con ossimoro), “incandescenza celeste”, “rossastro”, “vôlta ardente”, “sanguinarii”, “scoppiavano le fiamme”, “cielo color di ruggine”, “sanguinavano tutti”, “chiaror fulvo”, “rosso falciatore”, “bulicame del sangue iroso”.

48 Si veda la seguente espressione nel racconto: “Il mite odore dell’incenso vagava sul conflitto”

(NDP: 189).

49 Alcuni di questi tratti sono già stati messi in evidenza nei saggi di Sarkany (1982) e Lunardi

(1983), dalle cui interpretazioni, incentrate sui concetti di “parodia” e “allucinazione psichedelica”, tuttavia mi discosto. Riporto solo alcuni esempi dal testo dannunziano; per il campo del “bagliore” si possono segnalare: “scintillava”, “irradiamento”, “balenavano”, “fulgore celeste”, “barbagli variissimi”, “balenato”, “riverberi”, “lampi metallici”, “sprazzi luminosi”, “chiaror torvo” (con ossimoro), “stellante di lucciole vive”, “s’illuminava di lampi vivissimi”, “balenìo vibrante” (con sinestesia), “bagliori fatui”, “brillare l’oro”; per quello del “fragore” assumono particolare rilevanza le espressioni: “romorìo cupo d’uragano imminente”, “schiamazzo di stridi”, “ululato continuo”, “sordo tumulto” (con ossimoro), “un fragore immenso accolse il grido”, “schianto grave”, “fragore della pugna esterna”, “urlo di vittoria” e

160 Tuttavia le espressioni più importanti per questo studio riguardano la caratterizzazione della devozione popolare da parte di D’Annunzio. Come ho già avuto modo di mettere in evidenza, si tratta di termini che non possono affatto corrispondere all’idea che i personaggi hanno di loro stessi e del loro santo, ma tradiscono il punto di vista di un narratore che esprime tutto il dislivello culturale fra la propria posizione e quella dei personaggi narrati, offrendone un’interpretazione in chiave sia “evoluzionista”che “naturalista”, non disgiunta da una sorta di condanna morale. Inoltre queste espressioni dannunziane, attraverso l’iterazione l’iperbole la metafora, offrono un campionario di un accentuato estetismo in negativo di gusto fin de siècle. Così la religiosità popolare è definita di volta in volta come “terrore superstizioso”, “fantasie incolte”, “immagini terribili”, “segreti terribili”; i fedeli sono “fanatici”, “una mandra di bestie”, “istupiditi”, una “moltitudine tumultuante [che] aveva apparenza d’una tribù di negri ammutinati”. Questi termini esprimono un’alterità totale rispetto al mondo ‘civile’ del narratore, che, partecipe dell’ideologia razzista della sua epoca, risospinge i Pantaleonidi50 in

un gradino inferiore della scala biologica o addirittura nell’animalità. Essi sono mossi da “curiosità feroce”, da un “antico odio inveterato”, dalla “barbarie”, dal “culto cieco e feroce del suo unico idolo”. I termini “idolo” in riferimento al santo e “idolatri” per definire i fedeli sono ripetuti più volte, forzando in questa direzione la lettura del “fatto di Mascalico”. In particolare, la descrizione del busto di San Pantaleone, così come quella della Madonna di Loreto nella Vergine Orsola, tradisce una visione non verista ma simbolista: “dietro un cristallo, l'idolo cristiano scintillava con la testa bianca in mezzo a un gran disco solare” (NDP: 185). In questo caso l’attenzione del narratore che spia dalle spalle dei fedeli – non è certo loro il punto di vista - è attratta dalla grande aureola d’argento del simulacro, che è descritta attraverso il simbolismo solare come

poi la reiterazione di termini come pianti, singhiozzi, grida, strilli. Le espressioni del lessico militare prendono campo a metà circa della novella, dopo il “danneggiamento” – in termini proppiani - rappresentato dall’arrivo del corpo in fin di vita di Pallura e la rivelazione degli assassini; fra esse possiamo segnalare termini come “battaglia”, “mischia”, “ostile”, “grido di guerra”, “falange”, “armata”, “colonna”, “fecero impeto”, “schioppettate”, “assalitori”, “brandite”, “lotta a corpo a corpo”, “pugna”, “colpo del coltello”, “senza cedere un palmo”, “imperversavano”, “conflitto”.

50 Il termine è di D’Annunzio stesso nella novella (NDP: 187). Inoltre doveva essere sia il titolo

della novella sia della raccolta nel progetto inviato a Treves, che però lo rifiutò. Il progetto fu accolto dal Barbera, ma il titolo non venne accettato e fu cambiato in San Pantaleone; cfr. le Note (D’Annunzio, 2006: 880).

161 quello lunare era emerso nell’immagine lauretana51. Così, nel complesso i devoti popolari sono risospinti in un’epoca storica anteriore, in uno stadio barbarico in cui dominano l’idolatria paganeggiante e la ferocia, mentre il loro odio per la comunità rivale assume i tratti di una tare éréditaire (“odio ereditario” è ripetuto ben due volte).

A questo proposito, più che il topos mediterraneo della “vendetta”, come sostiene Sarkany52, il motivo strutturante della novella, quello che organizza

tutta la materia narrata, è la competizione fra comunità rivali tipica del territorio italiano, che si concretizza spesso in quella forma di contesa che, con una formula icastica, Verga ha definito Guerra di santi. Su questo abbiamo la conferma di D’Annunzio stesso in una lettera all’Hérelle: “Così vorrei mettere masque invece di pierrot che, essendo una maschera tutta francese, stona in una similitudine che si riferisce a una «guerra di santi» nel più selvaggio Abruzzo” (D’Annunzio, 2006: 911). Occorre infatti specificare che, oltre agli attributi di potenza magica, nel simulacro del santo patrono vengono a coagularsi le istanze identitarie della comunità depositaria, in genere latenti o soggiacenti, che possono riemergere nel periodo festivo o scatenarsi nei momenti di crisi inaspettate o eventi eccezionali. Il santo patrono, e solo lui e soltanto in quella forma iconografica rappresentata da quella statua, rappresenta tutta la comunità, che in lui a sua volta si riconosce. Nelle comunità rurali e periferiche dispute per i confini e per il controllo di territori di pascolo o di raccolta, scontri fra comunità più ricche e meno ricche, fra insediamenti di pastori e quelli di contadini, sono stati per secoli all’ordine del giorno, sfociando talvolta in vere e proprie rappresaglie violente. Tuttavia, più spesso questa competizione latente viene portata avanti a livello cerimoniale e attraverso il discorso comunitario con la contrapposizione della forza magica dei rispettivi patroni e talvolta delle rispettive feste. Il folklore italiano è ricco di racconti – più o meno veri - di statue trafugate dai paesi vicini per appropriarsi del loro potere su una

51Si legge nella Vergine Orsola: “Sotto un vetro una Madonna di Loreto tutta nera il volto il seno

le braccia, come un idolo barbarico, luceva nella sua veste adorna di mezzelune d'oro (NDP: 80)” Emerge vividamente la connotazione della Madonna come “idolo barbarico”. Di essa sono messi in rilievo il colore della pelle, colto con gusto raffinatissimo attraverso la struttura dell’accusativo di relazione (“nera il volto”), e in particolare le decorazioni d’oro dell’abito, di cui il narratore mette in luce il simbolismo lunare. Sono notazioni che non possono appartenere né al popolo dei fedeli e nemmeno a persone acculturate come le due vergini o il prete: nessuno di loro definirebbe l’oggetto di fede - una rappresentazione sacra della Madonna - come un “idolo” tanto più “barbarico”.

52 Sostiene Sarkany: “Evoquons le récit de Mérimée enraison de la "vendetta," motif central des

deux récits, atavisme méditerranéen récurrent, ancré dans la pratique culturelle la plus générale, individuelle par-ci et collective par-là, costume qui règle certains rapports sociaux correlés à une notion tribale de «l’honneur»!” (1982: 44).

162 determinata sfera d’azione, sebbene di qualcosa di simile si abbia anche una lunga tradizione letteraria - basti pensare al ratto del Palladio da parte di Ulisse e Diomede -; di episodi leggendari o memorate in cui il santo di un paese ha trionfato in ambito magico-spirituale su quello del paese rivale; di motteggi ai danni della statua del santo patrono del paese avverso. Nella novella Gli idolatri D’Annunzio prende le mosse da questo dramma latente in moltissime comunità periferiche italiane, materializzandolo in una vera e propria “processione di battaglia” che ha lo scopo di regolare una volta per tutte i rapporti di forza fra le comunità rivali. Così il passo chiave della novella, quello che in qualche modo ne segna la svolta, delineando lo scopo della missione, è il seguente: “Ed era nel supremo voto delli assalitori mettere l'idolo su l'altare del nemico” (NDP: 188). Nell’assalto a Mascalico si fondono insieme, sì, la rivendicazione per il furto delle candele e la vendetta per la morte di Pallura, ma tutto ciò passa in realtà in secondo piano. I Radusani non cercano tanto di scoprire il colpevole dei misfatti quanto la resa dei conti definitiva con i Mascalicesi, che può essere sancita solo dal gesto di immenso valore simbolico di porre il proprio santo patrono sull’altare del santo avversario. La posta in gioco è molto chiara anche agli abitanti di Mascalico che, dopo un primo momento di terrore, accorrono in strenua difesa del portone della loro chiesa e del loro altare. Infatti, la sconfitta avrebbe determinato non solo e non tanto l’uccisione di molti uomini innocenti, ma la perdita di tutto il capitale simbolico del paese, il declassamento, la detronizzazione e forse la damnatio memoriae di San Gonselvo e l’innalzamento di San Pantaleone come costante immagine della sconfitta e della subordinazione al paese rivale. Nella sua ethno-fiction, attraverso l’immaginazione, l’accentuazione e la rottura dell’equilibrio, D’Annunzio porta così alle estreme conseguenze, violente e inaudite, il motivo folklorico della Guerra di santi, enucleato precedentemente da Verga.

Tuttavia la distanza fra le due novelle è abissale. La differenza è evidente anche a partire da alcuni elementi formali. Nella novella di Verga non si narra lo scontro fra due paesi rivali, ma fra due quartieri della stessa comunità, il cui nome non viene mai fatto: il quartiere alto, il cui patrono è San Rocco, festeggiato ad agosto, e il quartiere basso, il cui patrono è San Pasquale, festeggiato a maggio. Dal testo emerge anche che il quartiere basso è più ricco, perché si è dedicato all’attività artigianale di lavoro delle pelli; si tratta di un’attività, però, considerata inferiore, tanto che gli abitanti del quartiere alto chiamano i rivali col termine spregiativo di “Conciapelli”. Questa rivalità tra paese alto/paese basso è un altro degli aspetti tipici delle comunità italiane, là dove quasi sempre la parte alta è quella più antica, che detiene i sacra originari,

163 ma più povera, mentre quella bassa è di formazione più recente in cui si è spostata la parte più produttiva e più ricca. Quest’ultima compete con la prima non solo a livello economico e politico ma anche a livello simbolico, attraverso la celebrazione della festa del proprio santo rionale, la quale tende ad assumere tratti sempre più sontuosi ed ostensivi in contrasto a quella dei rivali. A volte