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Tavola 3. La festa nelle Novelle della Pescara

3.3.7. Le feste ‘altre’ della Pescara

Le altre ricorrenze festive presenti nelle Novelle della Pescara non occupano in realtà un grande spazio all’interno delle narrazioni in questione (La morte del duca d’Ofena, La madia, La guerra del ponte). Si tratta, come ho già spiegato, dell’indicazione calendariale in cui avviene un determinato evento o fatto narrativo. Ma ciò non significa che si tratti di un mero dato esteriore, che potrebbe esserci o non esserci, in quanto la scelta di D’Annunzio di collocare temporalmente un racconto in coincidenza con una specifica festività ci offre

72 Ne riporto l’esito: “Tutti i villici ruppero l'ordine, e attorniarono La Bravetta: alcuni con risa di

beffa, altri con parole irose. Le ribellioni di orgoglio subitanee e brutali che ha l'onore della gente campestre, le severità implacabili della superstizione scoppiarono d'improvviso in una tempesta di contumelie” (NDP: 303).

73 Il Carnevale è presente in Verga anche nella novella In piazza alla Scala e compare nel titolo di “Il Carnevale fallo con chi vuoi, Pasqua e Natale falli con i tuoi”. Inoltre ho già segnalato la metafora

presente in Libertà. Per uno studio sulla rappresentazione del Carnevale nella letteratura tra fine Ottocento e Novecento faccio riferimento a Zaccaria (2003).

176 una direzione in cui leggere tanto il fatto alla luce della festa quanto la festa alla luce del fatto.

Le tre novelle mostrano i consueti risvolti negativi della festa. Nella Guerra del ponte, frammento di cronaca pescarese, a parte un breve cenno alla festa di San Cetteo, la mattina di Ognissanti viene messo in scena quanto paventato per la processione del Venerdì Santo nella Vergine Anna, cioè, la trasformazione della festa in rivolta popolare contro le istituzioni politiche:

Il mattino d'Ognissanti, verso la settima ora, mentre nelle chiese si celebravano i primi uffici festivi, i tribuni si misero in giro per la città, seguiti da una turba che ad ogni passo accrescevasi e diveniva più clamorosa. Quando l'intero popolo fu raccolto, Antonio Sorrentino arringò. La processione, in ordine, quindi si diresse al Palazzo comunale. Le strade erano ancora azzurre nell'ombra e le case erano coronate dal sole. In vista del Palazzo un immenso grido scoppiò. Tutte le bocche scagliavano vituperii contro il leguleio; tutti i pugni si levavano in attitudine di minaccia; tra un grido e l'altro, certe lunghe oscillazioni sonore rimanevano nell'aria, come prodotte da uno stromento; e su la confusion delle teste e delle vesti i lembi vermigli delle bandiere sbattevano, come agitati dal largo soffio popolare (NDP: 336).

Le motivazioni, qui, però sono del tutto eterogenee al motivo folklorico della “guerra di santi”, e il modello della riscrittura, in realtà, è quello manzoniano dei “tumulti di San Martino”. Sembra così evidente che la rivolta per scoppiare abbia bisogno di un giorno simbolicamente connotato, occasioni che il calendario liturgico cristiano offre in abbondanza. Inoltre la festa, facendo scendere molta folla in piazza, la rende facile preda dei facinorosi. Anche in questo caso emergono aspetti di violenza e ferocia, ma poi il tumulto incredibilmente si spegne in un surreale gioco di seduzione messo in atto dalle belle pescaresi affacciate alle finestre.

Nelle novelle La morte del duca d’Ofena e La madia, non a caso entrambe provenienti dalla raccolta I violenti del 1892, la coincidenza con l’evento festivo viene appena accennata, ma entrambe mettono in scena efferate immagini di quello che potremmo definire come il “paradigma sacrificale della festa”, già delineato nell’Eroe. Nel caso della Morte del duca d’Ofena la vicenda si svolge in concomitanza con i festeggiamenti per la mietitura ricorrenti il 29 giugno, giorno dei Santi Pietro e Paolo74. Anche in questo caso dai festeggiamenti agrari

74 “- Hai sentito? - chiese al Mazzagrogna che gli stava da presso. E il tremito della voce tradiva

lo sbigottimento interiore. Rispose il maggiordomo, sorridendo: - Non abbiate paura, Eccellenza. Oggi è San Pietro. Cantano i mietitori (NDP: 235)”.

177 prende avvio la rivolta contro i soprusi e le angherie del duca d’Ofena, mentre le canzoni popolari cantate durante la mietitura si trasformano in grida di guerra e in stornellate d’invettiva e di ingiuria75 ai danni del messo e del

maggiordomo del vecchio duca. La novella si conclude, quindi, con i rivoltosi che tornano di soppiatto e, aspettando il vento di scirocco, appiccano il fuoco alla magione ducale. Così il finale assume l’aspetto di un grande sacrificio- olocausto, in cui vengono bruciati il duca e tutta la sua corte. La novella si chiude con la scena altamente poetica del figlio del duca, Don Luigi, che incede fra le fiamme tenendo sulle spalle il corpo del giovane amante Carletto, vera vittima innocente, mentre con aria di sfida e di scherno si affaccia allo sguardo dei contadini inferociti, per poi gettarsi impavido fra le fiamme, sottraendosi al loro sguardo sadico:

Su la porta grande, proprio in cospetto del popolo, apparve Don Luigi con le vesti in fiamme portando su le spalle il corpo inerte di Carletto Grua. Egli aveva tutto il volto bruciato, irriconoscibile; non aveva quasi più capelli, né barba. Ma camminava a traverso l'incendio, impavido, non anche morto, poiché valeva a sostener gli spiriti quello stesso atroce dolore. Da prima il popolo ammutolì. Poi di nuovo proruppe in urli e in gesti, aspettando con ferocia che la gran vittima venisse a spirargli dinanzi. - Qui, qui, cane! Ti vogliamo veder morire! Don Luigi udì, a traverso le fiamme, l'ultime ingiurie. Raccolse tutta l'anima in un atto di scherno indescrivibile. Quindi voltò le spalle; e disparve per sempre dove più ruggiva il fuoco (NDP: 247).

Come si può vedere attraverso questo finale riaffiora anche la concezione di un’arcaica natura sacrificale della festa, dichiarata dall’uso del termine “vittima” e dalla scelta del duca di immolarsi sul fuoco. Immagine che tornerà nella Figlia di Iorio.

Nella novella La Madia il “paradigma sacrificale della festa” viene rivelato e amplificato dallo svolgersi del fatto cruento in concomitanza con la Pasqua - “Era la bella stagione, sotto la festa di Pasqua”(NDP: 313). Così, l’uccisione dello storpio e muto Ciro da parte del fratello assume caratteri cristici: “Gli occhi eran dolci come quelli d’un agnello, azzurri fra le lunga ciglia chiare (NDP: 311). Anche in questo caso abbiamo l’immolazione di una figura pura: come nel caso dell’angelico ermafrodito76 Carletto, qui ci troviamo di

75 Nella tradizione abruzzese prendono il nome di suspette; cfr. le Note (D’Annunzio, 2006: 924). 76 “Egli era esile come una fanciulla; aveva un volto femineo, a pena a pena ombrato d'una

lanugine bionda; i capelli alquanto lunghi, bellissima la bocca, e la voce acuta come quella degli evirati. Era un orfano, figliuolo d'un confettiere di Benevento. Faceva da valletto al duca” (NDP: 239).

178 fronte all’incarnazione di un mite Agnus dei dai “dolci” occhi – ricordo ancora una volta come l’aggettivo “dolce” connoti per D’Annunzio l’immagine di Cristo nella descrizione della festa delle Palme nella Vergine Anna. Infine, seppur si volesse interporre una lettura eminentemente fratricida sul modello biblico di Caino e Abele, l’uso del termine “vittima” (NDP: 315) non lascia adito a dubbi sul fatto che il terribile gesto assuma risonanze sacrificali.

In conclusione, complessivamente dalle Novelle della Pescara emerge una immagine della festa popolare connotata di idolatria e paganesimo, che esprime tratti di un’epoca anteriore, primitiva e barbarica, di cui si manifestano ancora nel mondo folklorico la violenza e la ferocia, epoca che sembra averla istituita ab origine in quanto sacrificio cruento, pronto a riaffiorare a ogni piè sospinto dal superstrato cristiano. Anche là dove nella dimensione cittadina la cristianizzazione si è fatta più completa, la festa è pronta a trasformarsi in rivolta o a nascondere fra le sue pieghe la seduzione e la foia, offrendo spazio alla depravazione. In un caso l’illusione festiva sembra condurre più alla demenza che alla santità. Ricompare qua e là il tema carnevalesco del gioco, del travestimento e del comico - non scevro da un retrogusto amaro per l’accanimento sui due sciocchi Mastro Peppe e Don Giovanni Ussorio -, ma più come un omaggio alla tradizione. Si affaccia anche il tentativo - in Mungià e in un passo della Vergine Anna - di una lettura della festa alla luce di un’arcaica religiosità agraria, tema che sarà sviluppato insieme alla ripresa di alcuni altri nei capitoli centrali del Trionfo della morte. Tuttavia rimane dominante in questa raccolta la prospettiva di estraneità del narratore nei confronti della materia narrata, che talora assume i tratti dello scontro fra cosmologie; fatto che viene confermato da una lettera di D’Annunzio all’amico Nencioni: “ho assistito a certe strane feste nei santuari dei dintorni. Se tu vedessi che singolari spettacoli barbarici! (6 maggio 1884)” (in D’Annunzio, 2006: XXXVII). Ne consegue che si proietta sull’immagine della festa folklorica un’immagine di profonda alterità.

179

IV.

I

L TRIONFO DELLA MORTE

:

NEL CUORE DEL FOLKLORE