• Non ci sono risultati.

XXIV. La quiete dopo la tempesta XXV Il sabato del villaggio

2.1.2. La festa come illusione: A Silvia e Le ricordanze

Se nelle poesie precedenti la festa, più che esperienza vissuta, emerge come oggetto del desiderio concepito attraverso l’immaginazione, nella coppia formata da A Silvia e Le ricordanze essa è recuperata come tempo perduto attraverso il ricordo, cioè, evocata retrospettivamente per interposta persona nelle morte presenze di Silvia e Nerina. Attraverso di loro il poeta ne denuncia, stavolta da una più matura consapevolezza, l’illusione, il godimento impossibile.

In A Silvia il tema della festa emerge nella quinta strofa: Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno, 40

da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi;

non ti molceva il core

la dolce lode or delle negre chiome, 45 or degli sguardi innamorati e schivi;

109 né teco le compagne ai dì festivi

ragionavan d’amore.

Si tratta di una strofa altamente drammatica, in cui dopo l’apparizione della figura femminile fra gli incanti della gioventù e della primavera, Silvia scompare in un’atmosfera invernale e anche infernale.

Può essere interessante il confronto con il Canto della fanciulla, da tutti i commentatori indicato come l’immediato antecedente della lirica maggiore, e per la maggior parte dei commentatori composto a Pisa nel ’28, fra Il risorgimento e A Silvia16.

Canto di verginella, assiduo canto, Che da chiuso ricetto errando vieni Per le quiete vie; come sì tristo

Suoni agli orecchi miei? perchè mi stringi Sì forte il cor, che a lagrimar m'induci? E pur lieto sei tu; voce festiva

De la speranza: ogni tua nota il tempo Aspettato risuona. Or, così lieto,

Al pensier mio sembri un lamento, e l'alma Mi pungi di pietà. Cagion d'affanno

Torna il pensier de la speranza istessa A chi per prova la conobbe.

Il tema di fondo nella lirica maggiore e nel frammento scartato è lo stesso: la fine della speranza, personificata in una giovane figura femminile còlta nell’atto di cantare. Anche le stesse parole ricorrono quasi insistentemente fra le due composizioni, segno di una matrice, di un’immagine-sorgente comune, una ragazza che canta mentre è intenta al lavoro di tessitura, espandendo la sua voce fuori dalla stanza, forse Teresa Fattorini, forse la Circe virgiliana, come rivela l’“assiduo canto” della fanciulla divenuto “perpetuo canto” in Silvia17. Ma la distanza è abissale. Da una parte, abbiamo una

costruzione ampia, perfettamente bilanciata nelle sue simmetrie interne, espressa attraverso la leggerezza e la dolcezza dei versi endecasillabi e settenari nel loro libero alternarsi, rime interne, assonanze, immagini significanti potenti che non necessitano di didascalia, dall’altra, abbiamo l’esiguità di un

16 Per l’analisi e la datazione del Canto della fanciulla faccio riferimento a Residori (1997) e

Blasucci (1989). Per il testo Leopardi (1988, I: 683).

17 Riporto il passo dell’Eneide (VII, 10-12) indicato come fonte da tutti i commentatori: “Proxima Circaeae raduntur litora terrae/ dives inaccessos ubi Solis filia lucos/ adsiduo resonat cantu tectisque superbis”. Il passo è ricordato da Leopardi stesso nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica e anche negli appunti autobiografici (Residori, 1997: 115).

110 frammento che nell’ostinato ripetersi dell’endecasillabo non riesce a raggiungere la perfetta misura dell’Infinito o di Alla luna, e abortisce in un novenario, troncando il monocromo lamento in sentenza. Ma quello che è più significativo è che mentre il canto della fanciulla è còlto nel presente – come testimoniano tutti i verbi, eccetto l’aoristo gnomico finale -, la figura di Silvia emerge come immagine evocata dal ricordo, e se il poeta può dire ancora una volta “rimembri” è solo perché la sua presenza di “cosa morta per sempre18

s’impone per un attimo per la potenza del processo memoriale. Poi il recupero non può che avvenire al passato. Con A Silvia, cioè, si entra davvero nella grande stagione della poetica della rimembranza, mentre il frammento denuncia un tentativo ancora fallimentare (Blasucci, 1989: 127-128; Residori, 1997: 116-117). Le due figure possono essere anche viste come l’una alter ego dell’altra, come immagini della speranza, laddove la fanciulla/Kore è ancora in vita, semplicemente al riparo in un “chiuso ricetto”, prospettandola ancora davanti a sé, mentre Silvia/Persefone19 è morta, “da chiuso morbo combattuta e

vinta”, e indica la “tomba ignuda” dall’aldilà. Ciò emerge anche a proposito del tema della festa. Nel Canto la festa non è un evento, un accadimento, ma è solo una qualità della voce della fanciulla, che didascalicamente stabilisce il parallelo tra festa e speranza. Questa festa è ancora possibile, è ancora pienamente attesa nel presente (“ogni tua nota il tempo/ aspettato risuona”). Mentre per Silvia l’attesa del futuro si colloca in un passato ormai lontano, benché iterativo (“Sedevi, assai contenta/ Di quel vago avvenir che in mente avevi”), e la festa, tanto anelata, non è mai arrivata coi suoi turbamenti amorosi. Ci sono ben tre negazioni nello spazio dei pochi versi che preludono all’apparizione del tema della festa (non: v. 42; non: v. 44; né : v. 47), e ci sono le inattese “negre chiome”, che portano nel significante il suono della negazione e nel significato la natura infera della figura femminile, rimandando al dio dai riccioli neri (Αιδη κυανοχαῖτα, v. 347) dell’inno omerico A Demetra (Càssola, 1994: 64; D’Intino, 1994: 228, 259). Il godimento festivo, quindi, accadimento dichiarato impossibile, appare come vana speranza giovanile, vana attesa, vana illusione, trascinata da Silvia con sé nel regno dei morti.

Il topos della festa riemerge prepotentemente nelle Ricordanze, prima appena accennato nella terza stanza, poi, nella sesta, come prolusione all’inaspettato irrompere nella memoria della figura di Nerina. Si è detto più volte che le Ricordanze sono il canto di Nerina, che Nerina sia l’alter ego di Silvia,

18 Zib: 60.

19 Sulla suggestione di Silvia come Persefone si vedano Galimberti (2001: 103), Colaiacomo

111 che laddove Silvia scompare Nerina appare (Bigongiari, 1976: 164). Aggiungo che entrambe sono immagini della festa, oltre che della speranza e della gioventù, ma nella loro presenza-assenza, immagini di una festa impossibile.

Come si può vedere nella terza strofa e anche nella sesta, la festa si trova ormai alle spalle del poeta, nella dimensione del tempo perduto, delle “cose morte per sempre”; infatti, l’atmosfera festiva può manifestarsi solo attraverso l’evocazione del sé fanciullo, prima (“intorno a queste/ ampie finestre sibilando il vento,/ rimbombâro i sollazzi e le festose/ mie voci al tempo che l’acerbo, indegno/ mistero delle cose a noi si mostra/ pien di dolcezza”, vv. 68-73), estendendosi, poi, con un movimento tipico, che va dal particolare al generale, a tutti i mortali colti nel “primo entrar di giovinezza”(“e quasi/ (inusitata maraviglia!) il mondo/ la destra soccorrevole gli porge,/ scusa gli errori suoi, festeggia il novo/ suo venir nella vita, ed inchinando/ mostra che per signor l’accolga e chiami?”, vv. 125-130). Sebbene rievocato con gioia, in entrambi i casi si tratta dal punto di vista di un Leopardi più maturo di una illusione ormai demistificata, come non esita a dichiarare (“E qual mortale ignaro/ di sventura esser può, se a lui giá scorsa/ quella vaga stagion, se il suo buon tempo,/ se giovanezza, ahi giovanezza! è spenta?”, vv. 132-135). Ma la conoscenza dell’“acerbo, indegno, mistero delle cose” non impedisce l’irruzione di Nerina dagli inferi recessi della memoria, nella settima stanza, quasi settima, nera, stella dell’Orsa Maggiore. E la figura sembra incedere a passi di danza: è tutto un turbinar di balli, di luce, di fiori:

Ma rapida passasti, e come un sogno fu la tua vita. Ivi danzando, in fronte la gioia ti splendea, splendea negli occhi

quel confidente immaginar, quel lume 155 di gioventú, quando spegneali il fato,

e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna l’antico amor. Se a feste anco talvolta, se a radunanze io movo, infra me stesso

dico: — O Nerina, a radunanze, a feste 200 tu non ti acconci piú, tu piú non movi. —

Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: — Nerina mia, per te non torna

primavera giammai, non torna amore. — 205 Ogni giorno sereno, ogni fiorita

piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, dico: — Nerina or piú non gode; i campi, l’aria non mira. — Ahi! tu passasti, eterno

112 d’ogni mio vago immaginar, di tutti

i miei teneri sensi, i tristi e cari moti del cor, la rimembranza acerba.

La festa qui si identifica nella danza ed è davvero una festa popolare, pienamente gioiosa e primaverile. È la festa di Calendimaggio, come è stato già molte volte notato, una festa amorosa, rito sponsale attuantesi attraverso lo scambio dei ramoscelli di “odorata ginestra”. Ma, d’altra parte, non può essere più la festa di Poliziano20 (“Ben venga maggio”), poiché “Se torna maggio”[…]

“dico: — Nerina mia, per te non torna/ primavera giammai, non torna amore”. Così, il poeta si trova nel presente nuovamente nell’impasse, nell’impossibilità del godimento, poiché pur presentandoglisi l’occasione di muoversi a radunanze e a feste, non riesce a partecipare all’ethos festivo. Stavolta il motivo è indicato nell’assenza di Nerina, nella sua impossibilità di presenziare a feste e a balli, nella sua impossibilità di godere (“Nerina or piú non gode”), nella sua morte. Nerina è l’emblema della giovinezza ormai perduta, senza la quale è impossibile far festa, ma di una giovinezza e di una pienezza festiva, come abbiamo visto, mai vissuta e solo immaginata. Ora non rimane al poeta che recuperarla retrospettivamente attraverso la memoria, e di cantarla nella sua presenza-assenza. Nell’evocazione della figura di Nerina, per un attimo, coincidono le due sole uniche possibilità di felicità enucleate nell’Infinito e in Alla luna, l’immaginazione e il ricordo (“fia compagna/ d’ogni mio vago immaginar, di tutti/ i miei teneri sensi, i tristi e cari/ moti del cor, la rimembranza acerba”), prima dell’elaborazione di una nuova e più terribile teoria del piacere attraverso La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio.