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XXIV. La quiete dopo la tempesta XXV Il sabato del villaggio

2.1.1. La festa come esclusione: Il passero solitario e La sera del dì d

festa

Vediamo più dettagliatamente in quali termini nel Passero solitario e nella Sera del dì di festa il tema della festa si connoti nel senso dell’esclusione.

Per quanto riguarda Il passero ho già accennato come si tratti di una poesia altamente problematica, sia per la data della sua stesura che per il suo posizionamento nei Canti. Anche a voler prescindere dall’ipotesi sopra esposta di una lettura narrativa delle liriche X-XVII, che spingerebbe per la datazione tradizionale, se poniamo le due questioni suddette in relazione l’una all’altra, come fa Biral in un suo breve intervento, giungiamo alla stessa conclusione (1995: 217-222). La posizione di Biral, con cui oggi non molti concordano, è quella secondo cui Il passero era in gran parte già composto nel 1829 e composto

101 proprio a Recanati; le motivazioni sono rintracciate tutte nel testo. Le riassumo e le amplio: 1) La poesia è costruita tutta al tempo presente, a differenza di A Silvia, composta a Pisa, dove la rievocazione del borgo attraverso il processo memoriale avviene al passato (imperfetto); 2) Il poeta utilizza due volte il deittico “questo”(“Questo giorno che ormai cede alla sera […] Io solitario in questa rimota parte alla campagna”), indicatore di una situazione comunicativa in cui si trova immerso, che può vedere da vicino: sarebbe un miracolo se il poeta, trovandosi a Firenze o a Napoli, potesse dire “questo”; 3) Il poeta- personaggio si trova in una situazione psicologica molto diversa da quella degli altri canti pisano-recanatesi, e diversissima rispetto a quella del periodo fiorentino e napoletano, in quanto il personaggio che dice io si configura ancora come un giovane che non ha ancora goduto, trovandosi ancora nella posizione di veder scemare la propria giovinezza fra le mani nel presente (“passo del viver mio la primavera”), mentre si immagina, proiettandosi nel futuro, quando sarà ormai invecchiato e si volgerà a guardare retrospettivamente questo sperpero con disappunto. L’io si trova, cioè, nella stessa condizione di quello della Sera e del Sogno, in una condizione definita di “pessimismo individuale”, mentre in questa lirica è del tutto assente la visione di infelicità generalizzata già presente in A Silvia, nelle Ricordanze, nella Quiete e nel Sabato, ed è ancora più lontana dalla concezione della Natura Matrigna, propria del periodo napoletano. Difficile pensare che a Napoli Leopardi abbia potuto “incenerire” l’alto contenuto filosofico del suo periodo più maturo per immergersi di nuovo nella dimensione patetica di un io giovanile, unico oggetto di malevolenza da parte della Natura-Fato. Per recuperare tale sguardo dell’io nei confronti del mondo era, almeno, necessario per il poeta trovarsi nei luoghi, nel paesaggio e nell’ambientazione popolare, visiva e acustica – ripensiamo anche allo strambotto marchigiano rintracciato da Bronzini come parte di tale ambiente (cfr. 1.1)-, in cui era maturata la propria immagine di sé come giovane prematuramente invecchiato e incapace di accedere alla dimensione del godimento. Forse esisteva già un abbozzo di tale poesia risalente a dieci anni prima, come alcuni hanno ipotizzato (ipotesi Flora-Corti); invece, non abbiamo la certezza che sia questa la poésie superbe di cui Leopardi parla al De Sinner, incompiuta ancora all’altezza del ‘32, mentre siamo certi che il nucleo immaginativo centrale – la dicitura “Passero solitario” - è presente negli appunti leopardiani del Supplemento agl’Idilli, datati al 1819-’20 (o 1822-’23 secondo Peruzzi) (Leopardi, 1988, I: 637, 944; Bronzini, 1975: 49).

Non è del tutto ininfluente per il mio ragionamento stabilire come la festa durante la quale è ambientata la lirica sia proprio il 15 giugno,

102 celebrazione del patrono di Recanati, San Vito. Tale occorrenza è stata da altri rintracciata nella festa dell’Annunciazione del 25 marzo o in una festa del borgo di Montemorello (Dotti, 1993: 297). Le prove certe di tale data non le troveremo mai, ma se dobbiamo credere al testo, al di là delle interferenze virgiliane (Dotti, 1993: 296 n.8), quella descritta appare proprio come una giornata di una primavera già inoltrata e piena - che non può essere quella del 25 marzo -, in cui il sole brilla fino a tardo pomeriggio nel “libero ciel”, in cui i campi sono già rigogliosi per le messi e gli animali possono stare al pascolo nell’“aria aprica” fino al tramonto9 - “Primavera dintorno/ Brilla nell’aria, e per li campi esulta

[…] Odi greggi belar, muggire armenti” (vv. 5-8). D’altra parte derubricare tale esultanza festiva a una festicciola rionale, quella di Montemorello, sciuperebbe non poco l’atmosfera, riducendo l’oggetto del desiderio a ben misera cosa. Risulta difficile credere che per una festa minore vi siano suoni di “squilla” e “tonar di ferree canne” in misura tale da stravolgere la quiete agreste - “che rimbomba lontan di villa in villa”(v. 31) -, anche perché gli spari di fucile in concomitanza al suono delle campane sono nella tradizione popolare riservati all’uscita del santo patrono dal portale della chiesa. Inoltre nell’espressione “Tutta vestita a festa/ la gioventù del loco /lascia le case, e per le vie si spande”(vv. 32-34) l’aggettivo “tutta” può essere bensì riferito a “vestita”, come suggerirebbe la somiglianza con l’espressione colloquiale - ma assai poco poetica - “vestito di tutto punto”, ma nulla vieta di collegarlo invece con “la gioventù”, espressione allusiva così di una grande festa che coinvolge l’intera cittadina -“festeggiar si costuma al nostro borgo”(v. 28) -, riempita dal riversarsi dei giovani per le strade, che non può che essere quella patronale10. Certamente

né le feste cittadine di Firenze né quelle di Napoli, nella loro grande diversità, potevano offrire l’involontario innesco per recuperare attraverso il processo memorativo l’“immagine sensibile11” della campagna recanatese e della festa di

San Vito.

9 Si tenga presente che nell’Italia centrale era diffuso un modello di allevamento denominato

“monticazione”, per cui gli animali venivano portati al pascolo non prima di aprile-maggio, mentre rientravano nelle stalle fra settembre e ottobre, dove venivano alimentati a foraggio. Prima di aprile i pascoli non avrebbero offerto la necessaria quantità e qualità di erbe.

10 La stessa oscillazione nell’uso dell’aggettivo è possibile rintracciarla nello Zibaldone: “La

poesia loro era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l’obbligava ad esser trista” (Zib: 3976).

11 Riporto questi significativi passi dello Zibaldone: “Se nella giornata tu hai veduto o fatto

qualche cosa non ordinaria per te, la sera nell’addormentarti o per qualunque altra cagione e in qualunque stato chiudendo gli occhi, ti vedi subito innanzi, non dico al pensiero ma alla vista, le immagini sensibili di quello che hai veduto. E ciò quando anche tu pensi a tutt’altro e neanche ti ricordi più di quello che avevi veduto forse molte ore addietro, nel quale intervallo ti sarai dato

103 Il tema dell’esclusione dell’io poetico prende corpo fin dal titolo nell’immagine dell’uccellino solitario, alter ego dichiarato del personaggio, dipanandosi attraverso una precisa e meditatissima struttura. La prima strofa è dedicata al passero, la cui figura è costruita per opposizione a quella di tutti gli altri uccelli, ritratti “contenti” nell’atto di festeggiare (“pur festeggiando”) in comunità (“compagni”) la primavera con mille acrobazie aeree (“giri”) e schiamazzi. Infatti, come abbiamo già visto, gli uccelli fra le Operette e i Canti sono l’emblema visibile della felicità e della festa. Il passero solitario è l’unico a non partecipare di questo costume e l’io poetico si rivolge col tu all’uccellino quasi umanizzandolo nel cogliere la dolorosa somiglianza con la propria condizione: “Tu pensoso in disparte il tutto miri;/ Non compagni, non voli,/ Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;/ Canti, e così trapassi/ Dell'anno e di tua vita il più bel fiore” (vv. 12-16). Le parole sono evidentemente rivolte al passero, come stabilisce il sostantivo “voli”, e tuttavia potrebbero al medesimo tempo essere rivolte a se stesso, come denunciano il termine “pensoso” e l’espressione chiave “in disparte”. La seconda strofa è invece incentrata sul poeta, trasformando l’opposizione passero/uccelli in quella io/gruppo festante del borgo, rispetto al quale il poeta è estraneo (“strano”, “romito”) e, anzi, dal quale rifugge. Tuttavia questa fuga non è priva di rammarico, se “tutta […] la gioventù […] mira ed è mirata, e in cor s'allegra”, mentre il poeta è ‘ferito’ dalla luce del sole al tramonto che “par che dica/ Che la beata gioventù vien meno” (vv. 43-44). La terza strofa scioglie la similitudine io-passero trasformandola in un’inattesa opposizione: laddove per il passero il non partecipare alla festa degli uccelli è un mero dato istintivo, per il poeta l’esclusione dalla festa della vita e della gioventù si tratta di un atto di volizione, ma generante infelicità e rammarico (“pentirommi”), tanto nel presente quanto nel futuro (“e il dì futuro/ Del dì presente più noioso e tetro”). Così, la possibilità del godimento festivo, oggetto di un desiderio inespresso, negata nel presente per incapacità-

a tutte altre occupazioni. In maniera che questa vista, quantunque appartenga intieramente alle facoltà dell’anima, e in nessun modo ai sensi, tuttavia non dipende affatto dalla volontà, e, se pure appartiene alla memoria, le appartiene, possiamo dire, esternamente, perché tu in quel punto neanche ti ricordavi delle cose vedute, ed è piuttosto quella vista che te le richiama alla memoria, di quello che la stessa memoria te le richiami al pensiero. Effettivamente molte volte, neanche pensandoci apposta, ci ricorderemmo di alcune cose, che all’improvviso ci vengono in immagine viva e vera dinanzi agli occhi. E notate che ciò accade senza nessun motivo e nessuna occasione presente che tocchi nella memoria quel tasto, perché del rimanente molte volte accade che una leggerissima circostanza, quasi movendo una molla della nostra memoria, ci richiami idee e ricordanze anche lontanissime, senza nessuno intervento della volontà e senza che i nostri pensieri d’allora ci abbiano alcuna parte (Zib: 183, 184)”.

104 impossibilità dell’io di annullarsi nella communitas12 del gruppo festante e risolta in una volontaria fuga, è preconizzata come sul punto di svanire anche nel futuro per il venir meno del requisito imprescindibile della “beata gioventù”.

Il tema dell’esclusione, legato anche allo scorrere del tempo, risulta centrale anche nella Sera del dì di festa, ma prima di analizzarlo vorrei passare in rassegna alcuni elementi formali, che possono avere dei risvolti per l’analisi del tema trattato. La lirica fu composta a Recanati nel 1820, secondo Moroncini nell’ottobre, mentre Peruzzi indica nella crisi del febbraio-marzo il momento in cui risale il primo disegno del canto13 (Colaiacomo, 1995b: 357; Peruzzi, 1979:

19). Non mi avventuro nel problema delle varianti della poesia, presenti nei manoscritti e nelle edizioni a stampa e analizzate minuziosamente da Peruzzi, se non per quanto riguarda la questione del titolo, che era in origine La sera del giorno festivo: così intitolata la lirica compare per la prima volta nel numero 12 del Nuovo Ricoglitore del 1825, poi nell’edizione dei Versi stampati a Bologna nel 1826, e nell’edizione Piatti dei Canti del 1831. Secondo la maggior parte dei commentatori il cambiamento fu attuato in vista dell’edizione Starita, in cui appare per la prima volta col nome che conosciamo. Peruzzi ipotizza che sia avvenuto in concomitanza alla stesura del Passero e tenta di spiegare la correzione col fatto che a livello semantico i termini “sera” e “giorno”, in quanto periodo di luce, stridevano accostati nel titolo. Infatti, sostiene che con “sera” Leopardi alluda in realtà alla notte. Invece, agli orecchi del Flora stride la giustapposizione degli omofoni “dì” e “di”, non ritenendo buona la correzione (Peruzzi, 1979: 22). D’altra parte, per noi moderni il termine “dì” suona decisamente più “peregrino” e, dunque, più poetico di “giorno”, portando con sé una patina di antico e popolare insieme, mentre il gioco fonico – sarà anche per “assuefazione” - non toglie niente di bello all’espressione, che peraltro è propria di Leopardi fin dal periodo giovanile; infatti, nelle Rimembranze, al verso 37, troviamo “Un dì di festa”, anche se secondo Blasucci l’espressione Leopardi l’ha ripresa dal Sabato del villaggio (1989: 156). A mio avviso, il sintagma presenta un gioco fonico interessante con l’assonanza della “e” e della “a” fra il sostantivo iniziale e quello finale, che costruisce quasi un chiasmo con lo squillante suono della vocale “i” al centro (e-a: i = i : e-a), esaltato dalla martellante allitterazione della “d” (del dì di). Nel titolo definitivo scompare del tutto il suono grave della triplice “o” in chiusura (giorno festivo), lasciandoci

12 Riprendo il concetto di communitas da Turner. Cfr. § 1.5.2.

105 così un’impressione di totale levità e positività dell’immagine evocata, che sarà poi smentita, inaspettatamente, dallo svolgimento della lirica.

Stabilire, poi, quale sia la festività di cui si parla nella Sera è un compito ben più arduo, per assenza di elementi probanti nel testo. Peruzzi propende senza possibilità di appello per una domenica:

il dato autobiografico da cui nasce il canto è palesemente quello che il 6 marzo 1820 egli narra al Giordani come avvenuto «poche sere addietro», e siccome il 6 marzo 1820 (anno bisestile) era un lunedì, se ciò accadde (come dice il titolo del canto) nella sera di un giorno festivo, dovremmo pensare alla domenica 27 febbraio (1979: 46).

Riporto anche il passo della lettera in questione:

e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo (in Peruzzi, 1979: 46).

Tuttavia nella lettera non si fa cenno a feste, non vi è riferimento alla donna amata, al canto che si perde nella notte, al tema dell’Ubi sunt, e l’invocazione di misericordia alla Natura della lettera non corrisponde del tutto al violento sfogo centrale della Sera (vv. 22-24), che non vi sono prove sia rivolto contro la Natura, anzi è separato dalle sue oracolari parole (vv. 14-16) da quattro versi e mezzo con una nuova interpolazione della figura della donna amata, e sembra piuttosto nascere dal desiderio inappagato del godimento della giovinezza (“Oh giorni orrendi in così verde etate!”). D’altro canto, il “nucleo sentimentale” della Sera, come ho segnalato in precedenza, è stato rintracciato nella pagina 50 dello Zibaldone (Rigoni in Leopardi, 1988, I: 948), che presenta già in nuce temi e struttura della lirica:

Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avveder del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco (Zib: 50).

Qui l’indicazione dell’occasione è ancora più vaga e offre minor spazio a deduzioni, ma difficilmente l’espressione “qualche festa” potrebbe far pensare a

106 una comune domenica. Se la crisi del 6 marzo 1820 ha giocato un ruolo importante nell’ideazione della lirica, tante altre riflessioni dello Zibaldone possono aver avuto un ruolo altrettanto importante, stratificandosi l’una sull’altra al momento della stesura della Sera, per cui non ritengo comprovata la deduzione di Peruzzi nell’individuare il giorno festivo nella domenica del 27 febbraio 1820. Di diverso avviso è Russo secondo cui “non si tratta di un comune dì festivo, di una domenica, ma di una festività straordinaria, annuale, solenne”, come si legge al verso 17 (“Questo dì fu solenne”), identificando egli la festa, a causa della sua solennità, proprio in quella di San Vito del 15 giugno (in Peruzzi, 1979: 99 n. 38). Per chiarire meglio il concetto di solennità festiva in Leopardi potrei richiamare il già discusso Zib: 1438 (“celebrando con solennità […] quei giorni che appartengono alla memoria de' fasti più importanti alla Chiesa universale, o […] quei giorni che spettano ad un Eroe la cui memoria interessa questo o quel luogo in particolare”), da cui si comprende che il termine esclude l’idea di una comune domenica, fatto che mi fa propendere per la tesi di Russo. Se così fosse, al rapporto di continuità tematica tra Il passero solitario e La sera del dì di festa si aggiungerebbe anche quella di contiguità temporale nella fiction dei Canti, rafforzando la valenza di una loro lettura all’interno di un continuum narrativo. Lasciando la questione allo stato d’ipotesi, va detto però che, se così fosse, tutte le diatribe sulla discontinuità tematica della Sera, avvertite dai lettori e sempre messe in luce dalla critica come una sua intrinseca debolezza (Folin, 1993: 57), sembrano – almeno a chi scrive – svanire. Cioè, se partiamo dal presupposto che l’antecedente della Sera sia l’innamoramento non corrisposto e la fuga al pomeriggio per impossibilità del godimento festivo, le invocazioni alla donna amata, l’irrompere della voce della Natura onnipossente, incarnata nell’immagine dello splendente disco lunare14,

la disperazione del personaggio per una giovinezza non goduta, la desolante consolazione che il tempo - annientato anche il ricordo di Roma - distrugge ogni

14 Per confermare l’importanza della luna in questa poesia faccio riferimento a Folin, secondo

cui la luna si trasforma da presenza passiva a forza attiva nel passaggio dall’autografo napoletano all’edizione definitiva: “Lo scatto che – nella redazione definitiva – introduce una novità assoluta sia rispetto al testo omerico, sia rispetto alle versioni precedenti, è dato dal fatto che ora non più «le montagne/ Si discopron», ma è la luna che – in modo attivo - «di lontan rivela/ Serena ogni montagna»: con il reintrodurre l’ogni […] si opera uno spostamento semantico grazie al quale la luna, da semplice testimone dell’apparire, diviene l’elemento producente presenza […]: è la luna, ora, a manifestare il mondo, nel mentre «posa» su di esso” (1993: 61). Sulla luna come “rerum naturae parens”, si veda il cap. XI delle Metamorfosi di Apuleio; cfr. infra. Vorrei far notare che sia l’immagine della luna che la voce della Natura hanno tratti molto dolci, nonostante il contenuto della profezia.

107 illusione, determinando il suo svanire come un canto nella notte, diventano all’improvviso ferreamente logiche nel loro susseguirsi.

D’altra parte la stessa cosa accade, se si sposta il focus critico – senza negare la loro importanza – dalla lettera al Giordani e dalle altre rintracciate fonti della poesia, come la celebrata similitudine omerica della notte lunare15 e

la pagina 50 dello Zibaldone, al tema della poesia dichiarato nel titolo, cioè, ai risvolti animici della Sera del dì di festa, come esplicitati in prosa alla pagina 529 dello Zibaldone:

Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all'aspettativa, al giubilo precedente. E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza. Non dico alla misura del piacere provato realmente, perchè infatti neanche i fanciulli provano mai soddisfazione nell'atto del piacere, non potendo l'uomo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile non tanto perchè il piacere sia fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se non avessimo goduto per nostra colpa (Zib: 529).

Nella riflessione leopardiana la dimensione festiva si chiude con la sperimentazione di un’acuta sensazione di dolore; ciò avviene perché il godimento non corrisponde all’aspettativa e alla speranza del piacere, promesso dal giorno di festa. In questa prospettiva il dolore di Leopardi è culturalmente connotato, cioè, è ancora frutto di una totale adesione ai parametri della cultura di appartenenza, per cui il giorno della festa è quello deputato al godimento: è ancora uno sguardo dall’interno all’ethos festivo, pur denunciando la propria esclusione. Se dalla lirica del ‘20 alla pagina zibaldoniana del ‘23 sembriamo assistere allo spostamento dalla presa d’atto di una vicenda personale alla formulazione di una legge generale che coinvolge tutti gli uomini, tuttavia, la responsabilità di tale infelicità è ancora rintracciata in una “colpa” personale. È da questo “rammarico”, da questo “pentimento” per non aver goduto, pur non ancora esplicitamente formulato, che si genera la