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Tavola 3. La festa nelle Novelle della Pescara

3.3.5. Le feste nuziali in Mungià

La struttura narrativa della novella Mungià è di per sé piuttosto esigua, essendo incentrata semplicemente sul racconto delle virtù e degli ambiti d’azione del cantore popolare abruzzese, definito un Omero cristiano. Nella novella la festa ha uno ruolo essenzialmente decorativo, non svolgendo nessuna funzione strutturale. Si tratta della descrizione delle feste nuziali cui Mungià partecipava con la sua orchestrina (“paranzella”):

[§1] Ovunque si celebrasse uno sposalizio, un battesimo, una festa votiva, un funerale, un triduo, correva la paranzella di Mungià, desiderata, acclamata. Precedeva i cortei nuziali, per le vie tutte sparse di fiori di giunco e d'erbe odorifere, tra le salve di gioia e le salutazioni. Cinque mule inghirlandate recavano i doni. Un carro, tratto da due paia di bovi con le corna avvolte di nastri e con i dorsi coperti di gualdrappe, recava la soma. Le caldaie, le conche, i vasellami di rame tintinnivano alli scotimenti dell'incedere; li scanni, le tavole, le arche, tutte quelle rudi forme antiche delle suppellettili casalinghe, oscillavano scricchiolando; le coperte di damasco, le gonne ricche di fiorami, i busti trapunti, i grembiali di seta, tutte quelle fogge di vestimenta muliebri risplendevano al sole in un miscuglio di gaiezza; e una conocchia, simbolo delle virtù famigliari, eretta su 'l culmine, carica di lino, pareva su 'l cielo azzurro una mazza d'oro. [§2] Le donne della parentela, con su 'l capo un canestro di grano e su 'l grano un pane e su 'l pane un fiore, si avanzavano per ordine, tutte in una stessa attitudine semplice e quasi jeratica, simili alle canèfore dei bassorilievi ateniesi, cantando. Come giungevano alla casa, presso il talamo, si toglievano il canestro da 'l capo, prendevano un pugno di grano e, a una a una, lo spargevano su la sposa, pronunziando una formola

63 Anche in questo racconto, come in quello precedente, vi è l’insistito uso del termine sangue e

170 d'augurio rituale in cui la fecondità e l'abbondanza erano invocate. Anche la madre compiva la cerimonia frumentaria, fra molte lacrime; e con un panello toccava alla figlia il petto, la fronte, le spalle, dicendole parole di dolente amore (NDP: 323-324).

Il passo è in buona sostanza la riscrittura di alcuni testi di De Nino: in particolare, dal capitolo Le nozze frumentarie (I: 25-26) è tratto il primo paragrafo [§1], mentre il secondo [§2] - incentrato su riti che devono aver colpito particolarmente l’immaginazione di D’Annunzio, tanto da decidere di riproporlo variamente riformulato anche nel Trionfo della morte e di metterlo in scena nella Figlia di Iorio - deriva dal saggio Nozze nel contado abruzzese, pubblicato a stampa nel 1897. Il fatto è piuttosto singolare, dato che la novella è stata scritta nel 1884. L’unica ipotesi plausibile è che il testo fosse già stato scritto da De Nino e letto personalmente o forse donato a D’Annunzio prima della pubblicazione del suddetto articolo in rivista. A meno di non voler immaginare che D’Annunzio abbia osservato la cerimonia in prima persona, mentre De Nino ne abbia avuto contezza solo in un secondo momento. Ma l’ipotesi è poco plausibile, dato che dall’articolo sappiamo che tali usanze appartengono al paese di Alfedena, piuttosto fuori dalla zona di frequentazione dannunziana. Sul suo significato mi soffermerò in seguito trattando della Figlia di Iorio; tuttavia riporto entrambi i passi di De Nino, per misurare ancora una volta la distanza dei rispettivi punti di vista sulla materia folklorica:

[Le nozze frumentarie:] Innanzi la casa della sposa, in mezzo a una gran folla, erano schierate cinque mule cariche di robe e sopraccariche di fronzoli. Si trattava della mobilia della sposa: un’archetta, due scanni di legno, parecchie tavole da letto, un caldaio, una conca, una padella, tre casse con sopra tre vesti verdi, tre busti guerniti di nastri verdi, ecc. ecc.; e, per trionfo, una conocchia col fuso, antitesi delle macchine, ma sapienza casalinga de’ nostri paesi. Ecco lo sposo con la coda dei parenti e degli amici, e dispensa confetti di qua e di là. A me ne tocca un cartoccetto. Ma la sposa non ancora si vede. – Esce o non esce? - Una vecchia apparisce a capo delle scale: piange! Chi non riconosce la madre? Scende la sposa… eccola là in mezzo la strada, a occhi bassi: non guarda nessuno. Prima di allontanarsi, si volta indietro per dire addio alla casa paterna. La madre è ancora lì, ritta immobile. […] prende dal grembiule un non so che… un pugno di grano; è il simbolo dell’abbondanza e della fecondazione; e lo getta verso la figlia (1963 [1879]: 25-26)

[Nozze nel contado abruzzese:] [§1] Spesso il corteo è preceduto da sonatori di chitarra e violino. Succedono grandinate di confetti; e chi riceve la grandine se ne tiene, e dice: grazie. La sola madre dello sposo non si vede; chè

171 aspetta la nuora alla soglia di casa, e ha in mano un panello, e glielo tocca in fronte, in petto e nelle spalle, facendo così il segno della croce, mentre dice: “Ce pozzàmo ama’ coma cristiane e nuo’ com’a gatte e cane” […] [§2] A ora di pranzo, partono dalla casa della sposa tutte le donne della più stretta parentela, ciascuna con un canestro di grano in capo. Sul grano sorge un pane bianco e sul pane un fiore. I canestri in ogni verso sono stracarichi di nastri di seta, a festoni. Dietro a tutte va la madre con in mano quella gallina, che doveva servire per il brodo. Tutte queste donne entrano nella nuova dimora. Gli sposi siedono vicino al letto. Ogni portatrice, col canestro in mano, si avvicina alla sposa, prende un pugno di grano e glielo sparge sul capo dicendo: “Chesta è la pace che manna Dije e la Matonne: che ve pozzate fa’ vecchie ‘nsieme!” Per conchiudere, anche la madre sparge grano sulla figlia e sul genero, e con voce tremola ripete la stessa formola, ma aggiungendo qualche altro motto, commoventissimo, perché appunto non è del cerimoniale (1897: 848).

Dal confronto fra i testi, oltre alle consuete differenze di tono, stile e ideologia, più o meno cosciente, emergono anche delle discrepanze che occorre mettere in luce e che testimoniano un uso inesatto - oppure, se si preferisce, molto libero e trasgressivo - del materiale folklorico da parte di D’Annunzio. Infatti, gli usi nuziali accennati nelle opere dannunziane, quindi alla fine dell’Ottocento, seguivano un cerimoniale complesso, diverso anche da zona a zona. In particolare quelli di Alfedena - gli unici per i quali abbiamo la prova del rito dello spargimento di grano da parte delle parenti donne della sposa, di cui parla D’Annunzio in §2 - erano articolati in vari giorni: dal mercoledì al lunedì successivo. Il rito in questione avveniva solo l’ultimo giorno, il lunedì appunto, che potremmo anche chiamare “giorno della visita della madre alla nuova casa della sposa”, mentre il “trasferimento della sposa dalla casa paterna a quella dello sposo”, secondo il modello patrilocale, avveniva la domenica64. Quindi

D’Annunzio mescola insieme nel passo di Mungià momenti del cerimoniale assai diversi, compattandoli in un unico giorno e in una medesima unità descrittiva. Più precisamente, D’Annunzio prende le informazioni per la compilazione del §1 dal capitolo Le nozze frumentarie di De Nino, che descrive la processione della sposa dalla casa paterna con tutto il corredo matrimoniale attraverso il paese. A essa però non partecipa la madre della sposa, che - come ci informa De Nino - deve rimanere tristemente sulla soglia della propria casa, salutando la figlia con il gesto benaugurale del lancio del grano. Si tratta evidentemente di un rito di separazione, per cui i genitori della sposa non

64 La descrizione di tutto il cerimoniale nella sua articolazione pluri-giornaliera è in De Nino

172 possono seguirla65. Nel corteo nuziale di trasferimento, una delle cui

caratteristiche è il lancio dei confetti, è presente ovviamente lo sposo con tutti gli amici e i parenti in atteggiamento festante, ma non la madre dello sposo, che invece attende la nuora sulla soglia della propria casa, dove le impartisce la benedizione col pane - sulla sua simbologia tornerò in seguito. Tutto ciò lo si ricava da De Nino (1897: §1) ma è sottaciuto da D’Annunzio, che, invece, in Mungià salda insieme la cerimonia del lunedì (“visita della madre”) a quella della domenica (“corteo nuziale di trasferimento”), spostando il rito del pane alla fine della benedizione col grano da parte delle parenti muliebri e attribuendolo alla madre della sposa invece che alla madre dello sposo. Il motivo per cui lo faccia non è chiaro: potrebbe essere perché, non avendo sottomano il testo di De Nino, la memoria lo inganna, ma vi sono dei passi quasi identici fra i due (“Le donne della parentela, con su 'l capo un canestro di grano e su 'l grano un pane e su 'l pane un fiore” : “partono dalla casa della sposa tutte le donne della più stretta parentela, ciascuna con un canestro di grano in capo. Sul grano sorge un pane bianco e sul pane un fiore”); oppure potrebbe essere un modo per rendere più icastico – dal suo punto di vista - il patetismo della scena. Nel complesso si ha la sensazione che ancora D’Annunzio non abbia compreso il significato del rito frumentario e lo usi a puro titolo decorativo, mentre nella Figlia di Iorio il cerimoniale sarà messo in scena nella sua articolazione originaria (con qualche piccola sfasatura) e il rito del pane riaffidato alla madre dello sposo, mostrando un utilizzo del materiale folklorico dal punto di vista interno di un’ideologia popolare penetrata con maggior acutezza.