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1.5. La festa nello Zibaldone

1.5.1. L’anniversario tra memoria e illusione

Un primo dato che colpisce l’attenzione è che nello Zibaldone il tema della festa si intreccia strettamente con quello dell’anniversario, tanto che negli Indici dello Zibaldone, elaborati dallo stesso Leopardi, le voci Anniversarii e Feste popolari antiche e moderne, giudaiche, cristiane sono perfettamente sovrapponibili, con l’unico spostamento della pagina 60 fra la prima e la terza posizione120. Il

paragrafo è anche così indicato in uno degli Indici parziali: “126. Dolci illusioni che nascono dalla cognizione e dalle solennità degli anniversari. 60” (Leopardi, 2015, II: 3100). La riporto per intero di seguito, perché assai significativa121:

calendari antichi i giorni di festa (feriae) erano quelli contrassegnati con la sigla NP (secondo alcuni nefastus purus oppure nefasti feriae publicae) ed erano giorni nefasti (Di Nola, 1973: 533; Sabbatucci, 1988: 7). Ciò basterebbe a escludere ogni possibilità di identificazione tra fasti e feste nei tempi antichi, identificazione che, però, in parte è avvenuta nella lingua corrente. Anche secondo Benveniste un’origine etimologica comune è da respingere: “I fasti sono giorni ‘lavorativi’ in cui si esercita l’attività dei magistrati e dei cittadini. È da qui che fasti dies ha potuto prendere il senso di ‘calendario’. Così, fastus, ‘giorno di lavoro’, è esattamente il contrario di festus ‘giorno festivo’. Questo fatto basterebbe a far cadere il legame proposto tra fas e feriae che, del resto, non è stato generalmente accettato” (1988: 386). Secondo Benveniste la radice della parola feriae (da *fesiae con rotacismo) è *fēs che deriva dall’indoeuropeo *dhəs/*dhēs, mentre quella di fas, collegata col verbo for/fari, è *bhā (parlare). Nel primo caso la radice riporta a *dhē che significa “porre, mettere, stabilire”, ma anche “porre in modo creatore”, “stabilire nell’esistenza”, e ha dato origine in greco a thémis (diritto di origine divina, ordine) e thesmós (legge) (Benveniste, 1988: 359). Nella sua dotta analisi dell’etimologia di festa Folin riconduce attraverso una serie di passaggi logici la parola festa a “voce sacra” (1987: 167). Non avendo specifici strumenti di indagine in ambito etimologico, mi sento più propenso a fare un passo indietro e ritornare alle considerazioni di Benveniste, anche se dal punto vista antropologico è un circolo vizioso quello di spiegare la radice *fēs con “un qualche rito religioso” (1976: 385). Al contrario, i concetti di “stabilire”, di “porre” e di “ordinare” mi sembrano di per sé già abbastanza efficaci per descrivere almeno una delle funzioni principali della festa, cioè, quella di normare un ordine nel tempo, atto che può avvenire solo attraverso una sua suddivisione, in cui la festa diviene il limen fra le parti, fondando e rendendo stabile tale ordine nel momento in cui viene posto. Si vedano a questo proposito le considerazioni esposte in Hubert e Mauss (1972). In questa direzione può guidarci anche il fatto che Themis nella civiltà greca fosse la madre delle Ore, le stagioni. Sulla figura di Themis riporto alcune frasi chiave di Harrison: “In Homer Themis has two functions. She convenes and dissolves the assembly; she presides over the feast […] It is the meed of Themis to convene and dissolve the agora; it is hers too to preside over equal, sacramental feast” (1912: 482). Secondo Harrison rappresenta l’“ordine sociale”: “She is the force that brings and binds men together, she is ‘herd instinct’, the collective coscience, the social sanction” (1912: 485). Secondo Malinowski , inoltre, la festa scongiura l’incontro tra gruppi, clan e famiglie, in momenti di penuria e di disarmonia, evitando l’insorgere di frizioni e conflitti (1976: 71). Così, seguendo un tipo di interpretazione diversa, si potrebbe pensare alla funzione della festa di fondare e sancire i legami sociali, lettura quest’ultima assai interessante nell’ottica leopardiana.

120 Come si può vedere: “Anniversarii, 60,1. 1438,1. 2255,1. 2322,1. Feste popolari antiche e moderne,

giudaiche, cristiane ec. ec. 1438,1. 2255,1. 60,1. 2322,1.”

121 La pagina 60 risale al 1819 in base all’ipotesi di Pacella (Cacciapuoti, 2010: 41). Il passo è stato

oggetto dell’analisi di Galimberti (2001: 113) e Folin (1993: 48-49). Lo stesso passo è presente, rimaneggiato ma non più bello, nei Pensieri al numero XIII.

65 È pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivam. o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche speciale circostanza; come [chi] va sul luogo dove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p. e. mutato affatto da quel ch'era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro l'ottava il giorno rispondente della settimana e poi del mese e poi dell'anno rispondente a quello dov'io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione. Ragionevolezza benché illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche in questo riguardo [corsivo mio] (Zib: 60).

La riflessione, qui, si incentra sul rapporto tra festa e memoria, uno dei temi fondamentali del pensiero leopardiano, in quanto la festa si dà essenzialmente come anniversario di un evento accaduto in passato, ancorché mitico, e memorabile, cioè, degno di essere ricordato e celebrato. Le feste, secondo Leopardi, trovano in questa illusione del tempo che si ripete il motivo (“ragionevolezza”) della loro istituzione e, forse, della loro sacralità, mentre il ricordo del passato s’intreccia al tema dell’attesa della festa o dell’anniversario, con le loro cicliche promesse di felicità per il futuro. Allo sguardo leopardiano non è sfuggita la costante antropologica che la festa, nella sua dimensione di alterità rispetto al tempo ordinario del lavoro, si presenta in date specifiche del calendario, le quali si sovrappongono annualmente le une all’altre, cioè, si ripresentano come anniversari di se stesse all’interno di una percezione ciclica del tempo, percezione verso cui l’uomo è guidato dal succedersi delle stagioni e dei lavori agrari, delle stazioni solari degli equinozi e dei solstizi e delle lunazioni.

All’interno di questo schema circolare, che si offre allo sguardo umano come sempre uguale ripetentesi, sono individuati dalla letteratura antropologica122 alcuni specifici punti di frattura del tempo ordinario che

occorrono anch’essi ciclicamente e si danno pertanto all’esperienza senziente

122 Per quanto riguarda il rapporto fra la festa e il ciclo dell’anno e i calendari faccio riferimento

ai contributi classici di Hubert e Mauss (1972), Van Gennep (1999), Lanternari (1983a; 1983b), Di Nola (1970a), mentre un’ampia disamina del tema dell’anniversario come ritorno del tempo è in Eliade (1975).

66 come anniversari, punti critici, alla fine di qualcosa, in cui si crede che il tempo possa rigenerarsi e i morti possano tornare in vita e in contatto coi vivi: evento visto talvolta come terribile e da scongiurare e stornare, mentre altre volte, o al contempo, come elargitore di doni ultra-terreni, altrimenti inattingibili123. Le

date fissate dal calendario folklorico europeo124 in cui ciò può accadere sono

tanto quelle più conosciute di inizio novembre, alla fine di tutte le attività produttive agrarie e pastorali, tanto quelle della crisi solstiziale iemale che si prolunga fino ai festeggiamenti di Capodanno. D’altronde il tema della morte e rinascita è fortemente presente anche nelle festività primaverili e pasquali. Insomma il calendario si offre come un immenso marchingegno che a scadenze regolari offre dei margini rituali di riscatto alla “crisi della presenza” (de Martino, 1973), promettendo la rigenerazione delle energie vitali e il ritorno dei morti. Ora, forse, il solo ‘morto’ che gli uomini anelano davvero a che torni in vita è il tempo, e l’anniversario, in generale, offre l’idea che esso possa ritornare e che tutto possa cominciare, per così dire, da capo, offrendo una possibilità di riscatto nella sofferenza e negli scacchi della vita, a cui l’uomo, per il suo intrinseco vitalismo, non può accettare di soccombere.

Leopardi, anche lui bramoso del tempo perduto e animato dalle promesse dell’anniversario, s’interroga se le cose stiano proprio così come gli è suggerito dall’avvicendarsi delle feste del calendario e come tutti intorno a lui, secondo l’habitus festivo, gli hanno insegnato a credere, quando durante il compleanno, al finire degli anni, o a Capodanno, al finire dell’anno, si esprimono i desideri. Tuttavia, utilizzando tre volte il termine illusione e i suoi corradicali (“illusione, illudendoci, illusoria”) insieme al verbo parere, usato ben due volte nel senso di sembrare, in questo breve passo Leopardi svela a se stesso - e al suo lettore implicito - che, nonostante questa illusione sia fonte di piacere (“bella” e “dolce”) e di consolazione (“ci consola”), in realtà, il giorno dell’anniversario non ha niente a che fare col passato ed è un giorno esattamente uguale a tutti gli altri, mentre il tempo trascorso è ‘morto’ per sempre (“le cose morte per sempre”) e non può ritornare, neanche attraverso un’evocazione volontaria nel giorno dell’anniversario. Infatti, si è svolta

123 Sulle feste dei morti e sul loro ritorno i contributi sono numerosi. Per fare un esempio, la

paura del cadavere, il tema della fame del morto, l’offerta alimentare per placare i morti e la loro cacciata alla fine della festa sono temi affrontati estesamente nei saggi di Malinowski (1976 [1925]). Vi è poi il saggio di Frazer, La paura dei morti nelle religioni primitive, che presenta un’analisi assai estesa della questione della paura del morto, che sarebbe alla base di molti rituali e cerimonie (2016 [1936]). Un contributo sulle feste dei morti in Italia è quello di Pitrè in Jesi (1977: 139 ss.).

67 l’inesorabile azione di mutamento e distruzione, cui niente può sottrarsi, e le ricercate “presenze” del passato sono solo ombre illusorie.

Mi sembra interessante notare a questo proposito che il tema della festa collegato alla memoria compare precocemente nella produzione leopardiana, e in particolare nell’idillio giovanile intitolato Le Rimembranze e datato al 1816 (Leopardi, 1988, I: 345). In tale componimento la parola “festa” ricorre due volte, ma l’occorrenza significativa è quella nella seconda stanza, in cui Micone, rivolgendosi al figlioletto Dameta, dice:

O amabile Dameta,

di', figlio mio, del tuo maggior fratello non ti ricordi tu? più non rammenti

il tuo Filino? Ei t'ha lasciato, e un anno 25 è che nol vedi più. Le prime rose

spuntavano, come or, su quella fratta, quando, i suoi giuochi abbandonati, il vidi seder pallido e muto. Io gli chiedea:

— Figlio, perché qui sei? perché non giuochi? 30 perché non vai con tuo fratello al prato?

Su! scendi a sollazzarti. Hai forse male? —

— No, padre — ei mi diceva — no, nulla io sento, ma stanco io sono, e qui riposo; or ora

tornerò con Dameta a trastullarmi. — 35 Cosi sempre ei dicea, ma sempre il male

più gli apparia sul viso. Un dì di festa alfine ei si levò l'estrema volta,

poi più non sorse.

Anche in questo caso la rimembranza del figlio defunto si dà nell’anniversario della morte (“e un anno/ è che nol vedi più”), che coincise, esasperando la tragicità dell’evento, con un giorno festivo (“Un dì di festa”), il quale nel suo inesorabile ritornare rende impossibile l’oblio. Colpisce profondamente l’animo di Leopardi l’accostamento ossimorico fra la festa e la morte, tanto che lo ripropone anche alla pagina 127 dello Zibaldone (“Ieri in mezzo a una festa, due fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto”) e nel Dialogo di un fisico e di un metafisico, molto più tardo, dove riporta la straniante leggenda di Bitone e Cleobi:

Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che rimunerasse la pietà de’ figliuoli col maggior bene che possa cadere negli uomini. Giunone, in vece

68 di farli immortali, come avrebbe potuto; e allora si costumava; fece che l’uno e l’altro pian piano se ne morirono in quella medesima ora (OM: 64).

Si può concludere che, se da una parte è indissolubilmente legata alla memoria, dall’altra, fin dall’epoca giovanile la festa - umano ritrovato che porta con sé il motivo-funzione della felicità - si risolve anch’essa nell’illusione.