Parte II – Insegnare religione a scuola: opportunità e rischi
8. L’altro capo della fune: Antonio Gramsci
Per una riflessione che ambisca a essere imparziale, non basta una sola prospettiva
ermeneutica sul tema della religione a scuola. I punti di vista che sarebbe consigliabile interrogare e con i quali sarebbe utile misurarsi sono senz’altro numerosi; tuttavia, per l’economia del presente lavoro, mi sono riproposta di approfondirne almeno due, in antagonismo tra loro, che rappresentino una sorta di tesi e antitesi sulla legittimità dell’IRC nelle scuole.
Accanto a Gentile dunque, attore e promotore al contempo della confessionalità della scuola elementare, ho scelto di illustrare il pensiero di Antonio Gramsci: radicale oppositore di una religiosità confessionale in ambito educativo, per qualsiasi fascia d’età e qualsiasi classe sociale e culturale. Gramsci e Gentile sono due interlocutori vicini e
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Giovanni Gentile, La riforma della scuola in Italia, discorso al Senato del 12 aprile 1930, pp. 368-369.
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lontani allo stesso tempo, figli della stessa epoca: la prima metà del Novecento, che vide la graduale crisi dello Stato liberale e l’affermarsi del regime fascista.
Vicini perché, sotto un certo rispetto, condivisero le stesse premesse speculative: il dispregio per una cultura positivistica, che inquadrava senza residuo l’esistenza umana entro un cosmo regolato da leggi naturali e matematizzabili; e la devozione per una concezione storicistica e immanentistica della vita, che restituisse all’uomo il potere di creare liberamente il proprio avvenire. Vicini perché entrambi, nella fase incipiente del loro iter intellettuale, sentirono affinità per la posizione filosofica di Benedetto Croce – lo storicismo assoluto –, collocandosi consapevolmente nell’orizzonte speculativo da lui dischiuso. Quel Croce di cui - affermerà Gramsci - moltissimi pensatori italiani nei primi quindici anni del Novecento avevano seguito le tracce, impegnandosi per realizzare in Italia una «riforma morale e intellettuale» che partisse dalla medesima premessa: «l’uomo moderno può e deve vivere senza religione, e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire»433.
E tuttavia lontani nel modo in cui ciascuno intese il superamento della religione confessionale che dominava in Italia: il cattolicesimo. Se Gentile fu fautore di una laicità che non espungesse da sé la religiosità e cercò di mantenere viva la fede cattolica nella società italiana, giacché complementare e non antitetica al suo ideale filosofico; Gramsci può essere considerato l’alfiere di una laicità completamente a-religiosa: il livello di secolarizzazione raggiunto dalla società, con l’annessa liberazione da una mentalità confessionale, gli appariva come «una conquista civile che non deve essere perduta». L’incontro tra religione e filosofia, a suo parere, doveva essere una collisione mortale, ove solamente uno dei partecipanti poteva salvarsi a discapito della sopravvivenza dell’altro: un aut aut. È illogico allora parlare di “inveramento” della prima nella seconda, quel superamento/riassorbimento del cattolicesimo nell’attualismo propugnato da Gentile. Per Gramsci l’attecchimento della religione e l’influenza ecclesiastica sul popolo italiano vanno combattuti strenuamente, tanto da un punto di vista ideologico – screditando la religione come fallace forma di superstizione –, quanto da un punto di vista politico – riducendo il più possibile la presenza della Chiesa negli ambienti educativi e associativi della Nazione. È chiara dunque la sentenza gramsciana: nessuna formazione cattolica
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Antonio Gramsci, Lettere dal carcere,lettera a Tatiana del 17 agosto 1931, Editrice l’Unità, 14 febbraio 1988, p. 23.
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negli istituti scolastici italiani, se non si vuole infarcire i giovani intelletti di anacronistiche menzogne.
La distanza tra la posizione gentiliana e quella gramsciana sul destino della religione, semplificando, può essere ricondotta alle diverse fonti filosofiche cui i due attori attingono, al netto della comune familiarità. Per Gentile senz’altro Hegel, con la sua identificazione della religione con un momento autentico, ancorché immaturo e imperfetto, dello svolgimento dello spirito, le cui contraddizioni devono essere sciolte dalla superiore ri-comprensione filosofica. Per Gramsci Marx, con la sua definizione della religione come oppio del popolo: una visione mistificata della realtà, sorta nelle classi più povere allo scopo di rendere sopportabili le difficoltà imposte dalla situazione economico-sociale, e destinata a dissolversi, grazie alla rivoluzione, con il venir meno delle ingiustizie e delle disuguaglianze peculiari al sistema capitalistico. Non si può asserire, tuttavia, che i nostri filosofi abbiano ripreso pedissequamente le indicazioni dei loro antecedenti tedeschi: al contrario essi declinano, ciascuno in modo personale, il proprio giudizio sulla religione.
Alla diversità delle loro concezioni speculative corrispose un orientamento politico totalmente divergente. Gentile si professerà sempre liberale, pur denigrando perentoriamente l’operato dei liberali a lui contemporanei e lo Stato da essi apparecchiato; Gramsci sposerà dapprima la causa del socialismo, e infine quella del comunismo, non perdendo mai la speranza in un prossimo rovesciamento delle istituzioni borghesi e capitalistiche. L’uno, fido alleato del fascismo, darà il proprio contributo alla vita politica italiana sedendo nei banchi del Parlamento; l’altro farà lo stesso, rinchiuso in cella dal regime e trascinato di carcere in carcere, di clinica in clinica434. Il primo sarà assassinato il 15 aprile del 1944, sul finire della guerra, da un drappello di partigiani che lo consideravano corresponsabile dell’inferno instaurato dal fascismo in patria; il secondo morirà, colpito da emorragia cerebrale, il 27 aprile del 1937, dopo aver riacquistato da pochi giorni la libertà.
Ad accomunarli, ad ogni modo, rimase sempre la volontà di imprimere una svolta alla società del proprio tempo, considerata inerte e iniqua, e la convinzione che il primo passo in quella direzione fosse una riforma della cultura. Era necessario intervenire sull’educazione dei connazionali, in particolare dei fanciulli e delle masse popolari, per
434 Gramsci fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione dal Tribunale speciale del fascismo, il 4
giugno 1928, anche se la pena gli fu in gran parte condonata. Soffriva, sin da giovane, di gravi disturbi di salute, a causa dei quali trascorse gli ultimi tempi di prigionia in cura presso alcune cliniche.
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poter rinnovare ab imo la situazione economica e politica del Paese. Si pensi a come la Scuola costituisse, per Gentile, il banco di prova del nuovo assetto sociale e politico, “coraggiosamente rivoluzionario e coraggiosamente conservatore”, che auspicava di veder realizzato in Italia. Il rafforzamento della fede (filosofica o religiosa) e l’assimilazione di saldi principi morali erano gli ingredienti necessari per rinvigorire l’unità spirituale dei cittadini e farli convergere verso il sacro ideale della patria.
L’impegno gramsciano per una «riforma intellettuale e morale» della Nazione è confermato dal ricorrere di termini come cultura e educazione nel titolo di numerosi suoi scritti e nel nome di associazioni da lui organizzate. Ne sono esempio il celebre testo Gli
intellettuali e l’organizzazione della cultura435
, che racchiude uno dei temi dominanti delle sue riflessioni in carcere, e la proposta del 1917 di istituire un’associazione proletaria a fini culturali, che integrasse la preparazione delle masse all’azione politica. Questa organizzazione avrebbe dovuto distinguersi dalla borghese Università popolare, che aveva «la stessa efficacia degli istituti di beneficenza, che credono con un piatto di minestra di soddisfare ai bisogni fisiologici dei disgraziati che non possono sfamarsi», giacché in essa si insegnava “un po’ di tutto”, senza rispondere alle reali esigenze dei cittadini. Al contrario, l’associazione di cultura proletaria avrebbe dovuto mirare a specifici «scopi di classe» e promuovere, tra i partecipanti, «lo spirito di solidarietà disinteressata, l’amore per la libera discussione, il desiderio di ricercare la verità con mezzi unicamente umani, quali dà la ragione e l’intelligenza»436
.
Nello stesso anno il filosofo, assieme ad alcuni giovani, fondò quindi un Club di vita
morale e nel 1920, quando decise di staccarsi dalla linea politica seguita dai compagni di
partito Palmiro Togliatti e Umberto Terracini, raccolse attorno a sé un gruppo di
Educazione comunista.
Tuttavia, anche in ambito educativo, intercorre una fondamentale differenza tra i due autori; per dirla con una formula sintetica: secondo Gentile è necessario abbassare la cultura all’inferiore facoltà intellettiva del popolo, mentre secondo Gramsci è il popolo che deve essere elevato a un livello superiore di cultura. La diversa prospettiva in materia li portò pertanto a elaborare due strategie di intervento divergenti. Il primo pretendeva che fosse operata una riduzione degli iscritti ai licei, da attuare attraverso una selezione dei
435 Anche se questo testo fu pubblicato postumo, il titolo ripropone uno degli argomenti cardine dei Quaderni.
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Antonio Gramsci, Scritti giovanili, Per un’associazione di cultura (18 dicembre 1917), Giulio Einaudi editore, Torino 1958, pp. 143-145.
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candidati-studenti, così da includervi solo i più meritevoli e avviarli a una formazione spirituale di alto spessore. La restante parte degli studenti, invece, avrebbe potuto frequentare scuole tecniche o professionali e in esse fruire di un’educazione adattata alle proprie forze intellettuali. È la stessa argomentazione che Gentile ripropone a sostegno di un insegnamento religioso nelle scuole primarie: una forma di conoscenza semplice e immediatamente comprensibile anche per gli intellettuali più ingenui. Lo scopo principale del suo progetto di riforma, dunque, sembra quello di diffondere i principi di una morale condivisa, piuttosto che quello di innalzare sino alle verità della filosofia l’ingegno nazionale.
Alla concezione elitaria della cultura, avallata da Gentile, Gramsci contrapponeva una visione democratica del sapere. Egli, infatti, partiva dall’intima persuasione che le masse popolari potessero, e quindi dovessero, raggiungere le eminenti conquiste della riflessione filosofica. Anche per lui la via al progresso spirituale è aperta da una cerchia ristretta di pensatori, quell’avanguardia intellettuale che dovrebbe costituire il Partito, giacché «la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto»; e tuttavia tra i doveri dell’autentico filosofo c’è proprio quello di “contagiare” la cittadinanza con il proprio sapere. Solo se la moltitudine riuscirà a elevarsi culturalmente e a condividere lo stesso orizzonte di pensiero delle teste più brillanti, si conseguirà quell’unità ideologica e morale che è, a parere di Gramsci, presupposto essenziale al rinnovamento del vigente ordinamento politico-economico-sociale: l’unità di coscienza prelude all’unità di azione.
«La filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere un’unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali»437.
Ritengo che la diversa posizione tra i due pensatori sul piano culturale ed educativo discenda da una differenza più profonda nella loro concezione filosofica. Entrambi muovono, infatti, dall’originaria identità di filosofia e storia, secondo la quale il pensiero è immanente alla vita, e può essere astratto, solo a posteriori, dallo svolgimento del reale; tuttavia, ciascuno interpreta a proprio modo il presupposto storicista. Per Gentile l’unità della dimensione speculativa e di quella storica si traduce, in ultima analisi, nel compito di ricomprendere la storia nella filosofia, liberandosi dal particolare e dal contingente per
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attingere l’autentica realtà: quella dello spirito. Questa è, innanzi tutto, un’operazione filosofica che solamente gli intelletti più fini sapranno comprendere e realizzare.
In Gramsci l’unità di storia e filosofia sembra risolversi in direzione opposta: sarà la seconda a doversi sempre più integrare nella prima. Primario interesse gramsciano è, infatti, che l’ideologia comunista riesca a infiltrarsi nella realtà politico-economico- sociale del suo tempo, così da imprimere un nuovo corso alla storia: un pensiero giusto che rimanesse nel platonico mondo delle idee sarebbe privo di senso. È questa prospettiva che porta il nostro autore ad affermare l’identità della filosofia anche con la politica: il mondo cambia quando gli ideali si trasformano in scioperi, proteste, rivoluzioni. E la prassi, che vivifica la teoria, non risiede nell’operato di un’élite di menti illuminate, quanto piuttosto nella volontà e nella forza della massa: è chiara dunque l’importanza di renderla consapevole delle proprie potenzialità e di renderla fautrice dell’istanza del progresso.
«Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza»438.
Per ironia del destino – almeno nel periodo in cui i due filosofi vissero – fu Gentile, più che Gramsci, ad avere l’occasione di influenzare l’azione politica ufficiale del Paese, ponendosi nel seno del regime fascista e riformando considerevolmente l’ordinamento scolastico italiano.