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Il cinematografo nelle condizioni at- tuali è l’antitesi della scuola. Questa

crea, e quello distrugge. Romeo Vuoli16

Da Picozzi a Cremaschi e Gabrielli, come si è visto, la suggestione cinematografica è ritenuta non tanto come un pericolo quanto come un’opportunità educativa. Non sono pochi, in altri termini, gli edu- catori che valorizzano il significato etimologico della parola, prove- niente dal latino suggestio («suggerimento»): in questi casi, come os- serva Farné, se «l’esperienza avviene in un contesto intenzionalmente educativo», l’immagine allora «suggerisce qualcosa e il suggerimento è uno stimolo, un messaggio che spinge a cercare oltre, passando forse attraverso altre «suggestioni per arricchire un determinato sapere, in bilico fra realtà e fantasia»17. Come rileva lo stesso Farné, tuttavia, la

pedagogia positivista in fondo non comprende, o teme, questo poten- ziale dell’immagine, non limitato solo agli aspetti cognitivi dell’appren- dimento ma aperto anche a stimoli dell’immaginazione che rischiano, secondo alcuni, di «sfuggire ai reticoli della didattica»18.

Non va dimenticato, d’altronde, come queste valutazioni positive dell’esperienza suggestiva dovessero sempre misurarsi con un coevo di- battito politico, religioso e scientifico dove la suggestione, invece, è qua- si sempre valutata in modo critico. Il fatto di considerare positivamente la suggestione psichica indotta dal cinematografo, pur con i limiti acu- tamente rilevati da Farné, rappresenta quindi una peculiare eccezione, indizio di una potenzialità di innovazione dei metodi d’insegnamento visivo che la teoria pedagogica e la scuola italiane poi non seppero o non vollero cogliere, anche per le crescenti pressioni del regime fasci- sta, interessato a consolidare, nelle pratiche didattiche, l’autorità quasi demiurgica del maestro e, soprattutto, impegnato nel veicolare l’energia positiva della suggestione dalla didattica alla propaganda.

Anche all’interno del dibattito sulle proiezioni educative, d’altronde, questa visione positiva della suggestione non è condivisa all’unanimità. Non tutti sono convinti che la suggestione cinematografica faccia bene, soprattutto considerando l’ormai conclamata fragilità psichica dei bam- bini. Come osserva Emilia Sordina, nell’Italia del primo Novecento, «sono

16 Romeo Vuoli, Il cinematografo e il pervertimento delle masse, «Il momento», To-

rino, 31 marzo 1917.

17 Roberto Farné, Diletto e giovamento, cit., pp. 169-170.

18 Ivi, p. 170. La concezione della suggestione cinematografica come esperienza

positiva di emancipazione spettatoriale attraversa anche la prima teoria francese (cfr. Mireille Berton, Le corps nerveux des spectateurs, L’Age d’Homme, Lausan- ne, 2015, pp. 529-538)

ben separate le due infanzie: quella borghese e quella dei ceti popolari»19.

In questa Italia divisa, esposta alle scosse di un processo di moderniz- zazione controverso e diseguale ma pur sempre impetuoso, è diffusa la convinzione che sia in atto, per riprendere il titolo di un saggio allora mol- to celebre del sociologo Scipio Sighele, una sorta di «crisi dell’infanzia»20,

conseguente alla più generale «nevrotizzazione» di una società sempre più eccitata21 e all’aggravarsi delle condizioni di vita delle classi popolari.

«Oggi», scrive per esempio la Campetti, «anche i bambini sono nervosi,

vibranti, direi, come corde tese […] morbosamente eccitabili» (cfr. infra, p. 164). Valutazioni analoghe sono espresse da Antonio Romeo: «I bam- bini non posson sopportare impunemente certe emozioni. Oggi nascono anch’essi nervosi, quindi le emozioni profonde possono portare un di- squilibrio nel loro organismo»22. La predisposizione del bambino all’ecci-

tabilità e la sua debole capacità di resistenza emotiva messe a contatto con la rapidità delle immagini cinematografiche non possono che genera- re il disorientamento, la confusione e l’errore. Come osserva la Buracci,

a percezioni disordinate, susseguentesi con velocità vertigino- sa, corrisponderanno: un’associazione confusa, un ricordo in- completo, un’idea troppo generale, per il succedersi rapido di percezioni che permette di cogliere soltanto le più rilevanti so- miglianze fra gli oggetti; seguiranno quindi idee false, giudizi e raziocini pure falsi (cfr. infra, p. 325).

Secondo il dibattito dell’epoca sono almeno due le reazioni psicolo- giche sui bambini prodotte dalla proiezione cinematografica: da un lato l’incapacità emotiva e cognitiva di comprendere e ricostruire l’interezza lineare di un racconto cinematografico23, dall’altro la difficoltà di distin-

guere il vero dal falso, in ragione di una potenza diffusa dell’illusione cinematografica24, capace, come scrive Orestano, di conferire alle imma-

gini «l’autorità indiscutibile delle cose vedute» (cfr. infra, p. 233). Eventi, oggetti, persone, tutto ciò insomma che sfila sullo schermo si impone al

19 Mirella Chiaranda, Introduzione, in Ead. (a cura di), Teorie educative e processi

di formazione nell’età giolittiana, Pensa Multimedia, Lecce, 2005, p. 12.

20 Scipio Sighele, La crisi dell’infanzia e la delinquenza dei minorenni, La Rinasci-

ta del Libro, Firenze, 1911. Sul rapporto tra nevrosi infantili e ambienti scolastici cfr. Enrico Morselli, Il nervosismo nella scuola, Lattes, Torino-Genova, 1923.

21 Cfr. Christoph Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati

Boringhieri, Torino, 2012.

22 Antonio Romeo, Il cinematografo nella vita e nella scuola, cit.

23 Su questo aspetto insistono in particolare Amelia Campetti e Angelina Buracci. 24 Sul tema dell’illusione nelle prime teorie cinematografiche italiane e interna-

zionali cfr. Silvio Alovisio, Lo schermo di Zeusi. L’esperienza dell’illusione in alcu-

ne riflessioni cinematografiche del primo Novecento, «La Valle dell’Eden», 23-24,

piccolo spettatore con caratteri certi ed evidenti di realtà: di conseguen- za, «il bambino, dopo aver elaborato nella sua mente la scena cinemato- grafica, crede che i fatti siano come egli li vede, che le avventure siano reali, che i personaggi esistano» (cfr. infra, p. 326). Non di rado questa convinzione scatena processi empatici e reazioni emotive fuori controllo.

I problemi derivanti da queste errate credenze diventano gravi quando compromettono la capacità di un discernimento morale, già di per sé, come rileva la Campetti, «lento a palesarsi [nella] più tenera età» (cfr. infra, p. 162) e molto condizionato «dall’ambiente sociale in cui un fanciullo vive» (ibidem). Il cattivo esempio, aggiunge l’educatrice, risulta molto più persuasivo al cinema che nella realtà:

Certe cose e certi fatti il bambino li vede anche per la stra- da: ma distratto fortunatamente da altri oggetti, non vi porta quell’attenzione che sarebbe deleteria. Invece nella sala del ci- nematografo, nel silenzio, nel raccoglimento del pubblico, egli trova già un fattore suggestivo. Il suo sguardo, fisso sulla tela, non perde un particolare; quindi una cinematografia immorale è molto più dannosa per la mente e per il cuore del fanciullo dell’impressione che può fargli la vista dello stesso fatto accadu- to nella pubblica strada (cfr. infra, pp. 286-287).

Si rovescia quindi nel suo perfetto e inquietante contrario quella capacità del cinema di rivelare qualcosa di più della realtà rispetto all’osservazione diretta esaltata, come si è detto nel capitolo preceden- te, da Fornelli, Orestano e Mastropaolo.

L’inclinazione del bambino a seguire i cattivi esempi offerti dal ci- nema è spiegata in parte con la sua istintiva tendenza a «simpatizzare col più forte. Giuocando, i ragazzi preferiscono essere lupo piuttosto che agnello; piuttosto il cane di terranova, che il fanciullo salvato» (cfr.

infra, p. 162). Ecco perché, come scrive Giuseppe Sergi

Il cattivo non dovrebbe mai essere rappresentato nella tenera età; e, in caso, non dovrebbesi mai attirare su gli occhi infantili per farlo osservare direttamente; perché il bambino invece di fuggirlo all’occasione l’imiterà volentieri (cfr. infra, p. 163).

Un’altra possibile ragione è il desiderio di trasgredire, già del tutto formato in età adolescenziale, come rileva Buracci:

Il fanciullo imita, perché può così appagare, in parte, un desi- derio, perché egli vuol godere qualche cosa di quello che, per lui, ha il pregio della novità, di quello che gli è proibito dall’età e dalle condizioni famigliari e sociali. E così, dal semplice deside- rio di partecipare ad un concorso ippico, giunge alla bramosia

di gustare una parte di quelle passioni depravate che, tanto spesso, sono il cardine di un dramma cinematografico(cfr. in- fra, p. 335).

Al di là di questi aspetti, tuttavia, ciò che emerge con nettezza nelle riflessioni sui pericoli della cattiva imitazione è una visione critica e soprattutto disincantata dell’infanzia:

Mentre i poeti – scrive la Baudino – cantano l’infanzia come il simbolo dell’incoscienza e dei sogni, i pedagogisti moderni la descrivono, e non sempre calunniosamente, egoista, dispettosa, sanguinaria, crudele» (cfr. infra, p. 188).

Si profila quindi una costruzione sociale dell’infanzia lontana dalle idealizzazioni e dai miti dell’innocenza, e invece coerente con il coevo forte sviluppo in ambito criminologico e sociologico sia italiano che in- ternazionale, degli studi sulla delinquenza minorile25 e con l’affermar-

si della nascente neuropsichiatria infantile. Nell’Italia dei primi anni Dieci, d’altronde, è ancora in corso un processo culturale, avviato a fine Ottocento, «destinato a modificare lo sguardo complessivo sul con- tinente infanzia. Si tratta della nascita di una nuova classe di intel- lettuali, vale a dire di una schiera di specialisti dell’infanzia, come ad esempio pediatri, puericultori, psicologi»26. L’infanzia comincia, anche

grazie alla presenza di questi esperti, a essere oggetto di «politiche di destinazione sociale»27.

In questo contesto scientifico, i bambini sono talora descritti con lo stereotipo lombrosiano della tara ereditaria latente. Osserva per esempio Campetti:

Non va dimenticato poi che accanto alle indicazioni chiaramen- te palesate, sonnecchiano istinti latenti, i quali sotto determi- nati impulsi, come certe piante mettono inavvertiti, radici pro-

25 Tra i più competenti studiosi di delinquenza minorile va ricordato Lino Ferria-

ni, autore anche di numerosi studi sul cinema educativo (cfr. Bibliografia).

26 Carmela Covato, La storia dell’infanzia interpretata, in Franco Cambi, Simo-

netta Ulivieri (a cura di), Modernizzazione e pedagogia in Italia, cit., p. 127. Sui rapporti tra la questione sociale dell’infanzia, l’educazione e il contesto scientifico (in particolare psichiatrico e sociologico) nell’Italia tra Otto e Novecento si vedano anche Franco Cambi, Storia dell’infanzia nell’Italia liberale, La Nuova Italia, Fi- renze, 1988; Gianluca Giachery, Idioti, reietti, delinquenti. Pedagogia, medicina e

diritto tra Otto e Novecento, Ibis, Como-Pavia, 2010, pp. 155-256. Per un quadro

approfondito della riflessione internazionale su questi temi cfr. Carlo Bonomi,

Infanzia, peccato e pazzia. Alle radici della rappresentazione psicologica del bam- bino, «Rassegna di psicologia», XXV, 2, 2009, pp. 129-153.

fonde, per isviluppare ad un tratto col tempo in foglie e in fiori rigogliosi e fruttiferi (cfr. infra, p. 162).

La Buracci sottolinea invece le responsabilità della famiglia: «abbia- mo tanta infanzia corrotta dai cattivi esempi dei genitori» (cfr. infra, p. 325). E se la famiglia proletaria, «scuola primaria di depravazione e di pervertimento», non riesce da sola a corrompere il minore, osserva l’avvo- cato Raffaele Calabrese Serio nel 1914, «provvedono in modo maraviglio- so […] la strada e la vicina osteria [...] Non bastano la scuola, la strada, l’osteria? Ecco il teatro e il cinematografo, assai ben disposti a fare la loro parte»28.

A sostanziare il profilo di un’infanzia, soprattutto quella dei bam- bini del popolo, segnata dalla corruzione morale, dalla depravazione, dalla crudeltà, e plasmata dai surrogati di esperienza offerti dal cine- ma commerciale, concorrono gli innumerevoli esempi di cattiva imita- zione, ampiamente diffusi nel dibattito. La galleria di reati o compor- tamenti illeciti stimolati dalla suggestione cinematografica si infoltisce con gli anni: «due giovinetti che per imitare ciò che avevano veduto in un cinematografo, divennero l’uno ladro e l’altro feritore teppista»29;

uno sciopero promosso da un gruppo di scolari figli di tranvieri – quindi elementi già «educati a particolari forme di lotta» (cfr. infra, p. 302) – dopo aver visto un film che raccontava un episodio simile; un episodio di tentata antropofagia perpetrato da tre ragazzi italiani di

New York, suggestionati dalla visione di un film sui cannibali30; un

«giovinetto, pieno d’intelligente sensibilità» (cfr. infra, p. 215) che per

imitazione di quanto visto sullo schermo, ripete in casa la scena di un suicidio per impiccagione e muore soffocato, e così via.

Dal racconto, e soprattutto dall’analisi, di questi e altri episodi prende sostanza, nel dibattito, l’immagine sinistra di una vera e pro- pria «anti-scuola», per riprendere un’efficace espressione di Fabietti,

«con mezzi di attrazione infinitamente superiori, con un’efficacia d’in-

segnamento, con una modernità e perfezione di espedienti didattici mille volte superiori a quelli di cui la scuola dispone» (cfr. infra, p. 343). Di fronte alla potenza sociale di questa «colossale, affollata, at- traentissima scuola di immoralità e di pervertimento»31, per citare le

severe parole di Avellone (politicamente agli antipodi di Fabietti), la vera scuola – dalla quale l’élite borghese pretende «oltre la istruzione,

28 Raffaele Calabrese-Serio, Fattori economici e sociali connessi colla questione

morale, in 4. Congresso nazionale per la pubblica moralità in Napoli, 26-29 aprile 1914. Atti del Congresso, Tip. Cav. N. Jovene & C., Napoli, 1914.

29 Lino Ferriani, Il cinematografo, cit.

30 L’episodio è riportato da Campetti e da Orestano.

31 Gian Battista Avellone, Il cinematografo e la sua influenza sull’educazione del

la educazione morale degli alunni»32 – appare debole, gravata da una

responsabilità sociale che alcuni, come la Baudino, ritengono spropo- sitata:

tutti […] elevano il grido di allarme contro la scuola che non educa, come se l’opera sua potesse neutralizzare in poche ore del dì le funeste conseguenze dell’ambiente e dell’ereditarietà, che accompagnano sovente il fanciullo dalla culla alla tomba (cfr. infra, p. 188).

I difensori del cinema educativo, tuttavia, non possono limitarsi alla semplice constatazione della frequente immoralità dei film pro- grammati nelle sale commerciali, agevolmente fruibili anche dal pub- blico infantile. La vocazione interventista tipica della loro riflessione li porta allora a elaborare proposte, variamente percorribili, di profilassi sociale. Le strategie di reazione sono essenzialmente due: da un lato il controllo sui contenuti del visibile, dall’altro la regolazione dell’accesso ai contenuti stessi.

Sul primo versante, il controllo e la selezione dei contenuti non sono operazioni semplici: «occorre scegliere bene i modelli», scrive la Buracci,

«cosa che oggi il cinematografo […] permette molto limitatamente» (cfr. infra, p. 335). Secondo Orestano la necessaria rimozione dall’orizzon-

te del visibile cinematografico, destinato al pubblico scolastico, dei «fatti truci, paurosi, raccapriccianti […] di atti malvagi od osceni»(cfr. infra, p. 240) deve persino correre il rischio di rendere le produzioni coinvolte dai tagli «se non proprio, erronee, reticenti ed incomplete» (ibidem) – in questo modo aggravando però, aggiungiamo noi, quella scarsa capacità del bambino di comprendere olisticamente la linearità di un intreccio. L’eventualità, però, che il cinema restituisca un’immagine della realtà troppo infedele ed edulcorata non piace all’allora positivista Orestano, che subito dopo, quindi, quasi si corregge. Attenzione, precisa infatti il fi- losofo, a non cadere nell’eccesso opposto, ossia «ridurre le cinematografie scolastiche a una continua esibizione di sentimentalità svenevoli e inve- rosimili. Siano, le sue, scene realistiche ma rappresentino il male tanto che basti per farlo abbonire» (cfr. infra, p. 236).

La prima metà degli anni Dieci rappresenta la fase più intensa del primo dibattito sul cinema educativo nel nostro paese ma è anche il periodo nel quale si introduce per via parlamentare la censura ci- nematografica. Di fronte a questo esplicito intervento di controllo da parte dello Stato, le reazioni interne al dibattito, tutt’altro che entu- siaste, sono improntate spesso allo scetticismo: «non c’è censura che basti» (ibidem), ammette Orestano poco dopo l’entrata in vigore della

32 Raffaele Calabrese-Serio, Fattori economici e sociali connessi colla questione

vigilanza sulle pellicole cinematografiche, mentre Treves, durante il dibattito parlamentare sul tema dice di non aver alcuna fiducia nella censura (cfr. infra, p. 265 ss.) e Fabietti, nel 1917, sostiene che bisogna sopprimerla (cfr. infra, p. 343 ss.) oppure alla delusione, in particolare del mondo cattolico: i Gesuiti, per esempio, contestano «l’ingiuriosa esclusione» (cfr. infra, p. 267 ss.) di parroci e sacerdoti dalle neonate commissioni della censura ministeriale. L’introduzione della censu- ra, d’altronde, è una scelta ispirata da ragioni politiche (offrire una sponda ai liberali conservatori e ai cattolici, ma non alla Chiesa) e, soprattutto, da urgenze economiche (aiutare il ministro delle finanze Facta a fare cassa), e Giolitti nel portare avanti i suoi obiettivi non procede certamente d’intesa con coloro che si occupano da anni di cinema educativo. I rappresentanti del mondo scolastico, a differenza di quanto era stato previsto in un precedente disegno di legge mai ap- provato33, non sono coinvolti nella fase applicativa del provvedimento,

e si è visto nel capitolo II quanto poco siano tenute in considerazione le richieste – sostenute dai socialisti – dell’INM per un’esenzione dalla revisione censoria, e dalle relative tasse, delle pellicole educative.

Sul secondo versante, quello della regolazione dell’accesso, l’ala cattolica più rivendicativa del dibattito (rappresentata in prima linea dai Gesuiti di «Civiltà Cattolica») chiede che sia vietato l’ingresso in sala ai bambini e ai ragazzi:

Bisogna imporre dei limiti ai minorenni nella frequenza dei ci- nematografi, per scongiurare il pericolo di vederci venir su una generazione non solo di nevrosi, di maniaci e di superficiali, ma anche di delinquenti per suggestione34.

Una richiesta, questa, che non raccoglie però l’adesione della com- ponente laica, e che non avrà alcuna ricaduta sul piano legislativo.

33 Il Regio Decreto del 2 novembre 1909 aveva istituito su proposta di Vittorio

Emanuele Orlando, allora ministro della Giustizia, una Commissione Reale per lo studio dei provvedimenti contro la delinquenza dei minorenni. All’interno della commissione, Raffaele Calabrese, sostituto procuratore presso il tribunale civile e penale di Roma, aveva messo a punto un disegno di legge contro la pornografia finalizzato a regolamentare gli spettacoli di intrattenimento, primo fra tutti il cinema. La legge proposta da Calabrese fu «pigramente discussa e ridiscussa, fino al 1917» (Sergio Raffaelli, Parole di film, cit., p. 229), quando si insabbiò defi- nitivamente. Nell’articolo 2 del progetto Calabrese si stabiliva che la commissione di censura, istituita in ogni comune e nominata dal Magistrato dei minorenni, doveva esser composta del direttore di una scuola o istituto d’educazione, del consigliere scolastico provinciale e di uno o più padri di famiglia.

34 [Mario Barbera], Cinematografo e moralità pubblica «Civiltà Cattolica», XLV, 4,