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La parola «metodo» ricorre spesso nei discorsi cine-educativi, quasi come una sorta di imperativo categorico. La troviamo, per esempio, nel titolo dell’articolo di don Costetti sull’utilizzo catechistico delle im- magini proiettate (cfr. infra, p. 190 ss.), così come nelle «considerazioni generali» che aprono il contributo di Orestano sul cinema nelle scuo- le, pubblicato nel 1913. Nel giugno di quello stesso anno, durante la discussione parlamentare della legge sulla censura cinematografica, il deputato socialista Treves usa la stessa espressione: «Non ho bi- sogno di ricordare», egli dice riferendosi in particolare all’esperienza dell’INM, «come per iniziativa di uomini illuminati di ogni partito sia venuto in questi ultimi anni formandosi una scuola, un metodo di

propaganda popolare, mediante la cinematografia»(cfr. infra, p. 265).

Questa ricorsività del termine non è solo una passione nominalistica ma mette in gioco elementi di sostanza: a chiarirlo con la sua consue- ta lucidità è, nel 1911, Natalina Baudino, quando scrive che «il metodo d’insegnamento prepara il modo di pensare di un popolo dal quale dipendono la grandezza e la felicità o il decadimento di un paese» (cfr.

infra, p. 189).

Se tutti i contributi che alimentano il dibattito sono quindi uniti dalla certezza che si debba costruire un metodo (ulteriore indizio della loro dimensione comunitaria), in essi non si propone tuttavia una sola soluzione, perfettamente univoca. Le differenze metodologiche, anzi, paiono a volte incommensurabili, e tenteremo di rilevarne alcune nel III capitolo. Al di là delle diverse posizioni, tuttavia, nei vari interventi si coglie sempre una sorta di afflato comune, di convinzione unanime: sottoporre il cinema a un metodo significa metterlo al servizio di una pedagogia delle sensazioni visive capace di tradurre in esperienza le nozioni sempre confinate nell’orizzonte delle teorie; affermazioni, que- ste, pienamente coerenti con le diffuse teorie del «metodo oggettivo» (da Pestalozzi, a Fröbel, a Herbart) che ponevano al centro dell’apprendi- mento l’esperienza diretta delle cose. Appare evidente, allora, come la più profonda matrice culturale del primo dibattito italiano sul cine- ma educativo sia rappresentata da quel positivismo pedagogico che sin dal secondo Ottocento, e poi ancora nell’Italia giolittiana, aveva indivi- duato proprio nella necessità di un metodo rigoroso e nella centralità dell’educazione sensoriale i fondamenti della sua azione intellettuale91. 91 Per un’ottima introduzione al rapporto tra il metodo intuitivo positivista e le

La fortuna del «metodo positivo» nelle teorie pedagogiche italiane «mi- nori», più orientate, come nel nostro caso, verso una pratica applicativa e tecnico-tecnologica, si prolunga oltre la crisi storica del positivismo stesso (la cui morte è frettolosamente dichiarata da Croce già nei primi anni del Novecento)92 e della sua area di influenza scientifico-accade-

mica. Non sorprende, allora, leggere ancora nel 1922, in piena stagione idealista, l’ennesimo riconoscimento (ormai fuori tempo massimo) della bontà di tale metodo: «dal più semplice trattato ai più complessi studi dei nostri pedagogisti», sentenzia la Romani,

dall’osservazione quotidiana dello svolgersi della mentalità in- fantile risulta ormai chiaro e convincente che il metodo ideale dello insegnamento è il metodo intuitivo, cioè il metodo che si basa sulla osservazione diretta di quanto circonda l’educando e che trova quindi la sua fonte più vasta nelle cose. Ed è metodo di cui si serve la stessa natura (cfr. infra, p. 352).

In questa stanca riproposizione dei precetti costitutivi del metodo, ormai sclerotizzati, si avverte senza dubbio l’eco di quel “nuovo dog- matismo” identificato da Ludovico Geymonat come una delle cause principali del declino del positivismo come cultura egemone dell’Italia liberale93.

Forse uno dei motivi che spiegano questa «coda lunga» – un po’ stanca, se non inerte – del metodo oggettivo, risiede paradossalmen- te nella difficoltà che incontrò a «penetrare nella pratica educativa in modo da modificare sensibilmente l’indirizzo della scuola»94: una

responsabilità grave per un metodo che aveva fatto della sperimenta- zione la sua principale ragion d’essere. I tentativi di introdurre il me- todo oggettivo nelle scuole, d’altronde, conoscono non poche difficoltà sin dai programmi Gabelli del 1888. A riconoscere le ricadute negati- ve di queste difficoltà sullo sviluppo delle proiezioni didattiche è, nel 1916, proprio colui che avrebbe dovuto gestire l’applicazione del me- todo, sulla base delle istruzioni contenute nelle riforme dei program- mi scolastici dal 1888 in avanti: stiamo parlando del Ministro della Pubblica Istruzione, in questo caso nella persona del già più volte ci- tato Pasquale Grippo. «Io sono convinto che sia necessario vivificare l’istruzione popolare con l’immagine», dichiara il Ministro, «la quale pedagogie dell’immagine tra Otto e Novecento cfr. Roberto Farné, Diletto e giova-

mento. Le immagini e l’educazione, Utet Università, Torino, 2006, pp. 155-186. 92 Per un’utile sintesi introduttiva della complessa polemica aperta da Croce con-

tro il positivismo cfr. Marco M. Burgalassi, Itinerari di una scienza. La sociologia

in Italia tra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano, 1983, pp. 174-218.

93 Cfr. Ludovico Geymonat, Il pensiero scientifico, Garzanti, Milano, 1954, pp.

90-91.

serve a dare, meglio di qualsiasi insegnamento verbale, la visione re- ale del mondo esterno e ad attuare nella scuola quel metodo positivo che finora è rimato un precetto astratto ed una platonica aspirazione dei più grandi educatori» (cfr. infra, p. 339). Tre anni prima, nel 1913, inaugurando la sezione milanese dell’INM nella grandiosa sede del Teatro del Popolo, Vittorio Emanuele Orlando aveva svolto un’analisi simile, ma molto meno generica e ben più combattiva era stata la sua conclusione: «Ben vero, oggi, il metodo intuitivo si propaga e diffonde e trionfa sui vecchi metodi; ma ancora molto resta a noi da fare perché la scuola diventi quale deve essere» (cfr. infra, p. 318). Non ci resta al- lora, a questo punto, che provare a vedere che cosa è stato fatto, e se la scuola è veramente diventata quello che doveva o voleva essere.

Capitolo I