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(1907)

Io amo, io adoro, il cinematografo. L’amo per ciò che è, l’adoro per ciò che diverrà. Intendiamoci: Non il cinematografo industriale-réclame, a suon di grancassa per far quattrini, colle sue serate nere, colla riproduzione di fiabe, di miti, di mostruosità ridicole e stucchevoli, artefatto automaticamente sulla falsariga d’un palcoscenico.

Ma il cinematografo genuino, che a unico modello delle sue caleidoscopi- che fantasmagorie prende la sola, vera e semplice natura. Esso che in breve diverrà lo stromento [sic] più perfezionato per fare avanzare l’umano progres- so, le scientifiche cognizioni, l’ultima verità della scienza. Lo stato stesso lo avocherà presto a sè come lo strumento più perfezionato, come l’alleato più fedele, come l’ausiliario più fecondo della scuola.

Fuori della scienza esso resterà ciò che è ridotto oggi, un gingillo inutile, un manichino stupido di piacere per gli inetti per gli impotenti, per gli idioti. Nient’altro. Surrogherà, tutt’al più la farsa, la pochade del palcoscenico o il ba- raccone misterioso di lussuria, cerretano e gabbamondo della piazza, col merci- monio dell’oggi, colla prostituzione del domani, in sempre bilaterale ed usuraio contratto al cento per uno: s’intende.

Nella scuola invece sarà tutt’altro. Il ministro della pubblica istruzione verrà presto obbligato ad aumentare di parecchi milioni il bilancio della Mi- nerva per [sopperire] alla nuova e ingente spesa di miliardi di pellicole ad usum scolasticum. E il bimbo, fin dagli inizii del sapere, si famigliarizzerà col cinematografo nella scuola. Non sarà più l’arida, l’astratta parola del maestro che lascia solo e per un attimo di tempo un suono senza senso nell’organo dell’udito del fanciullo; ma sibbene in un certo qual modo la riproduzione identica della cosa, anzi la stessa vera e propria cosa effigiata, che per prima attanaglierà tutta l’attenzione dello scolaro, il quale se la configgerà così nella mente associata, assimilandola meglio, non dimenticandola mai.

E dalle prime nozioni, dai primi racconti, dalle prime e più semplici aziende agricole del suo paese cinematografate, egli salirà su per gradi alla comprensione della geografia, della storia; vedrà – percorrendo vertiginosa- mente, fanciullo ancora, meridiani e paralleli – città, ville, paesi lontani nello stesso tempo che gliene parleranno; e su su – risalendo i secoli – toccherà col dito dell’occhio il punto preciso, tangibile a pochi metri dove fu vinto, dove fu

sconfitto il tal capitano, il tal esercito con le tali evoluzioni, col tal cambia- mento di fronte, col tale aggiramento, dove fu compiuto il tal atto di valore, il tale altro di infamia; conoscerà le stimmate delle varie razze dei popoli; le vergini foreste dei tropici colla loro fauna, colla loro flora; i ghiacci eterni dei circoli polari coi loro iceberg giganteschi, coi loro giganteschi orsi bianchi e trichechi; s’adagerà con l’occhio attonito sull’ampia distesa increspata dei mari e degli oceani, sulle aride e gialle radure delle steppe sterminate e dei deserti dalle sabbie mobili, dai terribili tifoni che seminano a centinaia di migliaia e a milioni la disperazione e la morte.

Tutto egli vedrà col cinematografo ausiliario ed amico, il quale animerà così la non più arida parola del sapere e gli inietterà come un vivido siero di vita nel cervello e l’accompagnerà fin sui banchi universitarii, fino sulle tavole anatomiche dell’ospedale dove gli porrà sott’occhio tante volte la riproduzione genuina delle malattie meglio curate e delle operazioni più ben riuscite, più difficili, più rare. E sarà così che – giovine ancora – egli avrà vissuto tante esi- stenze e si sarà provvisto delle migliori esperienze e virtù, perché avrà com- piuto – materialmente così – tanti viaggi, perché avrà visto tante meraviglie, perché avrà penetrato tanti misteri che i più longevi patriarchi del vecchio testamento e del nuovo, che le generazioni insieme dei successivi millennii non videro, non avrebbero mai potuto vedere mai.

Non sarà ancora la scoperta materiata della pietra filosofale; ma il germe, ma l’embrione di una prima e approssimativa immortalità, si potrà dir quasi trovato. E l’uomo che ha sempre imprecato alla imprevidente natura di aver- gli concessa troppo breve esistenza e di togliergliela allora che l’esperienza e il sapere gliela avrebbero fatta meglio aggradire e assaporare, l’uomo sarà d’ora innanzi coll’esperienza e col sapere che nessun altro antesignano avrà mai potuto fino alla più tarda età prima di lui accumulare in millesima e milionesima parte; l’uomo – notate bene – ancor prima di giungere alla prima giovinezza, alla prima pubertà si troverà possessore di tutto questo incom- mensurabile tesoro di esperienza e dell’altro.

Dell’altro, perché dell’altro ancora e più meraviglioso ci darà il cinemato- grafo avvenire congiunto colla fotografia o vista che dir si voglia a distanza, col telefono e col grammofono senza fili. La riproduzione, cioè vera e genuina d’ora in ora, di minuto in minuto, di secondo in secondo della esistenza che conduce una persona lontana a noi cari e in certo qual modo ancora la fis- sazione immortale della giovinezza, della nostra prima giornata d’amore o di fama, d’ebbrezza o di orgoglio, sognata o vissuta; non più sbiadita dal tempo, non più tronca dalla morte; ma risorgente dallo stesso tempo, dalla stessa morte più vivida, più fulgida, più vera di prima.

E sarà così che ogni amante o sposo che ha da anni l’amata al cimitero, se la vedrà – sebbene vecchio e cadente – quando più gli aggrada o desideri davanti agli occhi viva e giovine, colla parola e col sorriso intenta alle dome- stiche faccende, sarà così che mentre una cara persona attraverserà mari, continenti e oceani lontani, noi la potremo seguire, vedere, muovere e operare, intervistare a distanza come se presente, sarà così che noi sapremo de’ suoi

bisogni per provvedervi, delle sue gioie per condividerle, della realizzazione dei suoi sogni di ricchezza e di gloria per esultarne. Ahimé! Purtroppo vi sarà qualche volte anche il rovescio della medaglia. Noi vedremo, cioè, noi sapre- mo quando quell’adorata persona sarà afflitta da un grande dolore o verserà in grave pericolo, o – così da noi lontana – sarà per chiudere eternamente gli occhi alla luce del giorno; ma anche così noi potremo – non foss’altro – con- solarla, consigliarla, piangerne la dipartita subito, subito dopo essere stati secoli in comunione compartecipi e senza il dubbio più crudele della stessa certezza, senza il postumo rimorso di avere – magari in quell’istesso istante ch’ella ci invocava, ch’ella esulava dal mondo – profanata l’ora sacra nel suo dolore, del suo pericolo, della sua morte con la nostra presenza a un festino, a un bagordo indegno.

Queste e molte altre cose ci dirà e ci darà il cinematografo avvenire; e se di pari passo sapran con lui progredire i mezzi di locomozione per acqua, per terra, per aria e moltiplicate le meraviglie inventive della fine del secolo scor- so e del principio di questo, chissà che non potremo anche vincere la stessa morte in prima persona vincendo la forza della gravità terrestre (abbiam le limitazioni spiritiche per chi ci crede) che ci permetta di lanciarci attraverso i mondi dello spazio e prender sosta e domiciliarci – senza transazione di decomposizioni o trasformazioni di materia – in altri mondi più lontani, più longevi, più perfetti.

A questo punto la ragione vacilla e l’immaginazione mia è troppo poca cosa perché io azzardi uno di quei voli che a Flammarion stesso valse già l’epitaffio – secondo il Veltro meritato – del noto: Icarus Icariis nomina fecit acquis1.

«La scena illustrata», Firenze, XLIII, 5, 1 marzo 1907.