• Non ci sono risultati.

Il «gran soffio esterno delle cose»: dall’analogia all’estetica

Per le voci che alimentano il dibattito, si diceva, la scuola dell’età giolit- tiana ha bisogno di vita, deve subito aprire le sue finestre sul mondo in modo che possa diffondersi nelle aule «il gran soffio esterno delle cose»24,

e a questa urgenza nessun altro strumento didattico ed educativo può ri- spondere meglio delle immagini proiettate. Ma queste ultime come resti- tuiscono la realtà? Rappresentano fedelmente il mondo oppure esprimo- no qualcosa di diverso (e magari di ulteriore)? Ancora prima di proporre concrete possibilità di utilizzo delle «immagini luminose» nei diversi am- biti disciplinari, gli animatori del dibattito italiano sulle proiezioni edu- cative sono attratti da questi interrogativi. La ricerca di possibili risposte non soltanto risulta decisiva per sostenere le potenzialità didattiche delle proiezioni ma arricchisce e problematizza sensibilmente gli scenari della prima riflessione teorica italiana sulla fotografia e sul cinema.

Lo spettro eterogeneo della riflessione è compreso essenzialmente tra due poli: da un lato c’è chi riafferma ed esalta come qualità esclusi- va del cinema il nesso meccanico-riproduttivo che vincola l’immagine foto-cinematografica alla realtà, dall’altro lato invece c’è chi evidenzia, in termini ora positivi ora critici, le differenze e alterazioni implicate nel passaggio dalla realtà alla sua trasfigurazione nel contesto visivo- rappresentativo delle proiezioni.

Lungo l’arco quasi ventennale del primo dibattito italiano sulle pro- iezioni educative, affiora a intermittenza la convinzione che le immagini delle proiezioni educative non si limitino a rappresentare il mondo ma quasi si identifichino con esso, restituendocelo nella sua pura integri- tà, priva di mediazioni. Le diapositive proiettate nelle aule scolastiche siano «documenti di verità, fotografie di vita vera»25, il cinema educativo

offre «all’occhio, come in lucido specchio, l’immagine reale, chiara e vi- vente di cose, di luoghi e di personaggi» (cfr. infra, p. 311). Certo, come osserva Fabietti, «tutti gli aspetti e i fenomeni più grandiosi della natura e della vita» che passano sullo schermo sono solo «la perfetta illusione del vero» (cfr. infra, p. 346), ma ciò non toglie che il cinema resti «uno specchio di tutto l’agitato nostro esistere»26. Leggendo però i discorsi

del corpus esaminato si ha la sensazione che il tempo del cinema del- le origini, quando si magnificava la fascinazione per la stupefacente, tesi, come osserva Taillibert, era quello di rassicurare chi, all’interno della scuo- la, temeva che il cinema potesse snaturare il ruolo dell’insegnante (cfr. Christel Taillibert, L’usage mixte de l’image fixe et de l’image animée dans le domaine de

l’enseignement durant l’entre-deux guerres, cit., p. 146).

24 Alberto Cappelletti, Il cinematografo come mezzo d’educazione, «L’Illustrazione

cinematografica», I, 4, 1 marzo 1912, p. 4.

25 Lucio Sereno Villa, Proiezioni luminose nella scuola, «Proiezioni luminose», III,

1, 1924, p. 7.

evidente prossimità – quasi un’equivalenza – tra la realtà e le imma- gini prodotte dalla fotografia o dal cinema, esaltate come fedeli dupli- cazioni del vero, riflessi neutrali, impronte meccaniche o automatiche emanazioni dei reali dati sensibili, sia ormai definitivamente storiciz- zato. A darci la misura di questa sempre più fragile fortuna delle tesi del rispecchiamento e dell’equivalenza, indizio evidente di una crisi del rigoroso realismo di matrice positivista, può bastare il breve passag- gio di un testo sul cinema educativo firmato nel 1915 dallo scrittore e critico d’arte Ugo Valcarenghi. Sullo schermo, sostiene l’autore, gli ac- cadimenti reali, invece di essere «temperati al controllo della verità del documento umano», risultano «abbelliti dal desiderio o dal sogno»27. Il

cinema, dunque, «non si preoccupa tanto della verità»28. La riflessione

di Valcarenghi prosegue con una critica dell’immagine cinematografica su base estetica: il cinema non solo non riflette la realtà, perché più interessato a produrre effetti di commozione e di eccitamento sul pub- blico, ma impedisce che in esso possa esprimersi la personalità dell’ar- tista e la sua capacità di «idealizzazione» del reale, condizione neces- saria perché si possa parlare di arte. Quest’ultimo passaggio merita particolare attenzione: all’interno, come si è detto, di una riflessione sul cinema educativo, Valcarenghi introduce una tesi sulla (non) relazione estetica tra immagini animate e realtà. L’apertura dell’autore alla sfera dell’arte non è certamente casuale, se si considera che il rapporto tra educazione ed esperienza estetica (non solo dell’allievo ma anche, come si vedrà nel prossimo capitolo, del popolo) è un tema fondamentale nel dibattito pedagogico italiano, non solo idealista, del primo Novecento, e la discussione sulle proiezioni per le scuole non può che accoglierne l’eco, ribadendo con frequenza la necessità che le immagini proiettate in ambito educativo suscitino anche e soprattutto emozioni estetiche. «Se comunicherete una conoscenza sotto forma artistica», dice per esempio agli insegnanti-proiezionisti l’educatore Michele Mastropaolo, «troverete l’anima disposta ad accoglierla e ad assimilarla prontamente. Sotto la veste dell’arte il pensiero si chiarisce, s’illumina, acquista tutte le virtù della bellezza, diventa accessibile a tutte le menti, dilettevole a tutti i cuori» (cfr. infra, p. 153 ss.).

Alla luce di questa antitesi tra oggettivazione «riflessa» del reale e soggettivazione estetica, si può meglio comprendere, allora, quale sia una delle ragioni che ispirano le tesi dell’immagine differenziale: il fatto di ribadire, in diverse occasioni, come le immagini fotografiche e cinemato- grafiche non siano il perfetto analogon della realtà quanto il frutto di una

poiesis che riconfigura il dato reale, diventa spesso strategico per riven-

27 Ugo Valcarenghi, La cinematografia come elemento educativo, «La fotografia

artistica», XII, 11, 1915, p. 22.

dicare una legittimazione estetica della fotografia e del cinema29; que-

sta rivendicazione in virtù dei fattori differenzianti è condivisa da ampi settori delle teorie fotografiche e cinematografiche – non solo italiane30

dell’epoca, ma nel particolare contesto teorico delle proiezioni educative attenua le sue priorità estetiche per caricarsi invece di peculiari valenze pedagogiche, legate alla necessità di una comunicazione e di una cono- scenza efficaci. Si veda, per esempio, quanto scrive Cremaschi, in merito all’esigenza, prima di tutto didattica, di sottrarre le proiezioni diascopi- che al paradigma mimetico della fedeltà:

talune bellezze della natura possono riprodursi ed essere pre- sentate ai fanciulli, con quell’aspetto caratteristico che conferi- sce loro la fotografia, non sempre conforme in tutto al vero, ma suscettibile di evidenze estetiche tutte proprie31.

Lo storico dell’arte Augusto Calabi, dodici anni prima, era stato an- cora più lucido ed esplicito. La fotografia è riuscita a diventare artistica

solo cercando di correggere i caratteri che sul principio eran sembrati essenziali e buoni (esagerazione prospettica, precisio- ne cruda di dettaglio, rapidità inutile e dannosa), […] ricercando le armonie di linee e di luci, curando ogni lastra e ogni positiva sino a crear quasi un monotipo fotografico32.

Calabi parla di fotografia, ma il suo auspicio è che il cinematografo possa seguire la stessa evoluzione, così da diventare, come recita il ti- tolo del suo contributo, un insuperabile «mezzo di educazione estetica e sociale»33.

Appare chiaro, allora, come sia soprattutto la funzione didattica, prima di quella estetica (sia pure – come si è detto – a essa correlata), a motivare la messa in crisi del paradigma mimetico. Nel dibattito sulle proiezioni educative si esprime infatti da più parti la certezza che la fotografia o il cinema (spesso, in questo caso, contrapposti tra loro), pur proponendo immagini differenziali rispetto al fenomenico, siano in gra- do di far vedere, e quindi – in ossequio ai principi del metodo oggettivo

29 Sulla filiazione storica fotografia/cinema, anche in chiave estetica, cfr. Donata

Pesenti Campagnoni, Fotografia e cinema. Una relazione incompiuta, in Quale

museo di fotografia oggi?, Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo, 17 maggio 2014. Atti del convegno internazionale, http://www.mufoco.org/10/wp-

content/uploads/2016/03/mufoco_2014_atti_quale_fotografia_oggi.pdf

30 Cfr. per esempio Hugo Münstenberg, Film. Uno studio psicologico, a cura di Do-

menico Spinosa, tr. it. Bulzoni, Roma, 2010, p. 72 (ed. or. 1916).

31 Luigi Cremaschi, Le proiezioni luminose nella scuola, cit., p. 46.

32 Augusto Calabi, Il cinematografo come mezzo di educazione estetica e sociale, cit. 33 Ibidem.

– di far conoscere meglio la realtà di quanto la realtà stessa sappia o possa fare.

Si prenda per esempio la fotografia di un quadro celebre: in teoria, non vi è nulla di più vicino, e di più fedele, all’originale della sua riprodu- zione fotografica, eppure la fotografia delle opere d’arte ha una funzione didattico-conoscitiva ulteriore, perché consente all’osservatore di «scorge- re talora parti che distanza o deficienza di luce aveva impedito di vedere negli stessi originali»34. A esprimere questa valutazione è Corrado Ricci,

non solo storico dell’arte tra i più influenti dell’epoca ma anche convinto pioniere e sostenitore delle proiezioni educative, fisse ed animate.

Ancora più esplicite sono le riflessioni di coloro che teorizzano come l’esperienza cinematografica sia più feconda sul piano didattico rispetto alla visione diretta delle cose.

Tra i primi a sostenere questa tesi è l’anziano ed autorevole peda- gogista di fede herbartiana Nicola Fornelli, in occasione di un’intervi- sta rilasciata al già citato Mastropaolo nel 1909 (cfr. infra, p. 153 ss.):

Il cinematografo ha questo di veramente notevole: espone qual- cosa di più della realtà: chiude nei vari quadri di proiezioni quanti più elementi di verità e di naturalezza è possibile, ele- menti che nel mondo reale o sono lontani dalla visuale dell’os- servatore, o mancano, o non vengono colti (cfr. infra, p. 154).

Lo stesso Mastropaolo, pochi anni dopo, riprenderà questa rifles- sione di Fornelli, facendola sua. «L’attività del nostro spirito è in grado maggiore innanzi al cinematografo di quel che non sia la faccia alle dirette manifestazioni della vita», osserva il maestro napoletano. Ciò può accadere, egli prosegue, perché il cinema

espone qualche cosa di più della realtà; una realtà, dirò così, più intensa, giacché raccoglie nel quadro quanto più elementi di verità e di naturalezza è possibile, elementi che nel mondo reale o sono lontani dalla visuale dell’osservatore o non vengono colti o mancano totalmente (cfr. infra, p. 296).

Francesco Orestano sostiene una posizione analoga, ma con

34 Il congresso e la mostra fotografica a Castel Sant’Angelo, «La cinematografia

italiana ed estera», V, 105, 1911, p. 1326. Sull’importante rapporto di Ricci con la fotografia cfr. Ferruccio Canali, Fotografia d’arte e fotografia artistica nei giudizi

di Corrado Ricci e dei contemporanei, e Donatino Domini, Appunti sul rapporto tra arte e fotografia in Corrado Ricci, entrambi in Nora Lombardini (a cura di), Cor- rado Ricci, nuovi studi e documenti, Società di Studi Ravennati, Ravenna, 1999,

pp. 267-308, 331-355; Amedeo Benedetti, Corrado Ricci e il Gabinetto fotografico

nazionale, «Atti e memorie. Deputazione di storia patria per le province di Roma-

argomentazioni più dettagliate. Vedere direttamente la realtà, egli so- stiene, è meno produttivo, sul piano della conoscenza, di quanto lo sia vederla attraverso la mediazione del cinema, e ciò per almeno due ragioni: le proiezioni animate da un lato intensificano «l’osservazione, laddove la realtà, essendo più complessa, distrae l’attenzione in sva- riate direzioni» (cfr. infra, p. 230), dall’altro lato possono «raccogliere in una stessa serie le immagini di cose e fenomeni remoti fra loro nel tempo e nello spazio» (ibidem).

Per Fornelli, Mastropaolo e Orestano, quindi, il cinema compie sulla realtà un duplice intervento di analisi (operando una selezione, quasi metaforicamente un taglio di montaggio) e di sintesi (mettendo in relazioni parti di realtà lontane fra loro): il frutto di questa doppia operazione, lasciano intuire i tre autori, sarà la produzione di una nuova realtà semplificata, rarefatta, «isolata», di un mondo senza dub- bio legato ai suoi referenti sensibili ma anche dotato di autonomia.

Ciò che colpisce, in queste ultime riflessioni, è l’assenza di riferimenti espliciti a quella dimensione che da più parti, nei primi discorsi teori- ci sull’immagine animata, veniva indicata come peculiare della visione cinematografica: il movimento. Tale assenza tuttavia non deve stupire: quasi certamente Fornelli, Mastropaolo e Orestano non chiamano in causa l’illusione cinetica delle immagini cinematografiche proprio perché poco «differenziale», ossia troppo vicina alla percezione ordinaria della realtà. In molte altre riflessioni sul cinema educativo, invece, l’attenzio- ne al movimento diventa il principale motivo di contrapposizione tra le immagini mobili e quelle fisse. In questi casi, tuttavia, il rapporto tra realtà e cinema non è più impostato su basi differenziali ma analogiche: ciò che conta è sottolineare l’equazione tra il cinema e la vita, condizioni dell’esperienza entrambe plasmate, appunto, dal movimento.