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Apparenza del diritto ed errore: l’errore originato dall’apparenza e l’errore vizio del consenso.

4 «Apparenza di apparenza»: apparenza del diritto e istituti «apparentemente» affini.

4.1. Apparenza del diritto ed errore: l’errore originato dall’apparenza e l’errore vizio del consenso.

Da quanto finora detto e in base a quanto già osservato nelle prime pagine, nelle quali abbiamo cercato di tracciare i contorni dell’istituto dell’apparenza, emerge come tra quest’ultima e l’errore sussista uno stretto e quasi inscindibile collegamento. Anzi, stando alla definizione di apparenza che la dottrina è solita individuare e che abbiamo cercato di ripercorrere, l’errore risulta essere proprio un elemento costitutivo della fattispecie giuridica qualificata in termini di apparenza. Abbiamo infatti detto che «il principio dell’apparenza del diritto è una formula generale con la quale si suole indicare

89 Questo modus operandi non è una nostra originale trovata, ma è il normale sviluppo di ogni

ragionamento che ambisca all’individuazione e alla definizione di un istituto, anche non necessariamente giuridico. Proprio questo metodo, infatti, è utilizzato anche nei più recenti studi dedicati al tema che qui ci occupa: cfr. N.IMARISIO, L’apparenza del diritto cit., pp. 12 ss.; e prima di lei già A.FALZEA, s.v. Apparenza cit., pp. 687 ss., dal quale anche la stessa

tutte quelle situazioni in cui, in presenza di circostanze univoche ed obbiettive, una data realtà giuridica, in verità inesistente, “appare” come esistente, determinando così l’errore del terzo»90.

Posta, dunque, tale definizione di apparenza del diritto, che attraverso le considerazioni che seguono non vuole certo essere smentita, ma anzi trovare nuova conferma, può dunque sembrare strano o quanto meno poco coerente che ora si reputi necessario distinguere quella stessa apparenza proprio dall’errore, che abbiamo appena affermato costituirne parte integrante e insopprimibile.

Tale apparente contraddizione trova una facile spiegazione attraverso la precisazione, che si rende adesso quanto mai opportuna, circa la categoria di errore al quale si intende fare riferimento.

In particolare, occorre mantenere distinti l’errore nel quale incorre il soggetto terzo a causa della situazione di apparenza, che legittima il suo affidamento nella titolarità e nella conseguente legittimazione propria di uno stato di diritto in realtà insussistente, dalla diversa tipologia di errore tradizionalmente qualificato come vizio del consenso, rilevante ai fini dell’invalidità – sub specie annullamento – del negozio giuridico e dunque, in quanto tale, capace di travolgerne gli effetti.

Ora, è chiaro che i due tipi di errore non divergono in ordine ai loro elementi essenziali e alla loro struttura e, anzi, hanno un nucleo comune, costituito dal fatto che ambedue determinano nel soggetto che ne risulta vittima una falsa rappresentazione della realtà91. Sia l’uno che l’altro, infatti, producono un identico effetto, che è quello di indurre un soggetto a considerare esistente qualcosa che in realtà non è reale e, proprio in ragione di tale identità, si spiega perché ambedue siano qualificati giuridicamente alla stregua di errori. Tuttavia, pur essendo identico il processo che si produce nella mens del terzo, diverse e, anzi, propriamente opposte e speculari sono le conseguenze giuridiche che dai due errores originano: infatti, come ha opportunamente rilevato la dottrina, l’uno è preordinato a garantire l’efficacia dell’atto colpito

90 Cfr. supra, par. 1, pp. 1-2.

91 Come opportunamente rilevato da A.FALZEA, s.v. Apparenza cit., p. 697 «l’errore che

l’apparenza determina nel soggetto non differisce, nei suoi caratteri essenziali, dall’errore che vizia la volontà e genera la invalidità del negozio giuridico».

da errore, l’altro invece trova il suo esito proprio nell’inefficacia dell’atto viziato92.

Diverso è anche il piano, soggettivo o oggettivo, su cui operano i due tipi di errore: in particolare, l’errore vizio, com’è noto, per produrre la conseguenza dell’inefficacia dell’atto deve anzitutto ricadere su uno degli elementi la cui esatta rappresentazione è da considerarsi essenziale. Proprio sulla base dell’elemento su cui concretamente ricade l’errore, la dottrina suole comunemente distinguere diverse tipologie di errores, le cui nomenclature latine – error in negotio93, error in persona94, error in corpore e error in

nomine95, error in substantia e error in qualitate96 – rinvengono la loro origine proprio nelle espressioni utilizzate dai giuristi romani97.

92 A ravvisare come le conseguenze giuridiche dei due tipi di errore operino «in senso

speculare» è ancora N.IMARISIO, L’apparenza del diritto cit., p. 14, la quale correttamente

sottolinea che mentre «l’errore vizio determina l’inefficacia dell’atto o la precarietà della sua efficacia, rimuovibile ad iniziativa del soggetto errante, l’errore ingenerato dall’apparenza, all’opposto, determina l’efficacia dell’atto nonostante la mancata integrazione dei corrispondenti presupposti normativi».

93 In questo caso l’errore coinvolge proprio il tipo di negozio stipulato, come nel caso in cui

due contraenti ritengano di aver stipulato l’uno una donazione e l’altro un contratto di mutuo: D. 12.1.18.pr.-1: (Ulp. 7 disp.): «pr. Si ego pecuniam tibi quasi donaturus dedero, tu quasi

mutuam accipias, Iulianus scribit donationem non esse: sed an mutua sit, videndum. Et puto nec mutuam esse magisque nummos accipientis non fieri, cum alia opinione acceperit. Quare si eos consumpserit, licet condictione teneatur, tamen doli exceptione uti poterit, quia secundum voluntatem dantis nummi sunt consumpti. 1. Si ego quasi deponens tibi dedero, tu quasi mutuam accipias, nec depositum nec mutuum est: idem est et si tu quasi mutuam pecuniam dederis, ego quasi commodatam ostendendi gratia accepi: sed in utroque casu consumptis nummis condictioni sine doli exceptione locus erit.»

94 L’error in persona concerne l’individuazione della persona fisica con cui si intende porre in

essere il negozio: esso è giuridicamente rilevante soltanto quando sia essenziale, ossia quando, per le qualità e le caratteristiche della stessa, deve ritenersi che il soggetto non lo avrebbe stipulato con altro soggetto. La persona su cui l’errore ricade assumerà le vesti di controparte o di destinatario, a seconda che si tratti di negozi bilaterali o unilaterali: ciò risulta chiaramente dai due passi seguenti, aventi ad oggetto rispettivamente, il primo, un contratto di mutuo e, il secondo, un’istituzione di erede: D. 12.1.32 (Cels. 5 dig.): «Si et me et Titium mutuam

pecuniam rogaveris et ego meum debitorem tibi promittere iusserim, tu stipulatus sis, cum putares eum Titii debitorem esse, an mihi obligaris? Subsisto, si quidem nullum negotium mecum contraxisti: sed propius est ut obligari te existimem, non quia pecuniam tibi credidi (hoc enim nisi inter consentientes fieri non potest): sed quia pecunia mea ad te pervenit, eam mihi a te reddi bonum et aequum est.»; D. 28.5.9.pr. (Ulp. 5 ad Sab.): «Quotiens volens alium heredem scribere alium scripserit in corpore hominis errans, veluti “frater meus” “patronus meus”, placet neque eum heredem esse qui scriptus est, quoniam voluntate deficitur, neque eum quem voluit, quoniam scriptus non est.»

95 L’error in corpore comporta un fraintendimento circa l’identificazione della res che forma

oggetto del negozio, come nel caso di scambio di un fondo o di uno schiavo al posto di un altro: D. 18.1.9.pr. (Ulp. 28 ad Sab.): «In venditionibus et emptionibus consensum debere

intercedere palam est: ceterum sive in ipsa emptione dissentient sive in pretio sive in quo alio, emptio imperfecta est. Si igitur ego me fundum emere putarem Cornelianum, tu mihi te vendere Sempronianum putasti, quia in corpore dissensimus, emptio nulla est. Idem est, si ego me

Lo stesso errore, inoltre, non deve dipendere da colpa del soggetto che vi incorre. Pertanto, ai fini della sua affermazione o viceversa della sua esclusione, si dovrà tenere necessariamente conto di tutte le circostanze di fatto che possano avere concretamente inciso sul suo insorgere e che quindi possano avere pregiudicato la formazione del consenso del soggetto errante98. È chiaro, dunque, che l’ambito al quale occorre far riferimento per affermarne o negarne Stichum, tu Pamphilum absentem vendere putasti: nam cum in corpore dissentiatur, apparet nullam esse emptionem.». In entrambi i casi l’oggetto che si intendeva acquistare è diverso da

quello concretamente acquistato, pertanto i giuristi si pronunciano a favore della nullità della vendita. Diversa è l’ipotesi in cui il fraintendimento coinvolga non il corpus, ossia la cosa in sé, ma semplicemente la sua denominazione. In quest’ultima ipotesi – cosiddetto error in

nomine – l’errore non potrà ritenersi rilevante ai fini della invalidità del negozio, dal momento

che lo stesso non ricade su una qualità essenziale del bene, non potendo certo considerarsi tale il nomen. Ecco perché, secondo Ulpiano, non vi è dubbio che la compravendita sia valida: D. 18.1.9.1 (Ulp. 28 ad Sab.): «Plane si in nomine dissentiamus, verum de corpore constet, nulla

dubitatio est, quin valeat emptio et venditio: nihil enim facit error nominis, cum de corpore constat.»; D. 37.11.8.2 (Iul. 24 dig.): «Sed et cum in praenomine cognomine erratum est, is ad quem hereditas pertinet etiam bonorum possessionem accipit.».

96 L’errore che coinvolge la qualità del bene e del tipo di merce, frequente soprattutto nei

contratti di scambio, come la compravendita o la permuta, rileva soltanto quando incide sull’appartenenza ad un determinato genere commerciale. D. 18.1.9.2 (Ulp. 28 ad Sab.): «Inde

quaeritur, si in ipso corpore non erratur, sed in substantia error sit, ut puta si acetum pro vino veneat, aes pro auro vel plumbum pro argento vel quid aliud argento simile, an emptio et venditio sit. Marcellus scripsit libro sexto digestorum emptionem esse et venditionem, quia in corpus consensum est, etsi in materia sit erratum. Ego in vino quidem consentio, quia eadem prope ousia est, si modo vinum acuit: ceterum si vinum non acuit, sed ab initio acetum fuit, ut embamma, aliud pro alio venisse videtur. In ceteris autem nullam esse venditionem puto, quotiens in materia erratur.»; D. 18.1.11.1 (Ulp. 28 ad Sab.): «Quod si ego me virginem emere putarem, cum esset iam mulier, emptio valebit: in sexu enim non est erratum. Ceterum si ego mulierem venderem, tu puerum emere existimasti, quia in sexu error est, nulla emptio, nulla venditio est.» Se, invece, la qualità su cui cade l’errore non è essenziale e dunque, nonostante il

fraintendimento, non muta il genus al quale il bene stesso appartiene, allora esso non spiegherà effetto sul negozio e non ne inficerà la validità e l’efficacia: D. 18.1.10 (Paul. 5 ad Sab.): «Aliter atque si aurum quidem fuerit, deterius autem quam emptor existimaret: tunc enim

emptio valet.»; D. 18.1.14 (Ulp. 28 ad Sab.): «Quid tamen dicemus, si in materia et qualitate ambo errarent? Ut puta si et ego me vendere aurum putarem et tu emere, cum aes esset? Ut puta coheredes viriolam, quae aurea dicebatur, pretio exquisito uni heredi vendidissent eaque inventa esset magna ex parte aenea? Venditionem esse constat ideo, quia auri aliquid habuit. Nam si inauratum aliquid sit, licet ego aureum putem, valet venditio: si autem aes pro auro veneat, non valet»; D. 18.1.41.1 (Iul. 3 ad Urseium Ferocem): «Mensam argento coopertam mihi ignoranti pro solida vendidisti imprudens: nulla est emptio pecuniaque eo nomine data condicetur.»; D. 19.1.21.2 (Paul. 33 ad ed.): «Quamvis supra diximus, cum in corpore consentiamus, de qualitate autem dissentiamus, emptionem esse, tamen venditor teneri debet, quanti interest non esse deceptum, etsi venditor quoque nesciet: veluti si mensas quasi citreas emat, quae non sunt.»

97 A.BURDESE, Diritto privato romano cit., p. 195 avverte, tuttavia, come le classificazioni

proposte dagli interpreti sulla scorta delle fonti romane, siano state avanzate in base ad una terminologia «incompleta e talvolta oscillante».

98 N.IMARISIO, L’apparenza del diritto cit., p. 14 afferma che l’errore viziante «rileva su un

piano meramente soggettivo, dovendo essere misurato tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive della fattispecie che ne determinino o meno la conoscibilità da parte del soggetto errante».

l’esistenza è quello soggettivo: esso deve essere valutato ponendosi dal punto di vista del soggetto che è incorso in errore.

Al contrario, esattamente opposta è la prospettiva in cui si colloca l’errore frutto della situazione di apparenza. Questo, infatti, potrà rivestire rilievo giuridico e dunque determinare le conseguenze che abbiamo visto soltanto se connotato da oggettività: deve trattarsi – come già abbiamo avuto modo di precisare, ma giova qui ripetere – di una situazione di fatto che, tuttavia, in base a circostanze oggettive ed univoche, si presenti agli occhi esterni conforme ad una situazione di diritto. In altre parole, occorre che la situazione di apparenza che determina l’errore sia tale da trarre in inganno potenzialmente chiunque, da ingenerare uno stato di confusione o di fraintendimento nella generalità dei consociati e, in questo modo, da indurre incolpevolmente qualsiasi persona, che faccia uso della normale diligenza, a comportarsi come se quella situazione, in verità apparente, fosse invece reale99. Quanto appena detto potrebbe riassumersi con due parole: deve trattarsi di un «errore scusabile»: se volessimo aggiungerne una terza, potremmo dire, un «errore oggettivamente scusabile». Laddove questa oggettiva scusabilità dell’errore rappresenta un elemento necessario ma anche sufficiente della fattispecie di apparenza: esso, infatti, deve necessariamente ricorrere affinché detta fattispecie possa ritenersi integrata, ma, ove presente, non richiede ulteriori stati soggettivi dei terzi coinvolti nella situazione di apparenza. In particolare, non serve che l’errore sia stato determinato colposamente, né tanto meno dolosamente da un terzo, quale potrebbe essere il titolare, apparente o reale, del diritto soggettivo. La sussistenza del dolo o della colpa, semmai, inciderà sulla qualificazione della fattispecie di apparenza e rileverà ai fini

99 A.FALZEA, s.v. Apparenza cit., p. 697: l’erroneo convincimento sulla esistenza di una certa

situazione giuridica deve essere «causato da una situazione di fatto tale che qualunque soggetto medio della collettività sarebbe caduto nel medesimo errore», una situazione di fatto capace di trarre in inganno, circa l’esistenza della situazione giuridica, qualsiasi persona di normale diligenza e accortezza», il quale, a sua volta riprende L.MONACCIANI, Azione e legittimazione,

Milano: Giuffrè, 1951, p. 138: «l’essenziale è che qualunque terzo si possa ingannare»; sulla stessa linea anche N. IMARISIO, L’apparenza del diritto cit., la quale ritiene che l’errore

nell’apparenza vada «misurato con il metro eminentemente oggettivo dell’idoneità dell’apparenza a trarre in inganno la generalità dei terzi» e che, dunque, possa parlarsi di «apparenza giuridicamente rilevante» solamente se si tratti di «fatti valutabili dalla generalità dei consociati come indice di titolarità di un certo rapporto giuridico».

della distinzione, già delineata, tra apparenza pura e apparenza colposa100. Così, se l’errore sia determinato da colpa o dolo del terzo saremo di fronte ad un’ipotesi di apparenza colposa, laddove invece sia semplicemente frutto della situazione di fatto, nella sua oggettività, senza il concorso della condotta del terzo, si tratterà di apparenza pura, ma cionondimeno apparenza.

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