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Le principali applicazioni dell’apparenza del diritto e la loro estendibilità in via analogica: verso il superamento della tipicità e

IL PRINCIPIO DELL’APPARENTIA IURIS: APPARENZA DEL DIRITTO E FIGURE AFFIN

2. Le articolazioni del principio dell’apparenza del diritto: classificazioni dottrinali, fattispecie legislative e

2.2. Le principali applicazioni dell’apparenza del diritto e la loro estendibilità in via analogica: verso il superamento della tipicità e

l’affermazione di un principio generale di apparenza.

43 Anche per quanto riguarda la rappresentanza apparente e la figura del falsus procurator

rinviamo alle pagine che seguono, in particolare al capitolo IV, nel quale si cercherà di inquadrare l’istituto citato e di rintracciarne le origini storiche nell’ambito del diritto romano attraverso lo studio delle fonti tramandateci dai giuristi latini.

44 Così si esprime N.IMARISIO, L’apparenza del diritto cit., p. 23 nel sintetizzare la distinzione

tra i due significati del principio di apparenza: quella pura, enucleata dalla dottrina e tipizzata nelle fattispecie legali citate, e quella colposa, di matrice giurisprudenziale.

La prospettata distinzione tra apparenza pura e apparenza colposa, che in certo modo riproduce ed esprime il diverso atteggiamento e la diversa risposta che rispetto al problema dell’apparentia iuris è stata offerta in dottrina e giurisprudenza, ci pone davanti ad un quesito fondamentale ma estremamente problematico, sul quale gli interpreti continuano tuttora ad interrogarsi: l’apparenza del diritto può considerarsi un principio generale del diritto?

Al riguardo, la nostra opinione non è rimasta a lungo nascosta, dal momento che già nelle prime pagine non abbiamo esitato a definire l’apparenza come un principio. Il che, peraltro, ci ha imposto di motivare la scelta di ricercarne il fondamento nel sistema giuridico di Roma antica, che con l’enucleazione di principi generali aveva, come già chiarito, se non assoluta estraneità, quanto meno scarsa familiarità, privilegiando un approccio casistico, maggiormente conforme alla mentalità pragmatica e, potremmo dire, di «problem solving» propria del diritto romano45.

Tuttavia, in quel contesto abbiamo anche avvisato, rinviando ad un momento successivo la trattazione del problema, che la qualificazione dell’apparenza alla stregua di un principium iuris è stata – ed in parte è ancora – tutt’altro che pacifica.

È giunto dunque adesso il momento di tornare brevemente sull’argomento, per poi passare a trattare un ultimo aspetto che qui preme chiarire, ossia quello del confronto e della distintone dell’apparenza rispetto ad ulteriori figure ed istituti giuridici ad essa affini.

La questione relativa alla possibilità di elevare il principio di apparenza nel mondo celeste dei principi giuridici è connessa al problema, che in un certo senso rappresenta il risvolto della medaglia, della tassatività delle ipotesi di apparenza previste e disciplinate dal diritto o, viceversa, della possibilità di un’applicazione analogica a casi che, pur diversi e non espressamente contemplati, condividano con esse la eadem ratio.

45 Cfr. supra. Sull’asserito pragmatismo dell’esperienza giuridica di Roma antica e sul «se i

giuristi romani fossero davvero ‘più concreti’, e in qual senso» si veda l’intervento di L. LANTELLA, La concretezza dei Romani come fatto e come valore, in Index, 5 (1974-1975), pp. 24-29, nonché le successive pagine (pp. 30-37), che riportano le considerazioni conclusive dei professori Giuseppe Grosso (pp. 30-35) e Filippo Gallo (pp. 35-37), esposte al termine dell’ampio dibattito che chiuse il «colloquio camerte sulla concretezza della giurisprudenza romana», con interventi di Ignazio Buti, Luigi Capogrossi Colognesi, Mario Caravale, Pier Giovanni Caron, Settimio Di Salvo, Luigi Labruna.

In merito a tale problema, il quale, proprio per i rilevantissimi risvolti pratici che origina, è stato già in passato definito come il «più importante di tutta la dottrina dell’apparenza», diverse sono state le opinioni nel tempo susseguitesi. L’atteggiamento maggiormente diffuso in dottrina, soprattutto negli anni passati, manifestava una certa ostilità all’allargamento dei confini del principio di apparenza e alla sua conseguente applicabilità anche al di là delle ipotesi legislativamente previste46. Il fenomeno era, infatti, considerato dai più come uno «jus singulare», come «una deviazione dai principii ammessa dal legislatore utilitatis causa», che, proprio in virtù della sua eccentricità ed eccezionalità, doveva rimanere rigidamente circoscritta alle ipotesi ex lege individuate. Al contrario, una generalizzata sostituzione dell’apparenza alla realtà avrebbe provocato un inquinamento o addirittura un «avvelenamento» del sistema, aprendo le porte ad orizzonti che travalicano il diritto vigente e che la dottrina non ha esitato a definire di «futurismo giuridico»47.

Pur non essendo mancate alcune aperture rispetto alla possibilità dell’utilizzo dell’analogia iuris in ordine all’apparenza e alla sua formulazione in termini di principio generale, un contributo decisivo a riguardo è pervenuto, più che dalla voce della dottrina, dagli interventi della giurisprudenza, che attraverso le sue pronunce ha determinato in via di fatto un ampliamento del campo applicativo e dell’ampiezza della teoria dell’apparenza.

46 Particolarmente ostile al riconoscimento di un principio generale di apparenza del diritto è G.

STOLFI, L’apparenza del diritto cit., pp. 35, 37, 40; sulla stessa linea si pone A. VERGA, Osservazioni in tema di apparenza cit., pp. 195 ss. Fortemente critica anche l’opinione di L.

COVIELLO, La rappresentanza dei non concepiti e la buona fede dei terzi (nota a Cass. Civ.,

sez. I, 22 maggio 1931), in Foro it., 1 (1932), pp. 1315-1320; nonché quella di A. TORRENTE, In tema di procura apparente (nota a Cass. Civ., sez. I, 14 dicembre 1957, n. 4703), in Foro it.,

1 (1958), pp. 391-392. Per ulteriori riferimenti a posizioni affini a quelle citate, si rinvia alle indicazioni bibliografiche offerte da A.FALZEA, s.v. Apparenza cit., p. 699 nt. 65.

47 L’espressione «futurismo giuridico» per descrivere il fenomeno dell’apparenza è stata

coniata da L.COVIELLO, La rappresentanza dei non concepiti e la buona fede dei terzi, cit., p.

1318, cui si riferiscono anche le altre citazioni supra riportate: «L’art. 933 quindi rappresenta una deviazione dai principii ammessa dal legislatore utilitatis causa, e trattasi pertanto di jus

singulare in cui l’apparenza sostituisce la realtà, ma ci sembra assurdo volere costruire sulla

base di esso una dottrina generale sull’apparenza giuridica, che col pretesto della protezione delle aspettative dei terzi, finirebbe con l’autorizzare ogni spoliazione dei legittimi proprietarii. Ciò potrà costituire futurismo giuridico, ma non è conforme al diritto vigente». La qualificazione dell’apparenza alla stregua di un autentico «veleno», capace di inquinare irreversibilmente la costruzione del nostro sistema giuridico è, invece, propria di A.TORRENTE, In tema di procura apparente, cit., p. 392, il quale, temendo una sovversione del regime di

pubblicità legale, mette in guardia dal «veleno che si può nascondere nella bonaria teoria dell’apparenza: perfino passar sopra sulla necessità della forma scritta stabilita ad

Fra le diverse materie in cui si è mossa la giurisprudenza, una che ricopre particolare importanza, soprattutto per le non marginali implicazioni sul piano economico e patrimoniale che può comportare, si è registrata nell’ambito del diritto commerciale, attraverso il riconoscimento delle figure dell’imprenditore apparente e, soprattutto, della società apparente48, come distinta dalla società di fatto, da quella simulata e da quella occulta49. Senza poter scendere nel merito

48 In tema di società apparente, società di fatto e società occulta numerosi sono i contributi

dottrinali, tra i quali ci limitiamo a ricordare: C.ANGELICI, s.v. Società di fatto ed irregolare, in Enc. giur. Treccani, 29, Roma, 1993; C. ANGELICI, s.v. Società apparente, in Enc. giur. Treccani, 29, Roma, 1993; W.BIGIAVI, Società occulta, società palese, società apparente (Audizione e legittimazione), in Riv. dir. civ., 3/2 (1957), pp. 528-586; A. BUTERA, Sull’apparenza del diritto, con riguardo agli acquisti dei terzi in mala fede dalle anonime fittizie, in Foro it., 4 (1934), pp. 73-81; V. E. CALUSI, Apparenza del diritto e società

commerciali (note critiche), in Dir. fall., 32/1 (1957), pp. 270-286; A.CICU, Simulazione di società commerciali (nota a App. Milano, 27 dicembre 1934), in Riv. dir. comm., 34/2 (1936),

pp. 141-153; F. DE MARCO, Rappresentanza e legittimazione processuale nelle società di persone (nota a Cass. Civ., sez. III, 28 febbraio 1953, n. 514), in Giur. Compl. Cass. Civ., 32/3

(1953), pp. 156-158; ID., Società di fatto e apparenza giuridica (nota a Cass. Civ., sez. I, 24 aprile 1953, n. 1185), in Giur. Compl. Cass. Civ., 32/3 (1953), pp. 179-181; ID., In tema di società occulta (nota a Cass. Civ., sez. I, 10 aprile 1953, n. 937), in Giur. Compl. Cass. Civ.,

32/4 (1953), pp. 124-128; ID., Rapporti interni e manifestazioni esteriori nelle società di fatto (nota a Cass. Civ., sez. I, 14 aprile 1953, n. 971), in Giur. Compl. Cass. Civ., 32/4 (1953), pp.

473-474; ID., Società occulta ed esteriorizzazione verso i terzi (nota a Cass. Civ., sez. I, 20

maggio 1953, n. 1474), in Giur. Compl. Cass. Civ., 32/5 (1953), pp. 59; F.M.DOMINEDÒ, Le anonime apparenti: nuovi problemi nel diritto delle società, in Studi Senesi, 45 (1931), pp.

225-315; F.FERRARA, Società etichetta e società operante, in Riv. dir. civ., 2 (1956), pp. 650- 671; V.FRANCESCHELLI, In tema di società di fatto e di società apparente (nota a decr. Trib. Milano, 19 giugno 1976), in Giurisprudenza commerciale: società e fallimento, 5/2 (1978), pp.

149-169; F.GALGANO, Società occulta, società apparente: gli argomenti di prova del rapporto sociale, in Contr. impr., 3/3 (1987), pp. 702-724; F.GALGANO, s.v. Imprenditore occulto e società occulta, in Enc. giur. Treccani, 16/1, Roma, 1989; E.HEINITZ, Apparenza del diritto e simulazione di società (nota a Cass. Civ. 28 luglio 1943), in Riv. dir. comm., 43/2 (1945), pp.

63-69; F. PESTALOZZA, La società occulta nella vecchia e nella nuova legge (nota a Trib. Milano, 10 dicembre 1949), in Riv. dir. comm., 48/2 (1950), pp. 221-237; G.ROMAGNOLI, Società occulta, società apparente ed esigenze equitative, in Le Società, 18/1 (1999), pp. 35-

40; V. SALANDRA, Le società fittizie, in Riv. dir. comm., 30/1 (1932), pp. 290-314; G. SCALONE, Esteriorizzazione del vincolo sociale e sua influenza sul processo formativo della società, in Banca borsa, 14/2 (1951), pp. 291-297; G.SPATAZZA, La società di fatto, Milano:

Giuffrè, 1981; P.SPERA, La società di fatto: recenti orientamenti giurisprudenziali, Milano: Giuffrè, 2008; M.VACCHIANO, Il fallimento della società di fatto, Milano: Giuffrè, 2004. Sul

tema si vedano anche le osservazioni di A. FALZEA, s.v. Apparenza cit., pp. 700-701; M.

BESSONE –M.DI PAOLO, s.v. Apparenza cit., p. 5; N.IMARISIO, L’apparenza del diritto cit.,

pp. 79 ss.

49 Si utilizza l’espressione «società apparente» per qualificare il comportamento di due o più

persone che, pur non essendo legate da un vincolo sociale, operano all’esterno come se lo fossero, ingenerando il convincimento circa la loro natura di soci. Diverso è il concetto di «società di fatto», che rappresenta una species rientrante nel genus delle società irregolari, cioè le società non iscritte nel registro delle imprese. In particolare, la «società di fatto» si fonda o su un accordo soltanto verbale, o anche sul comportamento concludente dei soci. Entrambe devono, poi, essere distinte dalla «società simulata», che è soltanto parzialmente sovrapponibile a quella apparente, tanto che qualcuno ritiene che sia una species di questa. Infatti, nella «società simulata» si verifica una situazione di apparenza, che però è realizzata e voluta dagli stessi soci, che stipulano un contratto di società del quale non desiderano gli effetti. Infine, istituto ancora diverso è la «società occulta», nella quale il vincolo sociale è

del problema, affascinante ma estremamente complesso, ci limitiamo ad osservare che rispetto alla società apparente, il cui presupposto sarebbe la cosiddetta «esteriorizzazione» di un vincolo sociale in verità inesistente, la giurisprudenza è giunta a risultati rilevanti. Sempre in un’ottica di tutela dell’affidamento dei terzi, che in questi caso assumeranno per lo più la veste di creditori, ha affermato la responsabilità di coloro che si comportano e si presentano all’esterno come soci per le obbligazioni contratte in nome della società apparente, come se essa realmente esistesse; nonché, in taluni casi – non senza incontrare l’opposizione della dottrina – ha ritenuto assoggettabile a fallimento sia la società apparente, sia il socio apparente eventualmente presente in una società palese.

Accanto a questa, ulteriori esempi di applicazione in via analogica della teoria dell’apparenza giuridica si sono registrati con riferimento a due ulteriori ambiti attorno ai quali si snodano le relazioni giuridiche e spesso le controversie fra privati, quali quello dei titoli di credito e, di recente, anche quello condominiale, attraverso il riconoscimento della figura del condominio apparente50.

Ora, se l’emersione di tali nuove figure di apparenza, ulteriori rispetto a quelle individuate dal legislatore e tipizzate nel codice, rivela indubbiamente un’apertura da parte dei giudici a riconoscere nell’apparenza un canone generale dell’ordinamento, occorre tuttavia parimenti rilevare che il campo di azione della giurisprudenza si è però sempre mantenuto entro i confini di

effettivamente esistente, però non viene manifestato all’esterno, in quanto i soci si sono accordati per mantenerlo segreto. Quest’ultima ipotesi, dunque, è opposta rispetto a quella della «società apparente»: infatti, nella prima all’esterno opera una persona fisica, che ha alle spalle una società, nella seconda, invece, il soggetto apparentemente agente è la società, la quale però giuridicamente non esiste.

50 Sul condominio apparente si era posta la questione della legittimazione passiva al pagamento

delle spese condominiali, in merito alla quale la giurisprudenza aveva manifestato orientamenti diversi. La soluzione del contrasto giurisprudenziale de quo è giunta con la pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 5035 dell’8 aprile 2002, la quale ha escluso l’operatività in materia di condominio del principio dell’apparenza e, conseguentemente, riconosciuto l’obbligo di pagamento delle spese condominiali solo in capo al condominio effettivo e non a quello che appaia tale. Si riporta, per chiarezza, il principio accolto dalle Sezioni Unite, il quale peraltro è stato costantemente ribadito dalle successive pronunce in materia: «in caso di azione giudiziale dell’amministratore del condominio per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, è passivamente legittimato il vero proprietario di detta unità e non anche chi possa apparire tale» (Cass. Civ., Sez. Un., sent. 8 aprile 2002 n. 5035, par. 9). Per un’analisi della pronuncia e, più in generale, della questione relativa al condominio apparente si rinvia al capitolo 10 (intitolato proprio «Il condomino

quella che abbiamo definito come apparenza colposa e non si è mai spinto ad ipotizzare fattispecie di apparenza pura, ulteriori e diverse rispetto a quelle tipizzate dal codice.

Se, dunque, l’atteggiamento prudente e oculato delle Corti impone in certo modo di ridimensionare l’entusiasmo di fronte alle aperture dianzi segnalate, una simile cautela non può certo essere soggetto di biasimo neppure da parte di quanti, come chi scrive, accolgano con favore la prospettiva del riconoscimento di un principio generale di apparenza. Infatti, anche nell’affermare l’opportunità di ampliare oltre i casi tipici, occorre sempre guardarsi dal rischio di oltrepassare il limite e scadere in un utilizzo smodato e ultroneo, piegando il principio di nuovo conio anche rispetto a fattispecie o istituti rispetto ai quali non si manifesterebbe l’esigenza, disponendo gli stessi già di un compiuto disciplinamento ad opera del nostro diritto positivo51.

Riteniamo, dunque, che con favore possa essere salutata la tendenza verso la concessione di cittadinanza nel nostro ordinamento al principio dell’apparentia iuris52, a patto che dello stesso se ne effettui un utilizzo attento e ponderato, indirizzato alla luce dei principi – quelli sì innegabilmente fondamentali e universali – di moderazione e ragionevolezza, che sempre devono orientare l’azione dell’interprete e dell’operatore giuridico.

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