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La critica della dottrina alla presunta derivazione dell’erede apparente dal possessor pro herede.

herede nel contesto del diritto romano.

2.2. La critica della dottrina alla presunta derivazione dell’erede apparente dal possessor pro herede.

Alla luce di quanto considerato, può allora concordarsi con quella dottrina che critica l’asserita derivazione del concetto di erede apparente da quello di

possessor pro herede. Infatti, per quanto sia innegabile una certa vicinanza tra i

due istituti, un’operazione tendente ad una piena omologazione risulterebbe erronea e, dunque, rischierebbe di essere fuorviante, allontanando l’interprete dall’obiettivo che lo anima, ossia la corretta interpretazione del diritto, moderno o antico che sia.

Il ricorso alle categorie e ai concetti propri del diritto contemporaneo per spiegare istituti estranei al nostro ordinamento – e propri, invece, o del passato o dei sistemi vigenti e accolti in altri paesi – è un’operazione a ben vedere del tutto naturale e, in certo modo, comprensibile. Potremmo quasi dire che è un procedimento inconscio, che ciascuno di noi probabilmente ad una prima analisi è portato a compiere, per la naturale propensione ad individuare e ricercare nel mondo che ci circonda un elemento di appiglio, un qualcosa di familiare. Si tratta, volendo azzardare una metafora extragiuridica, di un fenomeno simile a quello che accade quando ci rechiamo all’estero o comunque ci allontaniamo dai nostri luoghi di frequentazione abituale: quale che sia il nostro desiderio o la nostra vocazione di indipendenza e di novità, possiamo esser certi che nel momento in cui ci imbatteremo, anche per puro caso, senza ricercarlo volontariamente, in qualcosa che richiami il nostro paese – sia una bandiera, un locale, o semplicemente un passante che parla la nostra lingua – tale coincidenza non ci lascerà nostro malgrado indifferenti: essa, con ogni probabilità susciterà in noi una reazione, sia pur un sorriso solo accennato, perché ci riporta, anche solo per un istante, a casa.

E, tralasciando la retorica, tale fenomeno non è poi così distante da quello che anima il giurista, che inevitabilmente nello spiegare e interpretare il diritto di altri ordinamenti cerca un raffronto con il proprio contesto di riferimento, nella speranza taciuta e irrivelata di poter spiegare fenomeni oscuri ricorrendo al confronto con quelli, ormai noti e ampiamente studiati, del proprio sistema.

Ma allora, se questa continua e – ripeto – inconscia, ricerca di qualcosa di familiare, di qualcosa di conosciuto e a noi consustanziale, è fenomeno del tutto naturale e automatico, ancor di più dobbiamo guardarcene e stare all’erta. Perché, se non può escludersi che a volte costruire un parallelo tra istituti di diversi ordinamenti o di diverse epoche storiche è operazione apprezzabile e finanche imprescindibile, è indubbio che in altri casi ciò rischia di portare ad un facile appiattimento sulle categorie moderne, che conduce a risultati sterili e incapaci di cogliere la reale essenza del fenomeno giuridico di volta in volta studiato.

Questo è il risultato distorto da cui tenta di mettere in guardia quella parte della dottrina che rifiuta con forza il paragone tra l’erede apparente moderno e il possessor pro herede delle fonti romane, definendo un simile accostamento

alla stregua di un «discutibile apriorismo». Con tale forte espressione si vuole evidenziare che il ricorso diretto alle fonti romane per tentare di spiegare fenomeni e istituti propri della modernità giuridica nasconde un ineliminabile rischio, è stato descritto, in modo assai evocativo, mediante una duplice metafora.

In particolare, la prima immagine, attraverso un rinvio al mondo della medicina e della chirurgia, qualifica tale tentativo alla stregua di un’operazione di trapianto di organi: la quale, esige, per garantire un esito positivo e scongiurare il rischio di un eventuale «rigetto», una scrupolosa e imprescindibile analisi circa l’omogeneità tra la fisiologia del sistema donante e di quello ricevente, la cui eventuale incompatibilità precluderebbe inevitabilmente la buona riuscita dell’innesto17.

La seconda metafora, invece, richiamando il mondo sartoriale, rileva come il possessor pro herede e l’erede apparente in verità vestirebbero «taglie» diverse, tanto che il secondo non potrebbe, senza un previo intervento di sapiente sartoria, indossare l’abito del primo18.

Sulla base di tali presupposti, è stata quindi sottolineata l’inutilità di una «adozione monca», cioè di un rinvio che, stante l’impossibilità di operare in via assoluta non può che essere relativo e parziale. Tale collegamento, dunque, oltre che improprio, appare insoddisfacente, in quanto inidoneo a realizzare lo scopo cui ogni rinvio dovrebbe tendere: esso infatti, dovrebbe mirare ad agevolare il compito dell’interprete, che, per definire i connotati e delineare la struttura e la disciplina di un certo istituto, può semplicemente fare riferimento ad un dato già esistente, così da ricavare in modo inferenziale il dato ignoto da un qualcosa che è già noto e conosciuto. Sennonché, nel momento stesso in cui ci si rende conto che la sovrapponibilità tra i due elementi di confronto non è

17 G.GALLI, Il problema dell’erede apparente cit., p. 195 ritiene che il ricorso alle fonti

romane per spiegare la figura dell’erede apparente imponga un’indagine sugli elementi di struttura dell’istituto antico, «per verificare se quel “trapianto” non comporti dei meccanismi di “rigetto” da parte dell’ordinamento ricevente» e prosegue poi (ID., p. 200): «il proposto

“trapianto” – perché tra organi non omogenei – non serve; l’adozione è monca e, nello stesso tempo, insostenibile».

18 La metafora è stata ideata da G.GALLI, Il problema dell’erede apparente cit., p. 188: «se il

possessor pro herede oltre a “is qui putat se heredem esse”, è anche “is qui heres est” – ed è

quindi lo stesso erede vero – è agevole dedurne che una differenza di taglie impedisce che la veste romana del possessor pro herede possa essere indossata senza correzione alcuna dall’erede apparente moderno».

perfetta e, anzi, lascia ampio margine di sfasatura e di disallineamento, allora, proprio in tale istante un siffatto tentativo di raffronto manifesta tutta la sua inadeguatezza e insufficienza: esso, infatti, può sopravvivere solo se debitamente corredato da una nuova definizione, che, andando a colmare le falle lasciate aperte, consenta un inquadramento completo dell’istituto. Ma allora, se così è – osserva la dottrina criticamente – nel momento stesso in cui il rinvio necessita di essere corredato di un’ulteriore definizione, perde ogni significato e, al contempo, si dissolve l’esigenza che ne aveva giustificato il ricorso19.

3. Possessor pro herede e possessor pro possessore nella

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