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L’usucapio hereditatis: ratio originaria e sua evoluzione nel mutato contesto storico.

petitio hereditatis.

6. Possessio pro herede e altri istituti «fattuali» in ambito ereditario: l’usucapio hereditatis.

6.2. L’usucapio hereditatis: ratio originaria e sua evoluzione nel mutato contesto storico.

Quanto alla ratio dell’usucapio pro herede, la dottrina ritiene che, trattandosi di istituto di età arcaica, sia da rinvenire nell’ambito dei caratteri tipici di quell’epoca e, in particolare, nella forte attenzione al sentimento di religiosità. Per questo si è ipotizzato che l’usucapio pro herede sia frutto della giurisprudenza pontificale, la quale, preoccupata di assicurare un continuatore ai sacra del defunto, avrebbe predisposto un meccanismo per acquisire in breve tempo – un anno – l’hereditas come complesso unitario, possedendo i beni che ne facevano parte51.

La giustificazione politico-legislativa dell’istituto52 viene, dunque, ricollegata alla necessità di sollecitare il chiamato ad adire quanto prima possibile, o comunque più rapidamente, l’eredità delata («maturius hereditates

adiri»), dietro minaccia di perdere la titolarità della stessa, che poteva essere

usucapita da colui che l’avesse, anche in mala fede – ossia pur consapevole di non essere il chiamato – posseduta per un anno. Tutto questo, naturalmente, al fine di scongiurare un duplice rischio e assicurare due diverse, ma parimenti fondamentali, esigenze: la prima di interesse pubblico, volta a preservare

51 A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano cit., p. 316.

52 Secondo M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano cit., p. 693 «è dubbio se

l’introduzione dell’usucapio pro herede fosse dovuta a considerazioni politico-legislative del genere, che possono aver eventualmente avuto un ruolo nel perdurare dell’istituto ed influito sulla trasformazione dello stesso da modo di acquisto dell’hereditas a quello della proprietà delle singole cose ereditarie». Egli riconduce tale trasformazione alla fine del II sec. a.C., ipotizzano che sia avvenuta in concomitanza con l’introduzione della bonorum venditio, esperibile infatti anche sul patrimonio del defunto che fosse privo di eredi, «rispecchiandosi nella più recente regolamentazione pontificale dei sacra, (da riportare a Q. Mucio Scevola, il

l’integrità della sfera religiosa, garantendo la presenza di qualcuno su cui far gravare l’onere della continuazione dei sacra. La seconda, di carattere privato, di individuare un soggetto contro il quale potesse indirizzarsi l’azione degli eventuali creditori ereditari.

Gai. 2.55

Quare autem omnino tam improba possessio et usucapio concessa sit, illa ratio est, quod voluerunt veteres maturius hereditates adiri, ut essent, qui sacra facerent, quorum illis temporibus summa observatio fuit, ut et creditores haberent, a quo suum consequerentur.

In proseguo di tempo e, in particolare, nel diritto classico l’usucapio pro

herede modificò in parte i propri connotati, e cominciò ad essere ammessa con

riferimento non più all’hereditas come complesso unitario, bensì alle singole

res hereditariae. Allo stesso tempo, però, mantenne le due peculiari

caratteristiche presenti già in età arcaica relative al termine annuale e alla non necessarietà della bona fides e della iusta causa: di conseguenza, l’usucapio

pro herede continuava a potersi compiere sia in capo a colui che fosse

consapevole di non essere heres, sia a colui che si reputasse tale in base ad un titolo in verità invalido53.

Tuttavia, un simile modo di acquisto dei singoli beni ereditari, – presi nella loro singolarità e non come complesso unitario – del tutto scisso dal requisito della bona fides, non tardò a manifestare la sua inadeguatezza. Infatti, se l’assenza della buona fede soggettiva del possidente non rappresentava probabilmente un problema in età arcaica epoca, in cui la violazione dei boni

mores era un’eventualità minimamente diffusa54, tutto questo non vale per i secoli successivi, in cui la violazione della buona fede, intesa come consapevolezza di ledere l’altrui sfera giuridica, per lo più con la prospettiva di conseguire un profitto patrimoniale, si manifesta con maggiore frequenza. Ecco

53 A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano cit., p. 316.

54 La motivazione di tale maggiore «correttezza» propria dell’epoca arcaica era dovuta, da un

lato, all’inferiore sviluppo delle relazioni private, dall’altro al forte sentimento religioso che connotava questa fase storica e che conduceva, il più delle volte, i singoli a rispettare i dettami di caratteri religioso che erano, prima ancora, dettami di caratteri etico, al fine di preservare l’equilibro socio-religioso della civitas.

perché Gaio nel descrivere questo particolare tipo di usucapione non esita a definirla «lucrativa»55, proprio in quanto volta a «lucrifacere» (Gai. 2.56) e, con un aggettivo che esprime un chiaro giudizio di disvalore, addirittura «improba»56 (Gai. 2.55): aggettivo, quest’ultimo, che noi potremmo tradurre come «ingiusta», in quanto svincolata dai requisiti che il ius civile normalmente impone per il possesso «ad usucapionem»; o, volendo valorizzare maggiormente l’aspetto soggettivo-psicologico, come «disonesta», in quanto non preclusa neppure a fronte della mala fides del soggetto, che può acquistare l’hereditas anche consapevole di invadere la sfera altrui.

Gai. 2.56

Haec autem species possessionis et usucapionis etiam lucrativa vocatur: nam sciens quisque rem alienam lucrifacit.

La percezione dell’inadeguatezza dei connotati di tal istituto e in particolar modo della «lucratività», portò dunque alla necessità della loro abolizione, la quale tuttavia, come rilevato da Mario Talamanca, «avvenne secondo lo stile romano gradualmente»57. Infatti, un primo cambiamento si ebbe già con l’imperatore Adriano, il quale ammise l’esercizio dell’azione di petizione dell’eredità da parte dell’heres contro chi in mala fede avesse usucapito pro

herede una cosa ereditaria. Il senatoconsulto adrianeo, in particolare,

consentiva che l’erede vero potesse, esperendo la petitio hereditatis, cancellare gli effetti dell’usucapio pro herede compiuta a favore del possessore di mala fede. Quanto alla natura di tale rimedio, è chiaro che esso aveva una funzione

55 Per l’etimologia e il significato dell’aggettivo «lucrativa» si vedano Lexicon totius

latinitatis, s.v. lucrativus, a, um, p. 116: «ad lucrum pertinens»; Thesaurus linguae Latinae, s.v. lucrativus, -a, -um, pp. 1713-1714: a lucrari; Lexicon Latinitatis Nederlandicae Medii Aevi, s.v. lucrativus, a, um, p. 2859: «winstgevend, lucrum afferens»; Lexicon mediae et infimae Latinitatis Polonorum, s.v. lucrativus, -a, -um, p. 1536: «lucrosus, lucrum afferens»,

nonché in senso traslato, come riferito alle persone (de hominibus), «aliquid appetens, cupidus,

avidus alicuius rei».

56 Anche in questo caso per approfondimenti lessicali e semantici dell’aggettivo «improba»

merita confrontare Lexicon totius latinitatis, s.v. improbus vel inprobus, a, um, pp. 751-752: (in

negat. et probus); Thesaurus linguae Latinae, s.v. improbus, -a, -um, pp. 689-690: «ab in et probus»; Lexicon Latinitatis Nederlandicae Medii Aevi, s.v. improbus, a, um, pp. 2375-2376:

«schlecht, genere malus»; Lexicon mediae et infimae Latinitatis Polonorum s.v. improbus s.

inprobus, -a, -um, p. 231: «non probus, malus [...] turpis», ma anche «iniquus, pravus, flagitiosus».

che oggi definiremmo «rescissoria, in quanto, se non veniva esperita, l’acquisto restava efficace»58.

La definitiva abolizione dell’istituto, tuttavia, avvenne soltanto sotto Marco Aurelio, il quale introdusse un’apposita fattispecie criminosa, la cui condotta consisteva proprio nell’impossessamento di cose ereditarie (crimen expilatae

hereditatis). Da questo momento in poi, dunque, l’appropriazione di cose

ereditarie – che, come visto, secondo il ius civile non configurava furtum59 non soltanto non consentì più di addivenire al risultato dell’usucapione, ma perse ogni profilo di legittimità, essendo configurata alla stregua di un crimen, reprimibile extra ordinem. Di conseguenza, da questo momento in poi la bona

fides diventa elemento costitutivo dell’usucapio pro herede, la quale produce

effetti soltanto quando il possessor pro herede abbia acquisito il possesso in buona fede. Al contrario, un’adprehensio accompagnata dalla consapevolezza dell’altruità della cosa o circa la propria non qualità di heres, non avrebbe prodotto alcun effetto e non gli avrebbe consentito, dunque, di acquisire l’hereditas, a prescindere dall’esercizio o meno della petitio hereditatis da parte del verus heres.

Gai. 2.57

Sed hoc tempore iam non est lucrativa: nam ex auctoritate divi Hadriani senatus consultum factum est, ut tales usucapiones revocarentur; et ideo potest heres ab eo, qui rem usucepit, hereditatem petendo proinde eam rem consequi, atque si usucapta non esset.

Così configurato l’istituto sopravvive nella compilazione giustinianea, la quale per la verità, nel confermare la vigenza dell’istituto, ne annacqua i confini, dilatandone il contenuto e identificando con lo stesso nomen «usucapio

pro herede» due diverse fattispecie.

La prima di esse sarebbe appunto l’usucapione dell’erede apparente, ossia di colui che, pur non essendo erede, possiede in buona fede l’eredità e le cose ad

58 Ibid.

essa pertinenti, e corrisponderebbe dunque a quella «usucapio lucrativa» di cui parla Gaio (cfr. supra Gai. 2.56)60.

Circa la configurazione di tale istituto nell’ambito della compilazione, la dottrina ha ipotizzato che Giustiniano, volendo abolire questa peculiare figura di usucapione, eliminò dalle proprie Istitutiones i passi in cui Gaio si occupava dell’istituto, estendendo il requisito della bona fides61 per ogni usucapione e sostituendo l’originario termine annuale dell’usucapio pro herede62 con i nuovi termini di tre, dieci o venti anni. Mantenne, invece, le altre caratteristiche proprie dell’istituto, ossia l’assenza di heredes sui e il fatto che l’erede non abbia mai conseguito il possesso dei beni ereditari63.

Da non confondere, infine, con l’ipotesi appena descritta dell’usucapione

pro herede dell’erede apparente è la diversa ipotesi della usucapione compiuta

da parte dell’erede vero su cose falsamente credute ereditarie. La validità di tale forma di usucapione era discussa in età classica: questa, infatti, fondandosi sull’erronea convinzione da parte del vero erede che il defunto, da cui aveva correttamente acquistato l’eredità, avesse posseduto i beni ereditari a titolo di proprietà, era ammessa «da quei giuristi che riconoscevano l’efficacia del cosiddetto titolo putativo, cioè la giusta causa meramente immaginaria o presunta»64. Questa seconda fattispecie di usucapione viene pure ricondotta da

60 Sull’usucapio pro herede merita citare l’opinione di P.BONFANTE, Istituzioni di diritto

romano cit., pp. 437 ss., secondo cui tale figura «non era altro nel diritto classico se non la lucrativa pro herede usucapio, cioè una di quelle figure eccezionali, cui non si applicavano i

nuovi requisiti della iusta causa e della bona fides».

61 Ancora il riferimento è a P.BONFANTE, Istituzioni di diritto romano cit., p. 238, il quale

definisce il requisito della bona fides in questi termini: «La buona fede non è altro che il comportarsi da persona onesta nella presa di possesso: in altri termini, la coscienza di non far torto al legittimo possessore.» Dopodiché, l’autore precisa che nell’usucapione il «presupposto è in generale un errore: che si creda di ricevere dal proprietario o da un suo rappresentante o almeno di non tener la cosa da padrone contro il suo consenso. La credenza di essere diventato proprietario in base a un negozio d’acquisto non è necessaria.»

62 L’antica usucapio pro herede, come accennato, si compiva in un solo anno anche con

riferimento ai beni immobili.

63 Di nuovo, citiamo il pensiero di P.BONFANTE, Istituzioni di diritto romano cit., p. 238: «Ma

distrutte queste due troppo visibili e gravi caratteristiche, forse gli parve di aver conciliato abbastanza l’usucapione pro herede con il tipo normale, onde la mantenne con tutte le particolarità della sua essenza primitiva e del suo sviluppo ulteriore [...]».

64 Questa è la conclusione di P.BONFANTE, Istituzioni di diritto romano cit., p. 237. Della

stessa opinione anche A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano cit., p. 317, secondo cui

in caso di usucapione da parte dell’erede vero di cose da lui erroneamente ritenute appartenenti all’eredità «non si tratterebbe comunque di usucapio pro herede, bensì di un’ipotesi di titolo putativo».

Giustiniano nell’alveo dell’usucapio pro herede e di essa, infatti, si trova traccia nel relativo titolo del Digesto. Sul tema in particolare viene in rilievo un breve frammento del giurista Pomponio, il quale, pur senza nominare in maniera esplicita l’usucapio pro herede, riporta che, almeno stando all’opinione dominante («plerique putaverunt»), l’erede (quello vero, non apparente) avrebbe potuto usucapire una cosa ritenuta erroneamente ereditaria. Tuttavia, come rilevato da autorevole dottrina, in questo caso saremmo di fronte ad «una fattispecie la quale, più che nella causa pro herede, rientrava in quella pro suo»65.

D. 41.5.3 (Pomp. 23 ad Q. Muc.)

Plerique putaverunt, si heres sim et putem rem aliquam ex hereditate esse quae non sit, posse me usucapere.

Il fraintendimento o la sovrapposizione tra le due diverse figure, usucapione dell’erede apparente dei beni (realmente) ereditari e usucapione dell’erede vero sui beni erroneamente ritenuti ereditari è dovuta, in verità – secondo quanto è stato sostenuto – ad una «storica anomalia» contenuta all’interno della compilazione giustinianea66, frutto di un equivoco – o meglio un doppio equivoco – in cui sarebbe caduto lo stesso Giustiniano. Questi avrebbe, infatti, per errore annoverato tra le iustae cause anche il titolo pro herede, sia con riferimento al vero erede che possiede cose appartenenti ad altri ma che egli ritenga in buona fede facenti parte dell’asse ereditario, sia rispetto all’erede apparente, che possiede – senza averne titolo, ma in buona fede – l’eredità e le sue pertinenze.

I due equivoci, tuttavia, si collocano su piani diversi e sono connotati da un diverso grado di gravità: infatti, il primo, relativo all’usucapio del vero erede,

65 Questa volta il riferimento è a M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano cit., p. 694, il

quale sottolinea, peraltro, come «l’opinione dei plerique sembrerebbe poi disattesa in C. 7.29.4 di Diocleziano», che qui si riporta: C. 7.29.4 (Imperatores Diocletianus, Maximianus, a. 294): «Usucapio non praecedente vero titulo procedere non potest nec prodesse neque tenenti neque

heredi eius potest, nec obtentu velut ex hereditate, quod alienum fuit, domini intentio ullo longi temporis spatio absumitur.»

66 L’espressione è di P.BONFANTE, Istituzioni di diritto romano cit., p. 237, autore del giudizio

sarebbe un equivoco meramente formale67 e, potremmo dire ‘di etichetta’, in quanto Giustiniano, nel riconoscere l’operatività di tale meccanismo lo qualifica pro herede, inserendo i relativi frammenti nei titoli del Digesto e del

Codex rubricati appunto «Pro herede».

Al contrario del primo, l’equivoco relativo all’usucapio pro herede dell’erede apparente sarebbe invece sostanziale, perché riporta e ingloba come ipotesi di iusta causa un istituto che come visto nasce in verità proprio come figura che eccezionalmente si sottrae alla necessità della iusta causa, oltre che della bona fides. E, d’altra parte, non avrebbe potuto essere altrimenti, in quanto l’erede apparente «non succede realmente in alcun rapporto e potrà quindi essere in perfetta buona fede, ma il suo possesso non è veramente basato su di una iusta causa»68.

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