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La testimonianza di Gaio: possessor pro herede e possessor pro possessore.

herede nel contesto del diritto romano.

2.1. La testimonianza di Gaio: possessor pro herede e possessor pro possessore.

Il primo autore col quale è opportuno confrontarci è il giurista Gaio, il quale nelle sue Istituzioni prende in considerazioni le figure del possessor pro herede e del possessor pro possessore, offrendoci i primi elementi utili per una loro definizione. Le due figure in particolare vengono in rilievo non in quanto tali, ma con riferimento ad una situazione peculiare, che chiama in causa l’analisi del principale istituto a tutela del possesso, ossia l’interdetto. Nello specifico, il passo che qui si riporta prende in esame l’interdictum adipiscendae

possessionis causa, ossia quella particolare categoria di interdetto che il pretore

poteva concedere a coloro che intendessero acquistare il possesso di un bene per la prima volta (nunc primum), essendo invece precluso – come precisa lo stesso Gaio – nel caso in cui il soggetto volesse recuperare un precedente possesso per varia causa perduto (adeptus possessionem amiserit). In quest’ultima ipotesi, infatti, il corretto strumento processuale utilizzabile sarebbe stato non l’interdictum adipiscendae possessionis causa, bensì il diverso interdictum reciperandae possessionis causa, configurato proprio per consentire il recupero della disponibilità di una res, che si era già posseduta in passato.

Gai. 4.144

Adipiscendae possessionis causa interdictum accommodatur bonorum possessori, cuius principium est “Quorum bonorum”; eiusque vis et potestas haec est, ut quod quisque ex his bonis, quorum possessio alicui data est, pro herede aut pro possessore possidet dolove fecit, quo minus possideret, id ei, cui bonorum possessio data est, restituatur. Pro herede autem possidere videtur tam is, qui heres est, quam is, qui putat se heredem esse; pro possessore is possidet, qui sine causa aliquam rem hereditariam vel etiam totam hereditatem sciens ad se non pertinere possidet. Ideo autem adipiscendae

possessionis vocatur, quia ei tantum utile est, qui nunc primum conatur adipisci rei possessionem; itaque si quis adeptus possessionem amiserit, desinit ei id interdictum utile esse.

Ora, una prima lettura di questo passo non sembrerebbe offrirci troppi elementi utili ai fini della ricostruzione del nostro istituto. Come spesso avviene, infatti, la fonte non introduce le categorie sostanziali, le quali non emergono in quanto tali, ma in rapporto a concrete situazioni che appare opportuno o necessario risolvere. Il giurista, infatti, non si preoccupa di definire i concetti astratti di possessor pro possessore e di possessor pro

herede per puro vezzo erudito o per necessità classificatoria, ma più

pragmaticamente al fine di chiarire la portata applicativa di un certo istituto processuale – nel caso di specie l’interdictum adipiscendae possessionis causa – sia dal punto di vista oggettivo che sotto il profilo soggettivo.

In particolare, il passo riferisce che tale interdetto apprestava una tutela al soggetto che avesse ottenuto la bonorum possessio, consentendogli di acquistare il possesso di quei beni che fossero in mano di colui che «pro

herede aut pro possessore possidet». Il brano, però, non si ferma qui e subito

dopo si premura di precisare quanto appena affermato, chiarendo la distinzione fra le due categorie soggettive appena citate. Così, anche se indirettamente, Gaio ci offre le definizioni a noi utili, spiegando anzitutto che con l’espressione «pro herede [...] possidere» si intende «is, qui heres est, quam is, qui putat se

heredem esse». Le parole di Gaio, dunque, sono chiare e non lasciano adito ad

equivoci: possiede pro herede tanto chi ‘è erede’, quanto colui che ‘reputa di essere erede’.

Ora, considerato il nostro assunto di partenza, ossia che l’erede apparente ha come suo antecedente storico il possessor pro herede, la seconda parte del discorso di Gaio non desta alcuna perplessità: anzi, essa appare del tutto in linea col dato di partenza, in quanto conferma pienamente quanto cerchiamo di dimostrare. Abbiamo detto, infatti, che, secondo la definizione moderna, erede apparente è colui che si comporta come erede, pur non essendo tale. Stando a Gaio, è qualificabile possessor pro herede colui che «putat se heredem esse». Quindi, dire che l’erede apparente ritiene di essere erede, è quanto dire che in

verità l’erede apparente erede non è. Gaio avrebbe potuto dire «ritiene erroneamente», ma sarebbe stata una precisazione del tutto superflua, tenuto conto che subito prima ha ricompreso nel medesimo concetto anche chi «heres

est»: perciò, è oltremodo chiara la contrapposizione tra ‘chi è’ e ‘chi reputa di

essere’, il quale a contrario e per forza di cose ‘non è’ (erede)15.

Se arrestassimo, dunque, l’analisi a questa prima parte del discorso di Gaio, senza prendere in considerazione il resto, non sussisterebbe alcuna contraddizione o divergenza tra il dato antico e quello moderno. Anzi, per buona pace di chi vuole ad ogni costo ricercare un perfetto riscontro tra passato e presente, potrebbe affermarsi una certa continuità, in quanto «qui se heredem

esse putat» può senz’altro farsi rientrare nel moderno concetto di erede

apparente.

Sennonché, come visto, la portata della definizione gaiana è ben più ampia e idonea a mettere in crisi ogni tentativo di individuare la perfetta corrispondenza anzidetta. Infatti, prima ancora di fare riferimento a «colui che reputa di essere erede», Gaio afferma senza tentennamenti che possessor pro herede è anche «qui heres est». L’assunto gaiano suscita, allora, stupore in coloro che leggano tale passo con l’idea di riscontare un corrispondente del moderno concetto di erede apparente e che ambiscano ad individuare nelle fonti antiche le radici dei moderni istituti, come se questi debbano necessariamente rinvenire un antecedente, più o meno fedele e preciso, nel passato e da questo trarre a propria legittimazione.

Ma, se solo si abbandona tale prospettiva – che pure è quella dalla quale siamo partiti – e si analizza il passo gaiano di per sé considerato e calato nel proprio contesto storico-giuridico, quella medesima affermazione acquisisce subito un diverso significato: e, così, lo stupore iniziale abbandona il lettore.

Infatti, che una perfetta corrispondenza tra il concetto di erede apparente moderno e quello di possessor pro herede non possa sussistere lo si comprende già dalle stesse nomenclature dei due istituti: queste, infatti, pur facendo

15 L.BORSARI, Commentario del Codice civile italiano, Torino, 1972, p. 930: «Quello che

dicevasi “possessore pro herede” riceve un appellativo più distinto in duplice modo; e perché scolpisce la differenza che vi ha fra lui e il vero erede, e perché esprime il suo carattere estrinseco, che produce illusione nei terzi. Con tale generica qualificazione si raffigura colui che ritiene i beni ereditari del possesso, poiché erede apparente è colui che tanto in buona quanto in mala fede ritiene la eredità.».

entrambi riferimento ad un soggetto che «fa le veci» dell’erede (pro) e che dunque come tale «appare» agli occhi dei terzi, sono tuttavia costruite grammaticalmente in modo differente. Per meglio precisare, mentre la nozione moderna orbita attorno al sostantivo «erede», che rappresenta il concetto centrale da cui partire, quella romanistica di possessor pro herede utilizza il medesimo sostantivo heres, ma in qualità di complemento, che va a completare appunto e a definire qualificandolo il concetto di possessor. Tale constatazione banale appare, peraltro, confermata dal fatto che lo stesso Gaio mette in parallelo, contrapponendolo per differenziarlo, colui che possiede pro herede da un diverso tipo di possessor, ossia quello pro possessore. Insomma, appare chiaro che nella prospettiva antica – o per lo meno nel passo gaiano – ciò che interessa definire sono le diverse tipologie di possessore. Ciò che preme all’autore è, infatti, identificare e distinguere le diverse tipologie di possesso, ancora una volta non per mero interesse classificatorio, ma per individuare la diversa disciplina ad essere applicabile. Perché, infatti, a seconda che il soggetto possieda pro herede o possieda pro possessore, quel medesimo possesso riceverà un diverso trattamento giuridico. Tutto ciò in quanto, nonostante entrambe le situazioni afferiscano ad una medesima signoria di fatto, questa è qualificata soggettivamente in maniera diversa e come tale è destinataria di un differente trattamento giuridico.

D’altra parte, quanto appena osservato risulta evidente se solo si legga il passo nel contesto in cui Gaio lo affronta. Egli, infatti, introduce l’argomento subito dopo aver parlato degli interdetti, che, com’è noto, rappresentano il principale istituto predisposto dai pretori proprio per tutelare quelle situazioni fattuali corrispondenti al diritto di proprietà, le quali tuttavia non erano espressione di una proprietà civilisticamente intesa, ossia di un diritto o – volendo utilizzare le categorie generali moderne – di una situazione giuridicamente rilevante, riconosciuta e tutelata dal sistema di ius civile. Quindi, come si nota, tutta la definizione gaiana ruota attorno al possesso16, che nel caso che a noi interessa è una possessio pro herede, cioè un possesso ‘a titolo di erede’, ossia ‘in qualità di erede’, un possesso cioè posto in essere dal soggetto ‘come se fosse erede’.

Se così è, allora, si spiega anche agevolmente la circostanza che nel concetto di possessor pro herede Gaio ricomprenda non solo chi ‘reputa di essere erede’ e, di conseguenza, possiede, ad esempio, il patrimonio del de

cuius come se fosse il legittimo successore a titolo universale; ma, allo stesso

modo, anche colui che ‘è realmente ed effettivamente erede’ e che, pertanto, a maggior ragione e a pieno titolo possiede pro herede, cioè appunto in qualità di erede, in quanto è il soggetto legittimamente titolato ad esercitare una signoria di fatto sui beni ereditari.

Diversamente, l’erede apparente moderno prende le mosse dalla figura e dal concetto di erede, che viene poi combinato con l’istituto dell’apparenza giuridica, del quale costituisce una delle principali manifestazioni. Nel contesto odierno, perciò, l’espressione ‘erede apparente’ richiama e individua colui che appare erede, colui che si comporta come successore universale del de cuius e come tale ingenera nei terzi il ragionevole convincimento di avere a che fare con un soggetto che è realmente subentrato iure hereditario al defunto. Ma tale concetto – come supra accennato – è, quantomeno nella sua portata astratta, del tutto sganciato dal possesso, che infatti non è richiesto per qualificare un soggetto come erede apparente. Semmai, il possesso potrà rilevare ai diversi fini della petitio hereditatis, che, laddove esercitata dall’erede contro chi possieda i beni ereditari ‘a titolo di erede’, necessariamente si dirige verso un ‘erede apparente possessore’, in quanto postula e presuppone la disponibilità materiale dei beni rivendicati da chi afferma di essere il vero successore.

2.2. La critica della dottrina alla presunta derivazione dell’erede

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