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Avendo ricostruito nei paragrafi che precedono i tratti fondamentali degli istituti del creditore apparente, come opportunamente distinto dall’adiectus

solutionis causa, e avendo individuato le possibili tracce di un loro rispettivo

antecedente storico nell’ambito delle fonti romanistiche, possono a questo punto trarsi le conclusioni dell’analisi finora svolta.

L’obiettivo che ci si era prefissi era diretto, come dichiarato, a tentare una rivalutazione e una nuova lettura della figura del creditore apparente nel diritto romano. In particolare, a fronte di una innegabile e indiscussa penuria di fonti che espressamente invochino una simile figura, ci si era proposti di indagare se l’unica conclusione possibile fosse l’esclusione di tale istituto dal panorama giuridico romano; o se, al contrario, pur nell’esiguità di testimonianze che affrontino direttamente il tema, fosse tuttavia possibile rinvenire fattispecie, che anche mediante la rappresentazione di figure eterogenee, come quella dell’adiectus solutionis causa o dell’adpromissor, facessero emergere un’attenzione da parte del diritto romano rispetto a fenomeni qualificabili come lato sensu di ‘apparenza’75.

Tuttavia, un simile tentativo non è necessariamente da rigettare o da mistificare se compiuto per sincere ed autentiche ragioni di studio, con la mente sgombra da preconcetti, e dunque diretto non ad individuare le ragioni che sorreggono la tesi che si vuole sostenere, ma, al contrario, a studiare il fenomeno giuridico nella sua reale portata storica ed, eventualmente, a ricercare e valorizzare, solo se presenti, i segnali e i sintomi di comunicabilità rispetto agli istituti moderni. Se non effettuata in questi termini, infatti, tale operazione rischia di risultare forzata e le ragioni a sostegno addotte effimere, privando così di contenuto e di interesse la tesi proposta.

75 Tale operazione di ‘ricerca del simile’, naturalmente, viene condotta nella consapevolezza

che, anche laddove dia esito positivo, quasi mai conduce a risultati totalmente conformi a quelli propri degli istituti moderni, dai quali è ciononostante imprescindibile prendere le mosse ogni volta che si tenti di proporre un paragone tra nuovo e antico, cercando di rinvenire, con una sorta di forzatura o di inversione logica e soprattutto cronologica, il nuovo nel vecchio.

In questo caso, dunque, la ricerca in tema di creditore apparente non ambiva certo ad individuare risultati con portata innovativa o dirompente, impresa che avrebbe evidentemente peccato di eccessiva ambizione, finanche forse di arroganza, dal momento che la figura del creditore apparente – come rilevato da tutti gli autori che fino ad oggi si sono occupati anche marginalmente del tema – a quanto è dato sapere non è stata oggetto dell’attenzione dei giuristi romani, come d’altra parte testimoniato dalle fonti in nostro possesso, che solo in un unico caso menzionano il falsus creditor. Se, dunque, un’impresa volta a rinvenire l’inesistente o ad argomentare tesi innovative senza sicuri appigli testuali sarebbe risultata priva di ogni fondamento e utilità – paragonabile alla ‘battaglia contro i mulini a vento’ di Don Chisciotte – ciò non toglie che un lavoro di ricerca che si proponesse di analizzare le figure di apparenza giuridica nel mondo romano non poteva certo esimersi dal prendere in considerazione anche il fenomeno del pagamento al creditore apparente, che nel nostro ordinamento rappresenta senza dubbio una delle principali manifestazioni del principio dell’apparentia iuris.

Nel far questo, oltre ad analizzare l’unica imprescindibile fonte che offre, seppur attraverso un breve inciso – peraltro, come visto, di discussa epoca – la definizione di falsus creditor, si sono analizzate anche svariate testimonianze in cui viene presa in considerazione la diversa figura dell’adiectus solutionis

causa. Tutto questo non perché si sia incorsi in errore, confondendo due figure

tra loro eterogenee, ma perché si ritiene che i due fenomeni – creditore apparente e adiectus solutionis causa – debbano necessariamente essere affrontati congiuntamente, per più motivi: da un lato, proprio per coglierne i tratti distintivi e per non rischiare un’indebita sovrapposizione tra gli stessi; dall’altro, per capire se l’apparenza giuridica come categoria possa attagliarsi soltanto alla figura dell’erede apparente o, viceversa, possa estendersi fino ad inglobare anche il soggetto individuato dal creditore vero come destinatario del pagamento e, dunque, come destinatario «aggiunto» – adiectus – appunto per l’adempimento.

In realtà, le conclusioni cui siamo giunti rispetto a questo secondo aspetto non possono che essere negative, in quanto la figura dell’adiectus solutionis

causa, com’è evidente, non può considerarsi espressione di un fenomeno di

particolare, se dal punto di vista oggettivo potrebbe anche ipotizzarsi una sovrapposizione tra creditore apparente e adiectus solutionis causa, dal momento che entrambi si presentano al debitore come soggetti legittimati a ricevere il pagamento, anche se non sono i reali titolari del credito – e dunque appaiono creditori agli occhi del pagante, pur essendo sprovvisti di tale veste – tuttavia i due fenomeni si distinguono anzitutto sotto il profilo della legittimazione. Infatti, come visto, mentre il creditore agisce in via di mero fatto, senza aver ricevuto alcuna investitura formale da parte del creditore vero, l’adiectus solutionis causa, invece, opera proprio sulla base di un incarico o di una richiesta proveniente dal legittimo titolare, che dunque è consapevole e addirittura autorizza la riscossione. Anzi, talvolta, come dimostrato dalle fonti, la presenza dell’adiectus è «oggettivizzata», cioè è resa parte del regolamento contrattuale cui le parti si vincolano. In proposito, abbiamo, infatti, analizzato svariati passi in cui i soggetti, nell’effettuare un contratto di stipulatio, esplicitamente ammettono in via preventiva che un terzo possa intervenire come accipiente delle somme o delle res oggetto dell’obbligazione, o in generale come destinatario della prestazione promessa dallo stipulator, attraverso l’inserzione dell’inciso «mihi aut Titio»76. In questo caso Tizio, ossia il terzo adiectus rispetto alle parti del rapporto obbligatorio (creditore e debitore), ha una legittimazione formale ad intervenire come accipiente del credito, legittimazione data a priori proprio da parte del creditore medesimo o, nel caso in cui la formula anzidetta sia inserita all’interno della stipulatio, da entrambe le parti77. Laddove quella promessa sia effettuata inserendo al suo interno anche un terzo soggetto, è chiaro che questo entra a far parte del regolamento contrattuale voluto o quantomeno accettato da entrambe le parti, le quali non potranno dunque dirsi ignare circa la reale veste e l’effettivo ruolo svolto dal soggetto terzo da loro stesse ‘aggiunto’, rispetto al quale non potrà certo invocarsi un’apparente titolarità del credito. Non si pongono, quindi, in questo caso problemi di affidamento da parte del terzo in virtù del

76 Tanto che, come abbiamo osservato, la ricorrenza di tale inciso, attestata in svariate

occasioni e in diversi ambiti dei rapporti tra privati, ne dimostra senza dubbio la diffusione, tale da renderlo una vera e propria clausola stilistica, se non da elevarlo al rango di consuetudine.

77 La stipulatio è, infatti, un contratto frutto dell’accordo e dell’incontro delle volontà dei due

comportamento tenuto dal soggetto accipiente, il quale, oltre all’apparenza di soggetto titolato a ricevere il pagamento, ne possiede evidentemente anche la sostanza.

Escluso dunque, per quanto appena riassunto, che la figura dell’adiectus

solutionis causa possa rientrare nel concetto di apparenza, ed escluso anche

che la figura del creditore apparente abbia conosciuto nel diritto romano una consistenza tale da renderla un istituto configurabile nella sua individualità, ci siamo tuttavia domandati se non dovesse comunque attribuirsi un qualche rilievo a quella per quanto isolata fonte che del falsus creditor fa menzione. Rispetto a tale interrogativo, ciò che in queste pagine si è timidamente cercato di sostenere è che se un giurista della levatura di Ulpiano ha voluto qualificare espressamente il creditor come falsus, creando così un parallelo rispetto alla figura del falsus procurator, ciò significa che le due figure erano percepite come assimilabili, quanto meno nella loro struttura giuridica, riflessa poi – anche per ragioni di ordine logico-espositivo, non certo estranee al pensiero giuridico romano – nella rispettiva struttura onomastica. Rispetto a ciò, peraltro, si ritiene che nulla rilevi l’asserita non autenticità dell’inciso che offre la definizione di falsus creditor, tacciato di essere frutto di un’aggiunta postclassica, in quanto ai nostri fini ciò che conta è che, al più tardi nell’opera di compilazione, si sia sentita la necessità di definire e, dunque, di isolare nella sua individualità, contribuendo così ad attribuirle un’identità propria, la figura del ‘falso creditore’, ossia di colui che si presenta agli occhi altrui, e in particolare agli occhi del debitore, come creditore, ma in realtà tale non è.

Tuttavia, sebbene tale aspetto accomuni indubbiamente il falsus creditor ulpianeo al profilo del nostro creditore apparente dell’art. 1189 c.c., almeno a voler assecondare il desiderio di rinvenire un filo diretto che leghi passato e futuro, quasi senza soluzione di continuità, abbiamo in verità rilevato la differente prospettiva in cui i due fenomeni – falsus creditor delle fonti romane e creditore apparente del codice civile italiano – si inseriscono.

Infatti, come visto, se da un lato la disciplina relativa al creditore apparente nasce e si sviluppa in un’ottica di tutela del terzo contraente che, in buona fede, ha pagato al soggetto che ai suoi occhi appariva legittimato a ricevere detto pagamento, dall’altro il falsus creditor, esattamente come il

qualcuno che non è, arrogandosi qualifiche e facoltà che in verità non gli spettano, in quanto non sono state conferite da nessuno (né dal vero creditore nel caso del falsus creditor, né dal rappresentato o dal mandante nel caso del

falsus procurator).

Ciò risulta evidente se solo si osservi come sono presentate le situazioni in cui vengono in rilievo le due figure: da un lato, il furto del falsus creditor e, dall’altro, il pagamento al creditore apparente. In particolare, nel caso del

falsus creditor delle fonti romane, ciò che si tende a sottolineare è la condotta

illecita del creditore fittizio, che, ricevendo indebitamente il pagamento, non fa altro che appropriarsi illegittimamente della cosa altrui, commettendo così

furtum. Nel contesto del diritto romano viene, dunque, posta l’attenzione sul

comportamento illecito del terzo accipiente sine iusta causa, il quale proprio in virtù dell’illiceità della propria condotta, posta in essere in assenza di titolarità, induce a qualificare il creditor come falsus. In tale ottica, dunque, la fattispecie che vede protagonista il falsus creditor dovrebbe qualificarsi – in base alle nomenclature moderne – come ‘apparenza colposa’; al contrario, il pagamento al creditore apparente nella costruzione del nostro codice civile configura un’ipotesi di ‘apparenza pura’, rilevante a prescindere dal contegno del creditore e dal suo eventuale concorso alla determinazione dello stato di apparenza. La prospettiva del moderno legislatore, infatti, muove dalla necessità e dalla volontà di tutelare il debitore che ha effettuato il pagamento ad un soggetto non legittimato a riceverlo, ma che appariva oggettivamente tale. La figura del creditore apparente – e dunque ‘falso’, non reale – rimane sullo sfondo, come elemento costitutivo della fattispecie che legittima un’inversione rispetto alla disciplina consueta in tema di pagamento, la quale autorizza solo ed esclusivamente il creditore o chi da lui designato – anche l’adiectus dunque – a riscuotere il dovuto.

Alla luce di tale distinzione e della diversa prospettiva in cui devono essere inquadrati i due fenomeni, riteniamo dunque di dover ribadire quanto in parte già avevamo anticipato nel concludere l’analisi del passo ulpianeo che riporta il caso del falsus creditor, laddove osservavamo che in relazione ad esso i profili di frattura rispetto alla modernità superano quelli di continuità. Infatti, nonostante l’indiscussa assonanza concettuale e anche onomastica con cui i due istituti si presentano, le ragioni che li ispirano e le finalità che li

animano riducono questa apparente vicinanza, collocandoli, quantomeno sotto il profilo teleologico, su due piani differenti. Se così è, ci piace allora concludere questa nostra analisi prendendo in prestito le parole con cui Gaio – pur in tutt’altro contesto – sottolineava la distanza tra ‘ciò che appare’ e ‘ciò che è’, contrapponendo quanto è manifestato all’esterno alla sua intima e reale essenza: e, così, affermiamo che l’assimilazione tra creditore apparente e falsus

creditor è, in verità, «magis speciosa quam vera»78.

78 La celebre affermazione è contenuta, com’è noto, nel frammento 190 del primo libro delle

Istituzioni gaiane, con cui il giurista prende le distanze rispetto alla motivazione che i veteres

avevano addotto a fondamento dell’istituto della tutela muliebre, giustificandola in ragione dell’asserita inferiorità e debolezza della donna sia dal punto di vista fisico (infirmitas sexus), sia dal punto di vista psicologico (levitas animi): Gai. 1.190: «Feminas vero perfectae aetatis

in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur: Nam quae vulgo creditur, quin levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera; mulieres enim, quae perfectae aetatis sunt, ipsae sibi negotia tractant, et in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit auctoritatem suam; saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur.». Il riferimento alla «levitas animi» era, peraltro, già stato illustrato da

Gaio nel precedente frammento 44, nel quale viene prospettata la distinzione tra il regime della tutela previsto per i soggetti impuberi (tutela impuberum), di genere maschile o femminile, e quello della tutela imposta alle donne, anche una volta raggiunta la pubertà (tutela mulierum): Gai. 1.144: «Permissum est itaque parentibus liberis, quos in potestate sua habent, testamento

tutores dare: masculini quidem sexus inpuberibus, feminini vero inpuberibus puberibusque, vel cum nuptae sint. Veteres enim voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, propter animi levitatem in tutela esse.».

C

APITOLO

IV

L’APPARENZA DEL DIRITTO NELLA

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