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Il principio di apparenza e la prevalenza della sostanza sulla forma.

IL PRINCIPIO DELL’APPARENTIA IURIS: APPARENZA DEL DIRITTO E FIGURE AFFIN

3. Il principio di apparenza nel diritto processuale.

3.1. Il principio di apparenza e la prevalenza della sostanza sulla forma.

Nel tentativo di delineare in maniera sintetica, ma quanto più possibile completa, l’ambito applicativo del principio dell’apparentia iuris, occorre

51 Questa è l’opinione anche di A. FALZEA, s.v. Apparenza cit., p. 701: «la legittimità del

principio non può tuttavia autorizzare impieghi incauti, specie in relazione a fattispecie che trovano già nella nostra legge una compiuta disciplina». Questo il motivo per cui egli ritiene «azzardato» il richiamo al principio di apparenza operato dalla giurisprudenza in tema di mandato e di circolazione dei titoli di credito.

52 La tendenza al riconoscimento dell’apparenza come principium iuris è dimostrata anche dal

fatto che oramai pressoché tutti i manuali istituzionali di diritto civile e privato dedicano pagine specifiche alla sua trattazione, affrontata in via generale e non semplicemente nell’ambito dell’esposizione dei singoli istituti che ne costituiscono diretta espressione.

rilevare come detto principio non trovi cittadinanza esclusivamente con riferimento al diritto sostanziale, ma anzi possa trovare spazio anche in quel diverso campo, che rispetto a quest’ultimo si pone come complementare e strumentale, rappresentato dal diritto processuale.

Anche in questo caso, pur trattandosi di un settore diverso e regolato dai suoi propri principi, il motore che mette in moto la macchina dell’apparenza è il medesimo: la certezza delle soluzioni giuridiche, da un lato, e il legittimo e incolpevole affidamento dei terzi, dall’altro53.

Un problema di certezza e di affidamento potrebbe porsi, ad esempio, nell’ipotesi, portata all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione54, di errore circa l’identità del provvedimento emanato dal giudice: in particolare, qualora il giudice emetta un provvedimento qualificandolo erroneamente come sentenza, laddove trattasi invece di ordinanza. Ora, è chiaro che il fatto che il provvedimento sia emesso in veste di sentenza, e dunque che lo stesso appaia agli occhi del destinatario come una sentenza (e non come un’ordinanza) mette in moto evidentemente tutta una serie di meccanismi, primo fra tutti quello impugnatorio, i cui effetti e il cui svolgimento saranno evidentemente conseguenza proprio di quella particolare apparenza. È, infatti, evidente che le facoltà spettanti al destinatario di un provvedimento, in primis quella di impugnare, saranno connesse e si atteggeranno in maniera diversa a seconda della tipologia di atto e, dunque, non saranno certo le stesse a seconda che si tratti di sentenza o di ordinanza.

A riguardo, il rischio di un simile errore nell’emanazione del provvedimento finale, oggi indubbiamente ridotto a seguito del cosiddetto «decreto di semplificazione dei riti»55, non era in passato così infrequente,

53 La Suprema Corte, in modo lineare, evidenza come «le esigenze di certezza dei rimedi

impugnatori» sono da preferire «rispetto a quelle sostanziali e contenutistiche».

54 Cassazione Civile, Sez. Un., sentenza 11/01/2011 n. 390.

55 Il «decreto di semplificazione dei riti» è il nome con cui viene comunemente individuato il

D. Lgs. 01/09/2011, n. 150 (G.U. 21/09/2011), recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69». Il decreto, in attuazione della delega attribuita dal legislatore con la legge 69/2009, ha realizzato la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione rientranti nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario ma regolati da leggi speciali, riconducendoli sostanzialmente ai tre modelli unitari previsti dal codice di procedura civile, ossia: il modello principale rappresentato dal rito ordinario di cognizione (titolo I e titolo III del libro II c.p.c.); il rito, maggiormente rapido e snello, relativo alle controversie in materia di rapporti di lavoro

stante l’elevato numero di riti processuali previsti. Infatti, fino a non troppi anni fa non rappresentava un’eventualità troppo remota il fatto che un certo procedimento si concludesse con una sentenza, quando invece, in virtù della specialità della materia e del relativo rito, il corretto provvedimento avrebbe dovuto essere un’ordinanza. Tale circostanza avrebbe dunque innescato, come reazione a catena, una serie di conseguenze, anche a livello impugnatorio: a fronte di una sentenza sfavorevole, infatti, il soccombente avrebbe con ogni probabilità deciso di proporre appello, a ciò ragionevolmente legittimato proprio dalla qualificazione del provvedimento come sentenza data dal giudice autore del provvedimento.

Tuttavia, è altrettanto evidente che, guardando alla sostanza dell’atto, che pur avendo nomen di sentenza aveva natura di ordinanza, la facoltà di proporre appello avrebbe dovuto essere negata, essendo questa ammissibile soltanto avverso le sentenze e, viceversa, esclusa per le diverse tipologie di provvedimenti aventi natura di ordinanza.

Ora, da quanto appena detto risulta evidente che la prospettata questione, che potrebbe prima facie essere considerata uno sterile problema di nomenclatura, è in realtà per i terzi coinvolti nella decisione foriera di conseguenze giuridiche non di poco momento. Infatti, laddove si ritenga di dover dare prevalenza al nomen iuris e dunque, di ‘dare per buona’ la qualificazione del provvedimento come data dal giudice, a prescindere dalla natura di ordinanza o di sentenza, l’eventuale appello proposto dal soccombente potrà considerarsi ammissibile e, laddove accolto, portare ad una revisione nel merito della decisione in un successivo grado di giudizio. Al

(sezione II, capo I, titolo IV del libro II c.p.c.); e, infine, il nuovo rito sommario di cognizione (capo III-bis, titolo I del libro IV, art. 669-bis ss. c.p.c.), recentemente introdotto ad opera della stessa legge 69/2009. Il decreto, in particolare, ha inteso porre un argine al fenomeno di proliferazione dei modelli processuali che aveva connotato l’evoluzione normativa dei decenni precedenti, che, pur animata dal nobile intento di garantire celerità a determinate categorie di processi, in virtù del loro peculiare oggetto, aveva originato notevoli difficoltà di interpretazione e di classificazione dei giudizi per gli operatori giuridici, con conseguente rischio di duplicazione dei medesimi e relativo allungamento dei tempi di definizione, finendo così per alimentare proprio quel fenomeno che la stessa era preordinata a ridurre e risolvere. Il proposito del legislatore, come emerge dal nome attribuito al decreto «di semplificazione dei riti», mira ad attuare un’inversione di tendenza rispetto al passato, attraverso un’opera di razionalizzazione e semplificazione della legislazione speciale, sostituita da un unico testo normativo che – come è stato rilevato – si porrebbe in rapporto di continuità e complementarità̀ rispetto al codice di procedura civile e, in particolare, al libro IV, di cui dovrebbe rappresentare la sostanziale prosecuzione.

contrario, laddove si ritenga di dover assegnare priorità alla sostanza di ordinanza, rispetto alla veste formale di sentenza, l’unico rimedio esperibile avverso il provvedimento a sé sfavorevole sarà il ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 della nostra Costituzione, con conseguente inammissibilità dell’appello eventualmente proposto56.

Ora, è evidente che la soluzione della questione prospettata è conseguenza diretta della posizione che si scelga di assumere rispetto alla questione, ben più ampia e generale, dei rapporti e della relativa priorità tra «forma» e «sostanza», o, potremmo dire, tra «apparenza» e «realtà». Infatti, se si scelga di dare prevalenza alla prima, è chiaro che dovrà aversi riguardo esclusivamente al nomen iuris del provvedimento, dal quale discende inevitabilmente e senza margini di ampliamento, la relativa disciplina. Al contrario, laddove si opti per una tesi sostanzialistica, che avvalori la reale natura del provvedimento in luogo della sua «etichetta», la soluzione sarà evidentemente di tenore opposto.

Sul punto, pur nell’impossibilità in questa sede di approfondire debitamente i termini del problema, tutt’altro che di facile soluzione, ci limitiamo a rilevare che la tendenza della giurisprudenza pare collocarsi in quest’ultima prospettiva, focalizzando sull’effettivo contenuto e sulla reale essenza dei provvedimenti, a scapito della loro formalizzazione in termini di sentenza piuttosto che di ordinanza. Tuttavia, ciò non toglie che in talune

56 Come, infatti, rileva la giurisprudenza (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., sent. 11.01.2011 n. 390),

l’eventuale errore del giudice che chiami «sentenza» un provvedimento che in verità era un’ordinanza, determinerà di fatto un «allargamento dell’esercizio dei diritti di azione e difesa» a favore della parte soccombente, in quanto tale, interessata all’impugnazione. Ciò naturalmente a scapito della controparte che, essendo esposta ad un’impugnazione che, in relazione alla natura reale del provvedimento, avrebbe dovuto essere preclusa, vedrà allungarsi i tempi di definizione della vicenda che la coinvolge. Tuttavia, secondo la Cassazione, il bilanciamento di interessi fra questi due valori in gioco, da un lato, la celere e rapida definizione del giudizio e, dall’altro, il principio «affidabilità e di certezza dei rimedi impugnatori», deve risolversi a favore di questi ultimi, la cui lesione darebbe luogo ad un pregiudizio inaccettabile. Pregiudizio che, sempre secondo i giudici, non si correrebbe nel caso opposto, in cui il giudice chiami per errore «ordinanza» un provvedimento che avrebbe in verità dovuto qualificare come «sentenza», dal momento che in questo caso la facoltà di appello, erroneamente ed ingiustamente preclusa dalla veste di ordinanza, può essere recuperata attraverso l’esperimento del mezzo di impugnazione straordinario concesso dal comma 7 dell’art. 111 Cost. avverso tutti i provvedimenti aventi contenuto decisorio («Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.»).

ipotesi la giurisprudenza ha ritenuto opportuno seguire il principio opposto, scegliendo di far prevalere l’apparenza rispetto alla reale essenza dell’atto57. Alla base di tali decisioni vi è la volontà di non sanzionare attraverso una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione il soggetto che abbia incolpevolmente proposto la medesima, ritenendosi a ciò ragionevolmente legittimato sulla base del tipo di provvedimento emesso dal giudice. Si presuppone, infatti, che il destinatario della sentenza, quisque de populo, debba poter fare affidamento sulla corretta qualificazione della stessa da parte del suo autore, magister iuris. Non sarebbe giusto, infatti, addossare al ricorrente l’onere di controverifica circa la reale natura del provvedimento emanato, essendo ciò, oltre che impensabile, inesigibile da parte di un soggetto privo delle dovute competenze giuridiche. Per queste ragioni, questa giurisprudenza reputa che il legittimo affidamento risposto nella correttezza della soluzione giuridica emanata debba essere tutelato: tale tutela, in particolare, viene rinvenuta nel mantenimento della veste formale ed esteriorizzata del provvedimento e nella sua prevalenza rispetto all’essenza effettiva ma nascosta dell’atto. Ciò significa, dunque, che se i giudici hanno qualificato come sentenza un atto, avente reale natura di ordinanza, tale errore non potrà andare a scapito di colui che avverso quel provvedimento abbia proposto appello, proprio confidando nella natura di sentenza, dai giudici dichiarata, dell’atto

57 Questa risulta essere la soluzione con cui si è, infine, conclusa la vicenda che ha originato la

pronuncia della Cassazione nella sentenza supra citata. In quello specifico caso, infatti, la decisione della Corte di Cassazione è andata in direzione diametralmente opposta rispetto a quella della Corte di Appello, la quale – peraltro concordemente al giudice di primo grado – aveva ritenuto che, nonostante il nomen di sentenza il provvedimento emanato era in realtà «una ordinanza sostanziale», conseguentemente non appellabile, ma esclusivamente ricorribile in Cassazione. Disattendendo tale ricostruzione, la Suprema Corte avvalora e avvalla, invece, la tesi prospettata dal ricorrente, soccombente nei due gradi precedenti di giudizio, il quale sosteneva che ad essere determinante fosse la veste e dunque la rappresentazione data dai giudici del provvedimento in termini di sentenza, in quanto proprio tale rappresentazione aveva indotto il destinatario della stessa ad agire in una determinata maniera. In altre parole, l’erronea rappresentazione del provvedimento in termini di sentenza, anziché di ordinanza, aveva ingenerato nelle parti, e soprattutto in quella soccombente, il ragionevole ed incolpevole convincimento di trovarsi di fronte ad una sentenza, inducendo così la stessa a proporre il mezzo di impugnazione a ciò preordinato, e cioè appello. Chiara risulta dunque l’assimilazione rispetto al meccanismo proprio dell’apparenza giuridica e, infatti, analoga è la soluzione accolta dai giudici di legittimità: non può essere sanzionato colui che abbia incolpevolmente fatto affidamento su una certa situazione di diritto, pur non sussistente, ma apparente in base a circostanze oggettive e univoche. Nel caso di specie dunque il provvedimento manterrà la veste di sentenza, pur in un certo senso usurpata, e l’appello avverso la medesima dovrà reputarsi ammissibile, in quanto in tal caso dovrà essere la forma – e dunque l’apparenza – a prevalere sulla sostanza.

impugnato. Il principio che qui opera, dunque, è ancora una volta, pur nel diverso ambito processuale, quello dell’apparentia iuris: una situazione in verità non sussistente, ma apparente tale in base a circostanze univoche, potrà produrre gli stessi effetti della situazione di diritto di cui porta la veste, laddove ciò sia necessario a tutelare la posizione dei terzi che in base a tale situazione di apparenza abbiano orientato il proprio comportamento. L’errore in cui sono incorsi, purché incolpevole, sarà dunque scusato e, proprio in virtù di tale scusabilità, analogamente a quanto avviene per le fattispecie di diritto sostanziale, si potrà assumere di accordare prevalenza alla «apparenza/forma» rispetto alla «realtà/sostanza».

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