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L’estensione della petitio hereditatis nelle ipotesi di trasferimento dal possessor pro herede e dal possessor pro

herede nel contesto del diritto romano.

4. L’estensione della petitio hereditatis nelle ipotesi di trasferimento dal possessor pro herede e dal possessor pro

possessore.

Il successivo brano del Digesto prende ancora in considerazione le figure del possessor pro herede e del possessor pro possessore, ma questa volta non direttamente, bensì come danti causa nell’eventualità di un fenomeno di successione mortis causa. L’ipotesi considerata da Ulpiano è, infatti, quella in cui un soggetto che abbia il possesso dei beni ereditari muoia e il suo patrimonio passi a titolo ereditario al successore a titolo universale. In questo caso, quindi, il vero erede, laddove intenda esercitare l’azione di petizione dell’eredità, essendo venuto meno il soggetto che aveva il possesso dei beni oggetto di contesa, dovrebbe esercitarla nei confronti dell’avente causa. Il quesito che Ulpiano implicitamente pone è quello relativo alla sussistenza di un diverso regime, in tale ipotesi, a seconda che il de cuius possedesse quei beni in qualità di possessor pro herede o di possessor pro possessore.

D. 5.3.13.3 (Ulp. 15 ad ed.)

Neratius libro sexto membranarum scribit ab herede peti hereditatem posse, etiam si ignoret pro herede vel pro possessore defunctum possedisse. Idem esse libro septimo ait etiam si putavit heres eas res ex hac hereditate esse quae sibi delata est.

La risposta a tale interrogativo – come spesso accade nelle fonti romane30 viene rinvenuta nel pensiero di un precedente giurista, Nerazio, il quale ritiene

30 Nel passo citato assistiamo ad un tipico esempio di dialogo tra giuristi, che sovente si

rinviene nei brani del Digesto. Il diritto romano è diritto casistico, giurisprudenziale, rimediale, è frutto della stratificazione dei responsa che nei secoli i giuristi sono stati chiamati a rendere in ordine a casi specifici. Pertanto, è del tutto normale che i giuristi delle epoche successive si trovino a dover fare i conti con le opinioni dei prudentes che li hanno preceduti, talvolta, come nel caso che qui si commenta, allineandosi con quanto sostenuto in precedenza, altre volta distaccandosene e addivenendo ad una diversa soluzione del problema. Ciò dà vita al cosiddetto diritto controversiale, lo ius controversum, espressione che meglio di ogni altra tratteggia ed esprime l’anima del diritto romano: un diritto casistico, dalla vocazione indubbiamente pragmatica, ma allo stesso tempo analitica, con una irrinunciabile attenzione alle specificità del singolo caso concreto che invoca iustitia.

che la diversa qualifica del possessore in questo caso non comporti alcuna differenza rispetto all’esercizio dell’azione di petizione. Perciò, anche laddove l’erede-attore ignori a quale titolo il defunto possedesse i beni («ignoret pro

herede vel pro possessore defunctum possedisse»), potrà comunque convenire

in giudizio l’erede di questo, esercitando nei suoi confronti l’azione di petizione dell’eredità. Peraltro, la seconda parte del brano aggiunge che la medesima facoltà spetta pure nell’ipotesi in cui l’erede convenuto ritenga che il proprio dante causa sia proprietario e, dunque, legittimo titolare – e non mero possessore – dei beni ereditati: anche in tale ipotesi potrà essere destinatario della petizione di eredità.

Nei successivi brani del frammento 13 Ulpiano continua a passare in rassegna le diverse ipotesi di esercizio dell’azione di petizione dell’eredità, prendendo in considerazione una serie di casi in cui, pur dovendosi teoricamente escludere l’esperibilità della petitio hereditatis in senso proprio, viene avvalorata la possibilità che la stessa sia concessa in via di actio utilis. Ciò, in particolare, si verifica nell’ipotesi in cui il possessore dell’eredità trasferisca la medesima a titolo di compravendita31, anche allorquando tale vendita sia avvenuta in ottemperanza di un obbligo contenuto in un fedecommesso32.

Di nuovo la locuzione pro herede compare nel sesto frammento, ma questa volta per escludere che tale qualifica possa essere accordata all’erede del possessore dei beni ereditari.

D. 5.3.13.6 (Ulp. 15 ad ed.)

Sed et si retenta certa quantitate restituere rogatus sit, idem erit dicendum. Plane si accepta certa quantitate restituere rogatus est, non putat Papinianus ab herede petendam hereditatem, quoniam pro herede, quod condicionis implendae gratia accepit, non possidetur. Sed Sabinus in

31 D. 5.3.13.4: «Quid si quis hereditatem emerit, an utilis in eum petitio hereditatis deberet

dari, ne singulis iudiciis vexaretur? Venditorem enim teneri certum est: sed finge non extare venditorem vel modico vendidisse et bonae fidei possessorem fuisse: an porrigi manus ad emptorem debeant? Et putat Gaius Cassius dandam utilem actionem.»

32 D. 5.3.13.5 (Ulp. 15 ad ed.): «Idem erit dicendum et si parvo pretio iussus vendere heres

Titio hereditatem vendidit: nam putat dicendum Papinianus adversus fideicommissarium dari actionem: ab herede enim peti non expedit perexiguum pretium habente.»

statulibero contra: et id verius est, quia pecunia hereditaria est.

La situazione presa in considerazione è il caso in cui l’erede del possessore dei beni ereditari sia onerato da un fedecommesso universale, ossia un fedecommesso che gli impone di trasferire l’intera eredità ad un terzo soggetto, onorato. Nell’ambito di tale ipotesi, il giurista contempla poi due diversi casi, il primo (frammento 6) in cui l’erede-fedecommissario viene compensato per tale trasferimento mediante l’attribuzione di una somma di denaro, il secondo (frammento 7) in cui, invece, allo stesso, pur privandosi della massa patrimoniale, è concesso di trattenere i frutti dell’eredità.

D. 5.3.13.7 (Ulp. 15 ad ed.)

Idem et in eo qui solus fructus ex hereditate retinet, dicendum erit: tenetur enim et is hereditatis petitione.

In entrambi i casi, Ulpiano si interroga se (nel primo caso) il denaro ricevuto o (nel secondo caso) i frutti percepiti possano considerarsi posseduti come

possessor pro herede. La questione pare discussa fra gli stessi giuristi romani,

fra i quali, stando al resoconto ulpianeo, non sussiste sul punto unanimità di vedute. Infatti, a fronte dell’orientamento negativo sostenuto da Papiniano, che esclude che il denaro ricevuto per l’adempimento dell’obbligazione fedecommissaria possa ritenersi posseduto a titolo di erede, Sabino risponde in maniera inversa, argomentando che il denaro oggetto di dazione sarebbe comunque denaro afferente al patrimonio ereditario. Alla stessa soluzione dovrebbe pervenirsi nella seconda ipotesi, essendo comunque i frutti percepititi dal fedecommissario provenienti da una res contenuta nella massa dei beni ereditari. In entrambi i casi dunque il soggetto non solo trattiene il denaro o i frutti che, in quanto tali, farebbero parte dell’eredità, ma lo fa per volontà del testatore e, dunque, rispetto ad essi egli si pone pro herede, cioè in una posizione del tutto analoga, anche agli occhi dei terzi, a quella di un erede a ciò legittimato dal de cuius. Potremmo dire, volendo forzare il paragone con l’istituito moderno, che egli rispetto a tali beni ‘appare erede’.

Il titolo di possessor pro herede non dovrebbe, invece, considerarsi spendibile nei confronti di abbia coscientemente acquistato un’eredità spettante

ad un altro soggetto. In questo caso, avendo egli agito nella piena consapevolezza che il patrimonio ereditario era destinato ad altri ed avendo, pertanto, scientemente violato l’altrui diritto successorio, sarà in mala fede: ha, infatti, agito nella piena consapevolezza di non avere alcuna legittimazione ad effettuate tale acquisto. Per questo motivo, viene qualificato come ‘mero possessore’.

La nostra fonte, in questo caso, sembra smentire la conclusione precedentemente esposta, in quanto pare derivare la qualifica di possessor pro

possessore come diretta conseguenza della mala fede del soggetto. Al

contrario, prima avevamo affermato come la mala fede non fosse elemento connotante in via esclusiva il possessor pro possessore, essendo parimenti rinvenibile anche nel possessor pro herede. La distinzione fra i due

possessores, infatti, deriva – come già rilevato – non dalla buona o mala fede,

ma dalla spendita o meno del titolo di erede per giustificare il possesso. E, in effetti, lo stesso Ulpiano, subito dopo aver esposto la ricostruzione anzidetta, la smentisce, distaccandosene. Tuttavia, il motivo di tale rifiuto è legato ad un diverso profilo, ossia il pagamento del prezzo. Infatti, Ulpiano sostiene che il fatto che l’acquisto sia avvenuto a titolo oneroso, mediante un esborso economico da parte del soggetto acquirente, sia tale da escludere la mala fede e, dunque, impedisca di qualificare il soggetto acquirente come praedo, ossia come possessor pro possessore. Di conseguenza, Ulpiano non disconosce affatto il collegamento (o meglio la diretta derivazione) della qualifica di

praedo dalla mala fede, ma anzi indirettamente la conferma.

A ben vedere, la conclusione di Ulpiano è logica e conforme anche alla nostra precedente ricostruzione, in base alla quale, se è vero che la mala fede non è requisito esclusivo del possessor pro possessore, potendo essere propria anche del possessor pro herede, è altrettanto vero però che il possessor pro

possessore, avendo un bene senza alcuna legittima giustificazione, è

sicuramente un soggetto in mala fede. Ma allora, se il possessor pro possessore è necessariamente un soggetto in mala fede, escludere la mala fede implica necessariamente escludere la qualifica di possessor pro possessore, esattamente come sostenuto dal nostro giurista. Da ciò conseguirebbe, dunque, secondo Ulpiano, l’assenza di legittimazione passiva all’azione di petizione dell’eredità, la quale potrebbe semmai essere concessa in via pretoria, come

actio utilis: tale soluzione sarebbe possibile poiché il soggetto agirebbe come

acquirente dell’universitas, ossia come successore a titolo universale – per quanto inter vivos, a seguito della compravendita, e non mortis causa – dell’intero patrimonio ereditario.

D. 5.3.13.8 (Ulp. 15 ad ed.)

Si quis sciens alienam emit hereditatem, quasi pro possessore possidet: et sic peti ab eo hereditatem quidam putant. Quam sententiam non puto veram: nemo enim praedo est qui pretium numeravit: sed ut emptor universitatis utili tenetur.

A tale situazione, peraltro, nel passo immediatamente successivo Ulpiano equipara quella del soggetto che abbia acquistato dal fisco l’eredità «come se fosse» (quasi) un’eredità vacante, pagando dunque allo Stato un prezzo come corrispettivo di quei beni che, non ereditati da alcuno per assenza di successibili o mancata accettazione da parte dei medesimi, erano stati devoluti alle casse pubbliche. Anche qui, in effetti, è assente un trasferimento successorio mortis causa in senso proprio, in quanto l’acquisto intercorre tra il soggetto acquirente e il fiscus. Rispetto a tale trasferimento, infatti, l’evento morte rappresenta soltanto un antecedente, ossia il motivo che ha a sua volta determinato l’acquisto da parte del fisco. E anche in questo caso, pur in assenza della mala fede del soggetto e, dunque, stante l’impossibilità di definirlo alla stregua di un praedo (ossia di un possessor pro possessore), l’autore ritiene che sia possibile (anzi, ancor più, ritiene che sia addirittura «aequissimum») estendere in via utile l’azione di petizione dell’eredità («utilem actionem [...]

dari»).

D. 5.3.13.9 (Ulp. 15 ad ed.)

Item si quis a fisco hereditatem quasi vacantem emerit, aequissimum erit utilem actionem adversus eum dari.

La medesima possibilità di concedere in via utile la petitio hereditatis è, poi, prevista nell’ipotesi in cui il soggetto sia possessore dei beni ereditari in virtù di un trasferimento dotis causa. In questo caso – che Ulpiano a sua volta riprende dai Digesta di Marcello – il marito, in favore del quale la moglie abbia costituito in dote la propria eredità, non potrà dirsi possessor pro herede, in

quanto il titolo giustificativo a fondamento della propria signoria sui beni non può rinvenirsi nella sua qualità di heres, dal momento che la legittima erede è la moglie costituente la dote. Ma egli non potrà dirsi neppure possessor pro

possessore, in quanto in effetti un titolo giustificativo del possesso esiste ed è

rappresentato dalla dote stessa (potremmo parlare di una «possessio dotis

causa»): il marito sarà, pertanto, qualificato come possessor pro dote.

Dal punto di vista processuale e, in particolare, della legitimatio ad

causam33, in tale ipotesi dunque entrambi i coniugi, sia il maritus che la mulier, saranno legittimati passivi rispetto ad un’eventuale petizione dell’eredità: la moglie sarà legittimata in via primaria («mulierem directa teneri»), tanto più («maxime») se al matrimonio sia seguito un divorzio, che, oltre a determinare lo scioglimento del vincolo coniugale, abbia attivato il meccanismo di restituzione dotale; il marito, invece, potrà essere legittimato passivo rispetto all’actio utilis che, secondo Ulpiano, potrebbe essere concessa in via pretoria («maritum [...] petitione hereditatis utili teneri»).

D. 5.3.13.10 (Ulp. 15 ad ed.)

Apud Marcellum libro quarto digestorum relatum est, si mulier hereditatem in dotem dedit, maritum pro dote quidem possidere hereditatem, sed petitione hereditatis utili teneri: sed et ipsam mulierem directa teneri Marcellus scribit, maxime si iam factum divortium est.

Di nuovo, la qualifica di possessor pro possessore e pro herede torna nel brano 11, ma relativamente ad un’ipotesi diametralmente opposta rispetto a quella appena analizzata. Questa volta, infatti, non sono riferite agli aventi causa, bensì al dante causa, al de cuius, ossia al soggetto della cui eredità si discute. In tale ipotesi, sia esso un possessore mero o un possessore qualificato come erede, nulla cambia a livello di conseguenze processuali. In entrambi i casi, infatti, il suo erede potrà essere chiamato in giudizio mediante petitio

33 L’espressione «legittimatio ad causam» indica generalmente la legittimazione ad agire, cioè

la titolarità dell’azione civile sia dal punto di vista attivo (ossia in qualità attore) sia dal lato passivo (come convenuto). Nel brano analizzato viene in rilievo, nello specifico, l’accezione passiva, in quanto si discute circa la possibilità per il maritus e per la mulier di essere destinatari di un’azione di petizione dell’eredità (petitio hereditatis), ossia di essere convenuti in giudizio in quanto possessori dei beni ereditari da parte di colui che invochi tutela della propria posizione di legittimo erede.

hereditatis. Ugualmente, tale possibilità si avrà nel caso in cui il possesso da

parte del defunto sia giustificato sulla base di una precedente compravendita, ossia nell’ipotesi in cui il de cuius fosse un possessor pro emptore.

Questi ultimi due passi avvalorano, insomma, l’equiparazione asserita da Ulpiano tra erede e possessore e gli altri titoli. La locuzione «pro», infatti, viene utilizzata affiancata ad altre cause, analogamente a come viene accompagnata ai sostantivi «herede» e «possessore». Ciò conferma, dunque, che quella di possessor pro herede è qualifica costruita attorno alla nozione di possesso, più che a quella di erede. Tale espressione serve, infatti, per i giuristi romani a qualificare una tipologia peculiare di possessore, ossia quel possessore che esercita la propria signoria di fatto come se fosse erede, adducendo la qualifica di heres, cioè simulando, in buona o in mala fede, tale posizione. Ma quella stessa particella «pro» potrebbe essere utilizzata per definire altre tipologie di possessori, che tale potere esercitino in virtù di titoli diversi, come la costituzione di dote (possessor pro dotis), o la compravendita (possessor pro emptore), o ancora senza alcun titolo (possessor pro

possessore), configurando così quello che può tradursi come un mero possesso

o, detto altrimenti, un «possesso non titolato». D. 5.3.13.11 (Ulp. 15 ad ed.)

Heredem autem etiam earum rerum nomine, quas defunctus pro emptore possedit, hereditatis petitione teneri constat, quasi pro herede possideat: quamvis etiam earum rerum nomine, quas pro herede vel pro possessore defunctus possedit, utique teneatur.

Sempre secondo Ulpiano, la qualifica di possessor pro herede o di

possessor pro possessore deve escludersi, invece, nei confronti di colui che

possieda i beni ereditari in nome del legittimo titolare che sia assente («absentis nomine possideat hereditatem»). Ulpiano afferma ciò senza esitazione: «non videtur pro herede vel pro possessore possidere, qui

contemplatione alterius possidet».

In tale ipotesi, infatti, il soggetto possiede in nome e per conto di altri, perciò agisce nell’interesse e spendendo il nome di chi sarebbe titolato a farlo: agisce quindi come longa manus dell’erede, nella piena consapevolezza di ciò.

Pertanto, non vanterà certo il titolo di erede rispetto a tali beni e, dunque, non sarà possessor pro herede. Ma neppure potrà dirsi che egli non abbia alcun titolo e che sia un mero possessore (possessor pro possessore), poiché la sua signoria è giustificata dall’incarico attribuitogli dall’assente in via preventiva o dalla sua successiva ratifica. Ecco perché Ulpiano conclude che, dal punto di vista processuale, l’eventuale azione di petizione deve essere esercitata nei confronti del procuratore in nome dell’assente («absentis nomine petendam

hereditatem») e non certo in nome proprio. L’unico caso in cui potrebbe agirsi

nei confronti del procuratore «proprio nomine» è l’ipotesi in cui la ratifica dell’assente non sia intervenuta. In tal caso, infatti, saremmo di fronte ad un comportamento del procuratore che esorbita dai poteri conferitigli e, pertanto, posto in essere in mala fede, nella consapevolezza dell’assenza di un valido potere di rappresentanza. In questo caso, allora, il procurator avrebbe agito come un praedo e, pertanto, venendo meno il titolo a fondamento del proprio possesso, degraderebbe a mero possessore (possessor pro possessore).

D. 5.3.13.12 (Ulp. 15 ad ed.)

Si quis absentis nomine possideat hereditatem, cum sit incertum an ille ratum habeat, puto absentis nomine petendam hereditatem, ipsius vero nequaquam, quia non videtur pro herede vel pro possessore possidere, qui contemplatione alterius possidet: nisi forte quis dixerit, cum ratum non habet, iam procuratorem quasi praedonem esse: tunc enim suo nomine teneri potest.

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