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L’apparenza nel processo attraverso la fictio iuris.

IL PRINCIPIO DELL’APPARENTIA IURIS: APPARENZA DEL DIRITTO E FIGURE AFFIN

3. Il principio di apparenza nel diritto processuale.

3.2. L’apparenza nel processo attraverso la fictio iuris.

Il ricorso all’apparenza nell’ambito processuale e l’attribuzione ad essa, in tale contesto, di una qualche rilevanza giuridica, emerge poi anche in ulteriori ipotesi, attraverso un istituto – proprio del diritto, sostanziale e processuale, moderno e antico – al quale si è da sempre fatto ricorso per estendere la tutela a situazioni non strettamente ricadenti nella fattispecie come normativamente concepita: l’istituito in questione è quello della fictio iuris58.

Con il termine «finzione giuridica»59 il diritto individua quel peculiare «espediente tecnologico»60 attraverso il quale è possibile consentire

58 Sulla fictio iuris si vedano i seguenti riferimenti: V.COLACINO, s.v. Fictio iuris, in Noviss.

Dig. It., 7, Torino: UTET, 1968, pp. 269-271; G.ACCARDI-PASQUALINO, s.v. Fictio iuris, in N.

Dig. It., 16, Torino: UTET, 1938, pp. 1104-1105; S.PUGLIATTI, s.v. Finzione, in Enc. dir., 17,

Milano: Giuffrè, 1968, pp. 658-673; G.MACCHIARELLI, s.v. Fictio iuris (concetto razionale e positivo della), in Enc. giur. it., 6/2, Milano: Società editrice libraria, 1903, pp. 538-573,

soprattutto cap. 2, par. 2-3, pp. 541-545 (relative alla fictio iuris nel diritto romano, rispettivamente nelle legis actiones e nel diritto pretorio), cap. 3, par. 7, pp. 548-549 (finzione ed atto apparente), cap. 5 par. 1, pp. 559-561 (presunzione e finzione). Per un approfondimento sul tema della fictio iuris, inoltre, merita segnalare il volume curato da Francesca Brunetta d’Usseaux, contenente una serie di saggi dedicati alla finzione giuridica e alle relative implicazioni nei diversi ambiti del diritto: F.BRUNETTA D’USSEAUX (a cura di), Le finzioni del diritto, Milano: Giuffrè, 2002. Per quanto concerne nello specifico il significato

dell’espressione fictio iuris, occorre fare riferimento al contributo di A.D’ANGELO, Note sulla voce “fictio iuris” negli antichi dizionari giuridici, ivi contenuto (pp. 107-116).

59 A.GAMBARO, Finzione giuridica nel diritto positivo, in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., 8, Torino:

UTET, 1992, pp. 342-353; G.TUZET, Finzioni giuridiche e letterarie: è possibile una teoria unificata?, in Dossier diritto e letteratura. Prospettive di ricerca, in M.P.MITTICA (a cura di), Atti del Primo Convegno Nazionale, Bologna, 27-28 maggio 2009, pp. 50-75, pubblicato on

line negli ISLL-Papers: ISLL – Italian Society for Law and Literature, 2010; e, inoltre, le belle pagine di H.KELSEN, Zur Theorie der juristischen Fiktionen. Mit besonderer Berücksichtigung

l’applicazione di una determinata fattispecie giuridica in ipotesi che astrattamente non ricadrebbero in tale ambito operativo, sia per la mancanza di requisiti, giuridici o fattuali, legislativamente richiesti, sia per la presenza di ulteriori elementi che rendono quella fattispecie concreta incompatibile con quella astratta sotto la quale si intenderebbe sussumerla. Può tuttavia accadere che, pur in presenza di tali difformità rispetto al modello legale, possa risultare opportuno sul piano pratico operare un’estensione della tutela e dunque un ampliamento della disciplina astrattamente non applicabile anche a quella specifica ipotesi. Proprio per venire incontro a tali esigenze di tipo pratico l’ordinamento – fin dalle sue origini – ha escogitato un peculiare meccanismo, attraverso il quale si opera una sorta di alterazione della realtà, fingendo che la stessa sia diversa da come in verità è. Ciò può avvenire, peraltro, in una duplice direzione: o fingendo che sia vero o avvenuto un fatto che in verità non si è mai verificato o è avvenuto diversamente da quanto si assume; o, nell’ipotesi diametralmente opposta, facendo finta che non sia mai avvenuta una circostanza la cui esistenza è nota e provata. Nel primo caso si parlerà, dunque, di finzione «positiva», in quanto avente ad oggetto l’affermazione di un fatto, che viene positivizzato e introdotto nella realtà giuridica, nonostante la sua assenza dalla realtà fattuale; nel secondo caso, invece, si porrà in essere una finzione «negativa», che – con meccanismo speculare rispetto a quello appena descritto come proprio della finzione positiva – si traduce nella negazione dei fatti come realmente verificatisi, attraverso l’elisione dalla realtà giuridica di un dato esistente nella realtà fattuale.

von Vaihingers Philosophie des Als-Ob, 1919, tr. it. Sulla teoria delle finzioni giuridiche, in

ID., Dio e stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, traduzione e introduzione a cura

di A.CARRINO, Napoli: ESI, 1988, pp. 235-265.Sul tema della fictio iuris, inoltre, meritano

specifica menzione gli scritti di:C.A.CANNATA, Finzioni; A.FALZEA, Riflessioni sulla fictio iuris; L.LOMBARDI VALLAURI, Il fictum nel diritto; tutti contenuti nel volume di F.BRUNETTA

D’USSEAUX (a cura di), Le finzioni del diritto, cit., rispettivamente a pp. 43-48; pp. 117-134;

pp. 149-157.

60 La qualificazione della finzione come «espediente tecnologico» è di Carlo Augusto Cannata,

il quale la utilizza in apertura del suo saggio per mettere in luce la natura dell’istituto, che non riveste alcuna funzione gnoseologica, ma si caratterizza come strumento meramente tecnico. Più precisamente, l’autore così si esprime: «La finzione non è uno strumento dommatico: essa non reca in sé alcun apporto conoscitivo; suppone la padronanza tecnica della realtà giuridica, ma non contribuisce alla sua conoscenza. Si tratta di un puro espediente tecnologico.»(C.A. CANNATA, Finzioni, cit., p. 43).

Attraverso questa cosciente alterazione della realtà si opera un riallineamento tra fattispecie concreta e fattispecie astratta, che tuttavia è possibile soltanto grazie ad un disconoscimento della difformità tra realtà giuridica e realtà storica, ossia – per riprendere la dialettica a noi cara – tra ius e factum. Attraverso la finzione, infatti, si viene a creare una nuova realtà giuridica, nella quale può realizzarsi ciò che non potrebbe verificarsi in base alla realtà naturale: così il fatto non conforme a ius produrrà le stesse conseguenze giuridiche di quello che perfettamente si attaglia alla fattispecie, che dunque proprio attraverso la fictio vedrà ampliato il suo ambito applicativo61.

Verità e finzione in questo modo avranno la medesima efficacia e, anzi, la seconda troverà espressione proprio fintantoché la prima non risulta perfettamente integrata62.

61 Talvolta la finzione viene configurata alla stregua di un procedimento analogico. Tuttavia,

tra finzione ed analogia non sussiste una perfetta sovrapponibilità, stante la diversa natura e finalità che separa i due istituti. Il meccanismo proprio dell’analogia, infatti, in quanto procedimento logico interpretativo con cui è possibile colmare una lacuna dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione della disciplina prevista per un caso simile, non prevede alcuna finzione, ma semplicemente la presa di coscienza della mancanza di un’espressa disciplina e la sua integrazione attraverso l’estensione di quella dettata per materie analoghe. Il presupposto della analogia dunque è la similitudine tra due situazioni, che giustifica l’applicazione all’una della disciplina prevista per l’altra. Diverso, invece, è il fondamento della finzione, che opera estendendo il regime giuridico ad una fattispecie che è carente sotto un qualche profilo, di cui si finge l’esistenza, pur nella consapevolezza della sua carenza. Per lo stesso motivo l’analogia deve essere tenuta distinta anche dall’interpretazione estensiva: mentre, infatti, la finzione prende le mosse da una circostanza che si sa essere falsa, l’interpretazione estensiva invece parte da un fatto reale e ne estende l’ambito applicativo ad una situazione ulteriore che presenta la medesima ratio. È chiaro, dunque, che i rimedi consistenti nell’analogia e nell’interpretazione estensiva impattano in modo meno aggressivo sulle regole dell’ordinamento, semplicemente allargandone le maglie, in modo più o meno ampio, mentre la finzione fa saltare del tutto la gabbia della fattispecie. Per questo motivo fra i diversi rimedi dovrà accordarsi preferenza ai primi due e, soltanto laddove questi non siano in grado di venire in soccorso rispetto al vuoto di disciplina creatosi, potrà farsi ricorso allo strumento maggiormente «eversivo» rappresentato dalla fictio. Sui rapporti fra analogia ed apparenza si veda R. GAMBINO, Il principio dell’apparenza: analogia iuris o creazione giurisprudenziale?, in Foro pad., 49/1 (1994), pp. 329-333. Per quanto concerne, poi,

l’analogia intesa come strumento retorico, a sua volta compreso nella figura della similitudo, merita citare il recente studio di A.ARNESE, La similitudo nelle Institutiones di Gaio, Bari:

Cacucci, 2017.

62 Questo è quanto intendono significare i noti brocardi «fictio [iuris] idem operatur, quod

veritas» («la finzione del diritto opera ugualmente che a verità») «fictio [iuris] cessat, ubi veritas locum habere potest» («la finzione del diritto finisce quando la verità può avere

luogo»), non a caso citati da L.DE MAURI, Regulae juris: raccolta di 2000 regole del diritto eseguita sui migliori testi, con l’indicazione delle fonti, schiarimenti, capitoli riassuntivi e la versione italiana riprodotta dai più celebri commentatori testo adottato nelle università,

Milano: Hoepli, 1928 (ristampa 2004), pp. 92 ss., a cui appartengono le traduzioni tra parentesi.

Tale difformità, è evidente, viene falsamente ma coscientemente baypassata e accettata in forza di un fine pratico, che l’ordinamento riconosce meritevole di tutela al pari di quello proprio della situazione conforme alla fattispecie legale.

Ora, questo peculiare meccanismo giuridico viene utilizzato sia nell’ambito del diritto sostanziale che nell’ambito, ad esso parallelo e strumentale, del diritto processuale63. Ciò comporta che, dal punto di vista soggettivo, autori della finzione potranno essere sia l’organo legislativo che quello giudiziario.

Numerose sono infatti le situazioni in cui, già al momento della redazione della legge, è verosimile ipotizzare una difficoltà di accertamento del reale svolgersi dei fatti: cosicché a tale criticità potrà decidere di rispondere, ab

origine, il legislatore, attraverso l’introduzione, già nella legge che disciplina

l’istituto, di una finzione – che non di rado poi si traduce a sua volta in una presunzione64 – che legittima in via legislativa l’estensione del regime

63 Sull’utilizzo della finzione nell’ambito del processo si vedano in particolare: F.CIPRIANI, Le

finzioni nel processo civile e M. TARUFFO, Osservazioni su finzioni giuridiche e processo civile, entrambi contenuti in BRUNETTA D’USSEAUX F. (a cura di), Le finzioni del diritto, Milano: Giuffrè, 2002, rispettivamente pp. 89-106 e pp. 221-233. Nel contesto del medesimo volume, inoltre, merita menzionare il contributo, sempre attinente all’utilizzo giudiziale della

fictio, di: P.CHIASSONI, Finzioni giudiziali. Progetto di voce per un vademecum giuridico, pp.

59-87.

64 L’intima connessione tra finzione, da un lato, e presunzione, dall’altro, è attestata anche da

L.DE MAURI, Regulae juris cit., pp. 92 ss., che alla voce «finzione» (fictio) opera un rinvio

interno alla voce «presunzione» (vide et praesumptio). L’autore, peraltro, si premura di delineare la differenza tra i due istituti, la quale viene individuata nel fatto che «mentre per la prima si ammette il contrario di ciò che è reamente successo o non successo», la seconda suppone ciò che ordinariamente suole avvenire». Con l’ulteriore conseguenza che, mentre per la presunzione «è ben possibile [...] una riprova», salvo che questa poi sia considerata ammissibile (presunzione relativa) o meno (presunzione assoluta) da parte dell’ordinamento, per la finzione viceversa ciò non risulta praticabile. Diverso è anche il fondamento dei due istituti: infatti, mentre la presunzione trae origine da circostanze reali, le quali vengono plasmate attraverso la tecnica giuridica per rispondere alle esigenze del caso concreto, la finzione non trova invece alcun aggancio nel mondo reale, creandone anzi appositamente uno fittizio. Diverso, dunque, è il livello di deformazione della reale, il quale nella presunzione viene soltanto forzato, in modo più o meno rilevante, trasformando in verità ciò che sarebbe soltanto probabile (ma neppure da escludere in radice); lo scostamento dal vero è invece radicale nella finzione, la quale crea una verità artificiale, dando per buona una realtà che si sa per certo non sussistere. In questo modo, mentre la deduzione opera mediante un procedimento tipicamente logico-deduttivo, che da un fatto noto ne desume uno ignoto, nella finzione invece il meccanismo è creativo-sostitutivo, dal momento che essa crea una nuova realtà (che si sa «falsa»), sostituendola alla realtà «vera». Con l’ulteriore risvolto che, proprio perché la finzione opera dando per buono un dato che si sa essere falso, contro la stessa non è consentito addurre una controprova, differentemente da quanto avviene rispetto alle presunzioni, quantomeno quelle relative (iuris tantum). Volendo riassumere in due formule la distinzione tra i due istituti, possiamo riprendere le parole di Edoardo Dieni, il quale «eleganter definit» la

giuridico proprio di quel peculiare istituto anche ad ipotesi in cui lo stesso non risulterebbe astrattamente applicabile. Ciò è quanto avviene per esempio nell’ipotesi della presunzione di commorienza65, introdotta proprio per sopperire all’impossibilità di stabilire, in maniera certa ed inconfutabile, la priorità cronologica di verificazione tra i diversi eventi cui si ha riguardo.

Altre volte l’ordinamento introduce una finzione al fine sanzionare la mala fede con cui un soggetto abbia agito e, specularmente, di tutelare la buona fede e l’affidamento che la controparte abbia riposto nell’altrui correttezza. Tale ipotesi ricorre, ad esempio, in materia di condizione, la quale viene considerata come avverata laddove il soggetto portatore di un interesse contrario al suo avveramento abbia in mala fede impedito o anche solo ostacolato l’avverarsi del fatto condizionante. In questo caso, infatti, l’ordinamento ha introdotto appositamente, positivizzandola all’art. 1359 c.c.66, fictio come «in re certa, contra veritatem, sine intentione celandi adversionem veritati, exclusa probatione contrarii, assumptio» e, dall’altro, la praesumptio come «in re non certa, sine intentione, si casus ferat, celandi adversionem veritati, exclusa probatione contrarii, assumptio» (cfr. E. DIENI, Finzioni canoniche: dinamiche del “come se” tra diritto sacro e diritto profano, Milano: Giuffrè, 2004, p. 146). Anche se il discrimen tra le due diviene

evanescente nel caso in cui la presunzione sia riguardata come assoluta (iuris et de iure), dal momento che in questo caso «è noto che il fatto assunto come vero non è vero» (E.DIENI, Finzioni canoniche cit., p. 216) e lo stesso non è confutabile attraverso una prova contraria,

con il risultato che in tali ipotesi è chiaro che – così il commento contenuto in “Et si omnes...”:

scritti in onore di Francesco Mercadante, F.LANCHESTER –T.SERRA (a cura di), Milano:

Giuffrè, 2008, p. 45 – «la presunzione sconfina nella finzione». Per un approfondimento sulla nozione di presunzione, si vedano le seguenti voci enciclopediche: V.ANDRIOLI, Presunzioni (diritto romano), in Noviss. Dig. It., 13, Torino: UTET, 1968, pp. 765-766 e ID., Presunzioni (diritto civile e diritto processuale civile), in Noviss. Dig. It., 13, Torino: UTET, 1968, pp. 766-

772; F.COPPOLA, s.v. Presunzione, in Dig. It., 19/1, Torino: UTET, 1909-1912, pp. 863-893;

M.TARUFFO, s.v. Presunzioni (diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, 27, Roma, 1991.

65 La «commorienza» è disciplinata dal nostro codice civile all’art. 4, che così recita: «Quando

un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona a un’altra e non consta quale di esse sia morta prima, tutte si considerano morte nello stesso momento». Detta presunzione opera, normalmente, quando sussiste incertezza in ordine alla sopravvivenza di un soggetto rispetto all’altro, che può spesso verificarsi allorquando le stesse siano venute a mancare a causa di un unico evento o nell’ambito del medesimo contesto, come non di rado purtroppo accade in occasioni di incidenti stradali. In tali ipotesi, stante l’impossibilità di stabilire con certezza la scansione temporale degli eventi, l’ordinamento sceglie di intervenire attraverso una parziale alterazione del vero, al fine di consentire la produzione degli effetti giuridici a tale situazione connessi. Ci pare opportuno ricordare che all’istituto della commorienza nell’ambito dell’esperienza giuridica del diritto romano ha dedicato uno specifico studio R.LAMBERTINI, La problematica della commorienza nell’elaborazione giuridica romana, Milano: Giuffrè,

1984.

66 La disciplina relativa all’«avveramento della condizione» è prevista dall’art. 1359 c.c.: «La

condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa». È appena il caso di ricordare che, stante il tenore della norma, riferita espressamente al solo caso in cui una delle parti abbia in mala fede

una fictio, la cosiddetta «finzione di avveramento della condizione»67, con la quale il reale andamento dei fatti viene sostituito da una realtà fittizia, che consente la produzione del relativo effetto giuridico e la realizzazione della connessa tutela.

Lo stesso meccanismo può poi verificarsi non ab initio, al momento del confezionamento legislativo della fattispecie astratta, ma successivamente, allorquando sia necessario risolvere una controversia in ambito processuale. In questo caso il fenomeno di cosciente distorsione della realtà attraverso la finzione sarà operato dal giudice, il quale potrà fare ricorso alla finzione, ancora una volta spesso celata all’interno di una presunzione68, con la quale

ostacolato l’avverarsi della condizione, la dottrina si è interrogata se la stessa sia tuttavia estendibile anche all’ipotesi opposta, ossia al caso in cui l’agire scorretto della parte abbia non impedito, ma anzi determinato il prodursi della condizione. Sul punto i più ritengono che, avvalorando la ratio sottesa alla norma, volta a tutelare l’interesse del contraente in buona fede, può ritenersi che il meccanismo previsto dall’art. 1359 c.c. sia in quest’ultima ipotesi parimenti operante. Per completezza occorre, inoltre, rilevare che un’ulteriore estensione dell’ambito applicativo della norma in questione è stata operata dalla giurisprudenza, la quale ha precisato che l’obbligo di comportarsi secondo buona fede deve essere rispettato in ogni caso, compresa l’ipotesi in cui al contratto le parti abbiano apposto una condizione mista (sul punto cfr. Cass. Civ. Sez. Un. 19 settembre 2005, n. 18450), limitatamente alla parte non rimessa alla volontà del contraente. Infatti, la finzione di avveramento non si applica in caso di condizione potestativa, in quanto la libertà di scelta che connota questo tipo di condizione mal si concilierebbe con l’obbligo di comportamento imposto dall’art. 1359 c.c. Non mancano, tuttavia, indirizzi di segno opposto, sostenuti da chi ritiene che neppure quando l’avveramento o il non avveramento della condizione sia rimesso alla volontà della parta questa possa sottrarsi al rispetto del dovere di correttezza di cui all’art. 1358 c.c., da considerarsi alla stregua di un canone generale, universalmente applicabile e, dunque, tale da far scattare, in caso di sua violazione, la sanzione rappresentata dalla finzione di avveramento.

67 Per un’analisi della finzione di avveramento della condizione nell’ambito del diritto romano

si veda lo studio, a ciò specificamente dedicato, di U.ROBBE, La fictio iuris e la finzione di adempimento della condizione nel diritto romano, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, 4,

Milano: Giuffrè, 1978, pp. 631-632.

68 Le presunzioni si inquadrano, come noto, all’interno dei mezzi di prova previsti dal nostro

ordinamento civilistico e la loro disciplina è contenuta nel titolo II (Delle prove) libro sesto del codice civile. In particolare, ad esse è dedicato il capo IV (rubricato appunto «Delle

presunzioni»), il cui primo articolo pone proprio la nozione dell’istituto: art. 2727 c.c.

(Nozione): «Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato». Agli articoli seguenti il codice delinea, poi, l’ulteriore distinzione, all’interno dell’istituto, tra presunzioni legali (art. 2728 c.c.) e presunzioni semplici (art. 2729 c.c.). Come reso evidente dal nome, le presunzioni legali sono così denominate poiché trovano la loro fonte nella legge e, a loro volta, possono essere assolute o relative, a seconda che contro le stesse sia ammessa (presunzioni relative o iuris tantum) o meno (presunzioni assolute o iuris et de iure) prova contraria. Accanto alle presunzioni legali è possibile poi individuare un’ulteriore categoria di presunzioni, cosiddette semplici, le quali non sono contemplate dalla legge, bensì sono rimesse al prudente apprezzamento del giudice; queste ultime, però, assurgono a mezzi di prova, utilizzabili nell’ambito del processo, soltanto – come richiesto dall’art. 2729 c.c. – laddove siano gravi, precise e tra loro concordanti. Ci limitiamo qui a considerare che secondo parte della dottrina l’affiancamento, operato dal codice, dei due diversi istituti sotto l’unitaria categoria della praesumptio non sarebbe del tutto proprio, dato che soltanto le presunzioni semplici rappresentano mezzi di prova in senso

sarà possibile individuare la risposta giuridica rispetto al caso prospettato e garantire così tutela alle esigenze di certezza ed effettività, che potrebbero altrimenti in certi casi risultare compromesse.

Un chiaro esempio di applicazione del meccanismo della finzione a livello processuale è individuabile nella cosiddetta «confessione fittizia» (ficta

confessio)69, che produce un effetto sfavorevole a carico di chi rifiuti di rispondere o abbia omesso, senza addurre un giustificato motivo, di presentarsi a rendere il giuramento decisorio o l’interrogatorio formale.

In particolare, quanto alla prima ipotesi, l’art. 239 c.p.c.70 stabilisce che la mancata comparizione o la mancata risposta della parte cui il giuramento decisorio è deferito – e parimenti di quella avversaria cui sia eventualmente riferito – determina ipso iure la soccombenza in ordine alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è ammesso.

Il secondo caso è, invece, disciplinato dall’art. 232 c.p.c.71, che nell’ambito dell’interrogatorio formale contempla l’ipotesi in cui la parte da interrogare non compaia dinanzi al giudice o, se comparsa, rifiuti di rispondere senza giustificato motivo. Anche qui la legge realizza un’equiparazione

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