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La definizione ulpianea di possessor pro herede.

herede nel contesto del diritto romano.

3. Possessor pro herede e possessor pro possessore nella definizione di Ulpiano.

3.1. La definizione ulpianea di possessor pro herede.

Se queste sono le principali critiche che son state mosse rispetto all’affermazione di una perfetta assimilabilità e corrispondenza tra l’istituto dell’erede apparente e quello del possessor pro herede, occorre adesso affrontare il secondo aspetto su cui la dottrina ha in passato discusso: ossia la possibilità – supra accennata – di far rientrare nell’ambito del concetto di erede apparente moderno non solo il possessor pro herede, ma anche il possessor pro

possessore delle fonti romane.

Sul punto, soprattutto in passato, parte della dottrina, nel definire il concetto di erede apparente attraverso un confronto anche con gli istituti propri del diritto romano, non ha esitato ad effettuare un rinvio omnicomprensivo ad entrambe le figure del possessor pro herede e del possessor pro possessore. I fautori di tale posizione argomentavano la loro teoria mediante diverse considerazioni, fondate principalmente sull’analisi dell’elemento soggettivo che accompagna la condizione dell’erede apparente. La loro ricostruzione si

19 Di nuovo il riferimento è a G.GALLI, Il problema dell’erede apparente cit., p. 200: «La

natura di un qualcosa non può essere spiegata in termini di semplice rinvio ad un fenomeno, contemporaneamente precisando che quel rinvio non è totale, ma relativo. E, viceversa, quella recezione non soddisfa perché parziale: essa deturpa le dimensioni e gli aspetti dell’oggetto recepito. Nel momento stesso in cui tutto questo si verifica, il rinvio impone una nuova definizione, ed in se stesso non ha più senso alcuno.».

basava, in particolare, sul rilievo per cui nel diritto odierno l’erede apparente è semplicemente definito in relazione all’apparenza della qualifica di erede, essendo al contrario privo di rilievo l’animus che accompagna tale condizione. In altre parole, tali autori sottolineano che l’erede apparente moderno è definito tale in virtù del suo sembrare erede, al fatto di comportarsi come un erede vero e di apparire ai terzi come tale, così da determinare il loro convincimento circa l’effettiva sussistenza di detta qualifica, senza che a tal fine rivesta importanza lo stato soggettivo di buona o mala fede del medesimo. Sulla base di tale assunto, perciò, tali autori traggono come conseguenza del tutto ovvia e – a parer loro – indubitata che il cosiddetto ‘erede apparente’ non sia altro che l’evoluzione moderna del possessor pro herede o pro possessore del diritto romano20.

Tuttavia, accedendo a questa tesi e, dunque, assumendo che possessor pro

herede e possessor pro possessore siano entrambi eredi apparenti – in quanto

all’interno del concetto di erede apparente non si distingue tra quello di buona e di male fede – tuttavia ciò non significa che la dicotomia operata nella categoria dell’erede apparente, sulla base dello status soggettivo di questo, possa essere utilizzata come discrimen tra le figure esaminate del diritto romano.

In altre parole, tale teoria esclude che la distinzione tra erede apparente in buona fede e erede apparente in mala fede possa corrispondere semplicemente a quella tra possessor pro herede e possessor pro possessore. Ciò sulla base del fatto che, se può affermarsi che il possessor pro possessore è sicuramente un soggetto che agisce in mala fede, perché non vanta alcun titolo a sostegno del proprio possesso e, interrogato circa il motivo della disponibilità del bene,

20 In tal senso si veda quanto affermato da A.MAIERINI, Studi intorno all’art. 933 del Codice

civile, in La Legge, 2/12 (1872), pp. 5-6; 14-17; 25-30; 49-55; 73-83 (cfr. in particolare p. 6):

«Come indicano le parole stesse erede apparente è chi possiede come erede mentre in realtà non è tale, è il possessor pro herede o pro possessore del diritto romano, essendo indifferente che egli possieda in buona o in mala fede»; e, inoltre, l’opinione di A. TARTUFARI, Del possesso qual titolo di diritti, 2. Del possesso qual titolo apparente universale, rubr. I, Qual sia l’erede apparente), Torino: Fratelli Bocca, 1878, par. 547 ss., pp. 607 ss., e, in appendice,

ID., Nota intorno ad una recente interpretazione della l. 25 § 17 D. De hereditatis petitione, p. 887, in particolare, p. 538: «[...] il primo qui pro herede possidet, perché pretende espressamente al diritto ereditario, offendendo il diritto del vero erede. Il secondo qui pro

possessore possidet, perché, non allegando in specie alcun diritto, si presume pretendere a tutti

i diritti e tutti offenderli. Codesti possessori della universalità oggidì, per l’art. 933, si chiamano eredi apparenti di buona o di mala fede.»

risponde semplicemente «perché possiedo»21, (con consapevolezza o comunque con accettazione consapevole del rischio di ledere un diritto altrui22) non può però dirsi il contrario, ossia che la mala fede accompagni sempre e solo tale categoria di possessore. Infatti, tale condizione soggettiva potrebbe essere propria anche di colui che agisca in giudizio vantando un preciso titolo e, in particolare il titolo di erede. Detto altrimenti, potrebbe darsi il caso che anche il possessor pro herede sia accompagnato da mala fede. Infatti, gli autori latini definiscono possessor pro herede come colui che, interrogato sul motivo del proprio possesso, risponde «perché sono erede»23. Pertanto, possessor pro

herede è colui che afferma la propria qualità di erede, a prescindere dal fatto

che tale affermazione avvenga in virtù di un erroneo convincimento, oppure sia accompagnata dalla consapevolezza dell’assenza di tale status. Ciò che conta, infatti, è la semplice auto-qualifica come erede, a prescindere dall’intento menzognero che sia o meno ad essa sotteso.

Da ciò consegue, dunque, che, se il possessor pro possessore è sicuramente in mala fede, non è detto però che chi possiede pro herede sia necessariamente in buona fede. Ed ecco perché i sostenitori di tale posizione escludono, a ragione, che la contrapposizione tra possessor pro herede e pro possessore sia alla base della distinzione tra erede apparente in buona e in mala fede24.

La appena esposta ricostruzione, che pare ampliare le maglie della nozione di erede apparente fino a ricomprendervi anche il possessor pro possessore, è stata però successivamente rifiutata dalla dottrina, che, tornata ad occuparsi dell’erede apparente e dei suoi possibili antecedenti storici, ha criticato tale

21 D. 5.3.11.pr. (Ulp. 15 ad ed.): «Pro herede possidet, qui putat se heredem esse.»

22 Tale consapevolezza o accettazione consapevole corrisponde senza dubbio allo stato di mala

fede, in senso soggettivo. La buona fede in senso soggettivo è, infatti, l’ignoranza di ledere l’altrui diritto: conseguentemente, chi agisca nella consapevolezza di ledere o violare l’altrui sfera soggettiva non potrà che agire in mala fede.

23 Ulpiano prosegue, infatti, affermando che «pro possessore possidet» «[...] qui interrogatus

cur possideat, responsurus sit “quia possideo” nec contendet se heredem vel per mendacium»,

ossia che possiede pro possessore chi interrogato sul perché possieda, risponderà «poiché possiedo» e non affermerà di essere erede, neppure per menzogna. Cfr. D. 5.3.12 (Ulp. 67 ad

ed.).

24 A.TARTUFARI, Del possesso qual titolo di diritti, cit., p. 538: «[...] bisogna guardarsi dal

confondere l’erede apparente di buona fede col possessor pro herede e l’erede apparente di mala fede col possessor pro possessore, giacché anche tra i possessori pro herede se ne trovano di mala fede»; e ID., p. 675: «Codesti possessori delle universalità si chiamano eredi apparenti di buona o di mala fede: ma la distinzione non risponde all’altra pro herede o pro

lettura – eccessivamente ampia – dell’istituto e ha accolto un’impostazione maggiormente selettiva, ammettendo che il concetto di erede apparente potesse abbracciare solo la figura del possessor pro herede.

Tali autori fondano la propria posizione sull’interpretazione letterale dei passi contenuti nella compilazione giustinianea, che si occupano di tali istituti. In particolare, a riguardo vengono in rilievo i già citati frammenti di Ulpiano contenuti nel libro quinto del Digesto, tratti dal quindicesimo libro del suo commentario all’editto. È opportuno, pertanto, come sempre partire da una lettura dei brani in questione, poiché solo attraverso le parole degli autori è possibile fare chiarezza sulle relative interpretazioni che sono state offerte, per valutare se sia possibile accoglierle, integralmente o parzialmente, o se, viceversa, sia opportuno distaccarsene.

D. 5.3.11.pr. (Ulp. 15 ad ed.)

Pro herede possidet, qui putat se heredem esse. Sed an et is, qui scit se heredem non esse, pro herede possideat, quaeritur: et Arrianus libro secundo de interdictis putat teneri, quo iure nos uti Proculus scribit. Sed enim et bonorum possessor pro herede videtur possidere.

Il primo passo che occorre analizzare è il principio del frammento 11 del titolo terzo, il cui incipit recita «pro herede possidet». Il brano, infatti, inizia con una definizione del possessor pro herede, che secondo Ulpiano è «qui

putat se heredem esse», ossia chi reputa di essere erede, chi ritiene di poter

vantare la qualifica soggettiva di successore mortis causa. Tale definizione prelude, però, ad una domanda, che Ulpiano subito dopo introduce, interrogandosi se possa considerarsi possessor pro herede anche chi sappia di non essere erede, ossia chi abbia la piena consapevolezza circa la carenza del titolo che legittimerebbe il possesso del patrimonio ereditario. Rispetto a tale quesito Ulpiano offre risposta positiva, rinviando peraltro al pensiero dei suoi autorevoli predecessori e sottolineando come, a ben vedere, in effetti anche il

bonorum possessor possiede pro herede. Infatti, il soggetto cui sia concessa la bonorum possessio è consapevole dell’assenza della qualifica civilistica che gli

questo, è necessario supplire a tale carenza mediante l’intervento del diritto pretorio.

Ma, in effetti, è proprio questo il compito del pretore: intervenire a sostegno di quelle situazioni in cui il diritto civile manifesta una insufficienza, a fronte di una situazione di fatto che risulta meritevole di tutela25. La bonorum

possessio, non a caso, è proprio congegnata per consentire a quei soggetti, che

altrimenti sarebbero esclusi dalla successione, di ottenere il possesso dei beni ereditari pur non rientrando tra gli heredes civiles.

Ciò posto, laddove un soggetto, che non sia erede e sappia di non poterlo essere, chieda e ottenga dal pretore la concessione della bonorum possessio, da quel momento sarà possessore dei beni. E, quanto al titolo di tale possesso, sicuramente egli disporrà dei beni in qualità di erede: erede pretorio, certo, ma pur sempre erede. Ma allo stesso tempo sarà consapevole di non essere l’erede civilistico e, dunque, laddove affermi la propria qualifica di heres nell’ambito di un’azione di petizione dell’eredità promossa dall’erede erede vero (inteso come ‘heres civilis, che per il ius civile è il solo e unico erede) sarebbe senz’altro in mala fede. Ecco, dunque, perché Ulpiano sente l’esigenza di richiamare la bonorum possessio per spiegare la propria risposta positiva rispetto al quesito sollevato. Perché se il bonorum possessor è senz’altro

possessor pro herede, e se quello stesso bonorum possessor può altrettanto

indubbiamente sostenere in mala fede la propria qualifica di heres di fronte all’erede civilistico, allora attraverso un banale sillogismo non si può che essere d’accordo con Ulpiano e si dovrà necessariamente concludere che il

possessor pro herede può essere anche colui che sa di non essere erede («qui scit se heredem non esse»).

Se così è, deve allora concordarsi con quell’opinione che affermava l’impossibilità di spiegare la distinzione tra possessor pro herede e possessor

pro possessore semplicemente distinguendo tra buona e mala fede. Se, infatti,

il possessor pro herede può essere, come visto, anche un soggetto consapevole

25 A riguardo basti citare la celebre definizione che Papiniano offre del diritto pretorio: D.

1.1.7.1 (Pap. 2 def.): «Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel

supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Quod et honorarium dicitur ad honorem praetorum sic nominatum.» Laddove la definizione di ius civile era stata

esposta nel frammento immediatamente precedente dallo stesso Papiniano: D. 1.1.7.pr. (Pap. 2

def.): «Ius autem civile est, quod ex legibus, plebis scitis, senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit.»

della carenza della propria qualifica di erede, ciò significa che il possessor pro

herede può essere in mala fede. Ma, se tale ragionamento è corretto, allora le

asserite corrispondenze «possessor pro herede-buona fede» e «possessor pro

possessore-mala fede» inevitabilmente si dissolvono e si conferma

l’impossibilità di fondare la distinzione tra i due possessores sulla base dell’elemento soggettivo della bona o mala fides.

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