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L' art 183 comma 4°c.p.c alla luce del nuovo art 101 comma 2° c.p.c

CAPITOLO 2) IL CONTRADDITTORIO DELLE PARTI RISPETTO ALL'INIZIATIVA DEL GIUDICE NELLA FASE ISTRUTTORIA DEL PROCESSO ORDINARIO DI COGNIZIONE (E

5. L' art 183 comma 4°c.p.c alla luce del nuovo art 101 comma 2° c.p.c

Come anticipato, sulla base di una lettura correlata dell’art. 183 comma 4° c.p.c. con l' art. 101 comma 2° c.p.c., si deduce che a norma dell’art. 183 comma 4° c.p.c., il giudice deve indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione; però nel caso in cui ciò non avvenga in quella sede, il giudice può, a norma dell’art. 101 comma 2°c.p.c., al momento della decisione, assegnare alle parti un termine da venti a quaranta giorni, per permettere loro di contraddire e difendersi, sulla questione rilevata officiosamente271, a pena di

nullità della pronuncia finale eventualmente successivamente adottata. Quindi in difetto del regolare rilievo delle questioni officiose che deve intervenire di regola nell’ udienza di prima comparizione/trattazione ex art. 183 comma 4° c.p.c., il giudice può utilizzare in fase decisionale lo strumento sanante del novellato art. 101 comma 2° c.p.c., che assume una natura sussidiaria ed auspicabilmente eccezionale, essendo destinato ad operare solo in caso di tardiva rilevazione della questione officiosa. Ciò però non vale per le questioni di rito rilevabili d' ufficio ex artt. 38 comma 3° e 40 comma 2° c.p.c., dato che a norma dell' atttuale art. 38 comma 3° c.p.c., le questioni di competenza devono essere rilevate, non oltre la prima udienza, stessa sorte vale per le questioni di connessione ex art. 40 comma 2° c.p.c.. Ne consegue che il sistema si sfrangia: mentre per le questioni afferenti la competenza e la connessione la barriera costituita dall’udienza di trattazione è 271 Ovviamente qualora il giudice si avveda di una questione dopo l’udienza di trattazione può, o meglio deve, stimolare il contraddittorio, in ogni fase, senza attendere il momento della decisione.

invalicabile, senza poter attingere alla previsione di cui al citato art. 101 comma 2° c.p.c., per tutte le altre, il rispetto del termine di cui all’art. 183 c.p.c. è solo indicativo e auspicabile272.

Perciò il giudice ex art. 183 comma 4° c.p.c. può richiedere chiarimenti e rilevare questioni d’ufficio nei limiti dei fatti principali e secondari risultanti dagli atti allegati prima dello scadere delle preclusioni, interpretando e qualificando domande ed eccezioni nel rispetto del criterio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, ovvero col divieto di sostituire d’ufficio una azione diversa a quella espressamente e formalmente proposta, o di valorizzare eccezioni, dirette a paralizzare la domanda avversaria, non proposte espressamente dalla parte.

Inoltre una volta esaurita l’udienza di trattazione, se il giudice ritiene, nondimeno, di dover porre a fondamento della sua pronuncia una questione rilevata d’ufficio e non considerata dalle parti, riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione. Questa è la previsione del comma 2° art. 101 c.p.c., aggiunto dall’art. 45, comma 13°, della l.. 69/2009; principio già presente nel giudizio di cassazione, per l’art. 384, comma 3°, c.p.c., introdotto dalla l. 40/2006, con la differenza che l' art. 101 comma 2°c.p.c. prevede espressamente una sanzione di nullità, cioè qualora il giudice decida la controversia sulla base di una questione non previamente sottoposta alle parti, la sentenza è nulla per violazione del principio del contraddittorio, per lo meno allorché l’error in procedendo abbia effettivamente impedito l’esercizio dei poteri processuali consequenziali al tardivo rilievo officioso. Il giudice d’appello che rilevi tale nullità, trattandosi di un' ipotesi non ricompresa nell’elencazione di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., dovrà rimettere le parti in termini per controdedurre, e quindi decidere la lite.

L' art. 101 comma 2° c.p.c. coinvolgendo i principi generali del processo ha un legame diretto in quanto costituente espressione e attuazione di alcune disposizioni costituzionali di fondamentale importanza in materia di contraddittorio, tanto è vero che si può affermare che dalle logiche del dialogo e dagli studi sulla “giusta decisione” delle cause si siano creati i presupposti per la

formulazione di questa disposizione273. Il costante riferimento ai principi del

“giusto processo” relativamente ai commi 1° e 2° dell’art. 111 Cost. riformato, ha necessitato una rilettura degli istituti processuali al fine di verificare la compatibilità con tali principi.

La sentenza di “terza via”, nel sistema antecedente a quello ora connotato dall’introduzione dell’art. 101, comma 2° c.p.c., non veniva ritenuta ex se nulla, in difetto di una previsione espressa di nullità, difatti secondo Cass. Civ. sez. un., 30 settembre 2009, n. 20935, ferma la violazione "deontologica" da parte del giudicante che avesse deciso, pronunciando sentenza sulla base di rilievi non previamente sottoposti alle parti, la nullità processuale non poteva essere, ipso

facto, sempre e comunque predicata, quale esito indefettibile di tale omissione. Di

conseguenza, in presenza delle sole questioni di fatto ovvero miste, di fatto e di diritto, si riteneva la parte soccombente legittimata a dolersi del decisum sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione avesse vulnerato la facoltà di chiedere prove (o di ottenere una eventuale rimessione in termini). Il rilievo d’ufficio della questione, imposto dall’art. 183 comma 4° c.p.c., presupponendo un’attività del giudice, nella trattazione del processo, sin dalla prima udienza, deve esser coordinato con il rispetto dell’art. 175 c.p.c., nella parte in cui è disposto che lo svolgimento del procedimento sia improntato al principio di lealtà, rivolto alle attività del giudice, prima ancora che delle parti. Il comma 4° dell’ art. 183 c.p.c. rappresenta una significativa espressione di tale principio di lealtà. dato che l' obbligo del giudice di richiedere alle parti i chiarimenti necessari, sulla base dei fatti allegati, costituisce un principio di civiltà dell’ordinamento processuale civile nella funzione della esplicitazione delle allegazioni e nell' individuazione delle domande e delle eccezioni delle parti. In tale costruzione, come accennato, l’appena introdotto comma 2° dell’art. 101 c.p.c. si pone come strumento sanante rispetto all’omissione del giudice rispetto all’obbligo postogli nell’udienza di trattazione dell’art. 183, comma 4°, c.p.c. La fattispecie presa in considerazione dal novellato art. 101 c.p.c. è, infatti, temporalmente proiettata 273 Si vedano: CAVALLONE, In difesa della ‘veriphobia’, cit., 1 e ss.; TARUFFO, Contro la‘veriphobia’. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in Riv. dir. Proc., 2010, 995

ess.; ID., La semplice verità cit.; ID., Poteri probatori delle parti, cit., 476; ID., Il controllo di

razionalità della decisione fra logica, retorica e dialettica, in L’attività del giudice, a cura di

verso il momento finale del processo, allorché il giudice rilevi la questione d’ufficio, dopo che le parti abbiano precisato le loro conclusioni e pure depositato le loro comparse conclusionali e memorie di replica. La “questione” innovativa che il giudice rilevi d’ufficio in sede di decisione della causa ai fini del comma 2° dell’art. 101 c.p.c., può essere una questione di fatto, quale un fatto storico semmai introdotto inconsapevolmente dalle parti o acquisito al giudizio indipendentemente dall’iniziativa delle parti delle stesse, o anche introdotto da alcuno dei contendenti ma senza darvi la significatività giuridica che vi ravvisi il giudice. Può altrimenti trattarsi di una questione di rito o di altra questione di diritto che comunque incida sulla rilevanza giuridica dei fatti prescelta dalle parti, pur senza valorizzare fatti diversi da quelli allegati e provati. L’art. 101, comma 2°, c.p.c. contempla un unico termine per memorie, ma in dottrina si consiglia di fissare un doppio termine, facendo salva la possibilità di note di replica, sia pur sempre nell’ambito dello spazio prescritto che deve essere non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni. Le “osservazioni” sulla questione, rimesse alle parti, potranno poi consistere nell’allegazione di fatti nuovi ma anche in nuove deduzioni istruttorie, purchè ricollegabili alla questione rilevata dal giudice.

Questo generale potere dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni facente capo al giudice, non può quindi mostrare la sua funzionalità unicamente al momento della decisione di merito, dato che apparentemente l' immagine che il moderno processo civile vuole rimuovere, è proprio quella del giudice che, preoccupato di mantenere equidistanza e neutralità, si finga disinteressato all’affare fino al momento della sentenza; in realtà l’imparzialità e la terzietà del giudice non postulano la rassegnazione ad un ruolo passivo, che tenga il magistrato lontano dall’indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio.

6. La rilevazione di questioni officiose dopo la trattazione e il rispetto del

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