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AGRICOLTURA ETICO-SOCIALE E IMPRENDITORIALITÀ NON PROFIT IN AGRICOLTURA

DI S AVERIO S ENN

L’agricoltura sociale, per inquadrare subito l’ambito del mio intervento, non è una particolare forma di agri- coltura, come quella biologica che ha i suoi protocolli più o meno formalizzati, ma è un variegato insieme di pratiche che sfuggono alle classificazioni in quanto trasversali rispetto alle categorie consuete con cui siamo abituati a misurarci. Se mi è consentito un accostamento non ortodosso, è un po’ come l’ornitorinco, che ve- dete nell’immagine proiettata sullo schermo, un animale piuttosto raro, ma che esiste realmente e che sem- bra messo lì dalla natura per sparigliare le carte agli zoologi, in particolare alle loro precise, quanto rigide, classificazioni delle specie.

La storia della scoperta dell’ornitorinco, ed in particolare delle difficoltà che hanno avuto gli studiosi del tem- po a classificarlo, è emblematica e anche coinvolgente, per come l’ha raccontata Umberto Eco in Kant e l’or- nitorinco6. Quando, racconta Eco, sul finire del XVIII secolo furono catturati, morti, i primi esemplari nelle terre dell’Oceania, questi furono mandati in Europa affinché fossero studiati dagli scienziati di allora. Gli zoologi che per primi li esaminarono ritennero che si trattasse di un falso, di una sorta di assemblaggio ar- tificioso di organi di altri animali, pratica che pare fosse in voga in quel tempo. In realtà il problema era che l’ornitorinco non rientrava negli schemi classificatori adottati per le specie animali e “quindi” non poteva che essere un falso. Ne negarono dunque l’esistenza stessa.

Le sue originalissime caratteristiche, la particolare forma ad anatra del becco, la presenza di artigli sulle zampe al tempo stesso palmate, la presenza di pelo sulla cute, la sua natura di oviparo che però allatta la prole senza avere ghiandole mammarie, e altre peculiarità crearono non poca confusione negli zoologi che avevano il difficile compito di definire questa specie fino allora sconosciuta.

Umberto Eco ricorda come la comunità scientifica ha discusso per oltre 100 anni prima di decidere come ri- solvere questo rompicapo, ma rimane emblematica la loro prima reazione ovvero quella di negarne l’esi- stenza perché non contemplata dalla griglia tassonomica vigente.

Per farla breve questa vicenda è l’esempio di come a volte nelle realtà ci sono oggetti, enti, fatti che i nostri occhi e le nostre menti in qualche modo “rifiutano” di vedere perché non contemplati dai nostri schemi teo- rici: può capitare così che si ritengano sbagliati i fatti, inesistenti gli oggetti prima di procedere a rivedere gli schemi logico-teorici di riferimento.

Ma torniamo all’agricoltura sociale che presenta delle similitudini con la storia della scoperta e classificazio- ne dell’ornitorinco per tre motivi:

6 Umberto Eco, (1980): Kant e l’ornitorinco, Bompiani Editore, Milano. Eco ci ricorda inoltre come il primo nome scientifico dell’animale fu Ornytho - rynchus paradoxus, a testimoniare la sfida lanciata da questa specie agli studiosi del tempo.

• l’agricoltura sociale esiste in Italia da molti anni, forse da sempre, ma ce ne stiamo accorgendo solo ades- so o comunque da poco;

• l’agricoltura sociale ha connotati di appartenenza ad una pluralità di discipline, di ambiti in cui tendiamo a segmentare la realtà e li attraversa trasversalmente;

• ancora non si sa bene come definirla, anche se sembra si vada sedimentando l’espressione appunto di “agricoltura sociale”7.

Ritroviamo quindi alcune delle difficoltà affrontate dagli zoologi due secoli fa: aldilà della sua definizione, a quale ambito appartiene l’agricoltura sociale, a quello agricolo o a quello del sociale? Le competenze su que- ste pratiche sono riconducibili a quale ministero o assessorato? E gli operatori dell’agricoltura sociali sono agricoltori, operatori sociali, o cos’altro?

Questi possono sembrare interrogativi banali, ma hanno una loro rilevanza nel determinare una certa diffi- coltà che l’agricoltura sociale sta incontrando, non solo in Italia in verità, per ricevere quei necessari ricono- scimenti che consolidano le pratiche in essere e ne determinano la sostenibilità nel tempo.

Il mio intervento si articolerà in tre parti che toccheranno i seguenti aspetti: • alcune osservazioni riguardo l’attività agricola nel contesto della finalità sociale;

• aspetti concernenti gli attori di questo particolare ambito, ovvero i protagonisti che progettano e realiz- zano le pratiche di agricoltura sociale;

• infine, essendo osservatore e studioso di questo fenomeno, fornirò alcuni spunti, alcune parole chiave emerse anche dal discorso di ieri, cercando di interpretarle secondo il mio punto di vista.

Dunque: le attività agricole a fini (anche) sociali.

L’agricoltura, come attività umana, ha da sempre svolto anche una funzione sociale senza alcun ricono- scimento esplicito o formale. Le aziende agricole, le fattorie, i poderi, hanno rappresentato una risorsa “im- plicita” di servizio sociale, in quanto nelle famiglie agricole che questi fondi conducevano (e conducono) si venivano a determinare situazioni di difficoltà, di disagio, di necessità di inclusione, come in tutte le fa- miglie, agricole e non. Nel tempo in cui la nostra società era fondamentalmente una società agricola e non esistevano sistemi di welfare come esistono oggi, le soluzioni alle problematiche sociali e di inclusio- ni venivano cercate, e sovente trovate, in primo luogo nella famiglia, ma anche nella comunità locale e nel- le cosiddette reti informali di prossimità, reti amicali, parentali, di condivisione di cittadinanza in cui co- munque l’agricoltura, in quanto attività dominante, permeava di sé tutta la società e ne scandiva ritmi e valori.

Una funzione sociale, dunque, che in qualche modo può dirsi appartenere al patrimonio costitutivo dell’a- gricoltura e del mondo rurale.

È solo da pochi anni che ci si è accorti di questo ruolo svolto dal mondo agricolo, ed in particolare da quelle esperienze che in chiave intenzionale ed esplicita promuovono e realizzano pratiche incentrate sull’uso di ri-

7 La mancanza di un’espressione condivisa è più evidente a livello internazionale dove, nell’ambito della lingua inglese, si parla di social farming, far- ming for health, green care farming o green care in agriculture, e altro ancora.

sorse agricole per generare inclusione sociale di soggetti deboli, o partecipare a percorsi terapeutico-riabili- tativi promossi dalle agenzie locali per la salute.

Tra i tanti aspetti che andrebbero approfonditi e meglio conosciuti di quella che chiamiamo ormai “agricol- tura sociale” tendo a porre una particolare attenzione al ruolo che gioca l’agricoltura e le relative pratiche in questo contesto. In altri termini, quali siano le particolari specificità delle risorse e delle attività agricole che ne consentono l’utilizzo in chiave sociale.

L’agricoltura, come insieme di attività di coltivazione e di allevamento presenta delle specificità che con la mo- dernizzazione agricola erano state ignorate o comunque poco considerate. Il paradigma della “pari dignità” del settore agricolo rispetto agli altri settori produttivi, secondo il quale le imprese agricole sono comunque im- prese “tout court” e ad esse si applicano le categorie teoriche e le strumentazioni analitiche proprie di qua- lunque impresa, ha posto in secondo piano, se non del tutto ignorato, alcune forti specificità dell’agricoltura. In primo luogo va rilevato come l’attività agricola si sviluppi attraverso un rapporto inscindibile con organi- smi viventi, vegetali e animali. Questo aspetto rappresenta uno degli elementi centrali nelle pratiche di agri- coltura sociale nelle quali l’interazione con tali organismi, il prendersi cura di essi, il senso di responsabilità che può maturare nella cura di piante e animali viene fortemente valorizzato.

Altra fondamentale specificità è che si produce cibo, un bene essenziale per tutti e del quale si vanno sem- pre più riscoprendo i significati simbolici e i valori culturali, oltre a quelli nutrizionali.

Un ulteriore aspetto che probabilmente non connota solo l’attività agricola ma che in questo ambito è diffu- samente presente è la presenza di produzioni congiunte, espressione che ha ritrovato interesse nella pro- spettiva della multifunzionalità agricola. Un esempio di produzione congiunta inerente la tradizionale agri- coltura contadina è quello delle specie animali a plurima attitudine. Nel corso dei miei studi universitari ho appreso dell’esistenza di specie bovine o ovine a duplice o triplice attitudine: latte e carne, nel caso di alcu- ne specie bovine, lana e ancora latte e carne nel caso degli ovini. La moderna zootecnia si è indirizzata ver- so la monoattitudine, ovvero specie specializzate nella produzione di uno e un solo prodotto. Ora, la produ- zione congiunta si ricollega al concetto, anch’esso poco frequentato dagli economisti del settore, delle eco- nomie di scopo, termine con il quale ci si riferisce alla possibilità di contenere i costi unitari di produzione non tanto variando la scala (economie di scala) quanto ampliando gli usi e le funzioni di un fattore di produzio- ne. Si potrebbe dire che fattori di produzione versatili tendono a valorizzare economie di scopo, mentre fat- tori di produzione specializzati privilegiano le economie di scala.

È noto che le imprese agricole hanno difficoltà a conseguire economie di scala, data la rigidità di vari fatto- ri di produzione.

L’agricoltura sociale, in qualche modo, trae ragione da ciò, valorizzando le economie di scopo potenziali pre- senti in imprese agricole e promuovendo traiettorie di sviluppo di queste nella prospettiva della multifun- zionalità e della diversificazione aziendale.

Ma vi è un altro aspetto delle tecniche agricole che mi sembra rimanga piuttosto trascurato. Riguarda la pos- sibilità di realizzare le produzioni attraverso un numero molto elevato di modalità, adottando tecniche di produzione anche molto diverse tra loro. Anche questo aspetto, contribuisce a delineare l’impresa agricola co-

me un ente altamente duttile, versatile. Una versatilità che spiega in una certa misura la persistenza della pic- cola azienda, nei numeri con cui è presente in tutte le regioni italiane.

Valorizzando questi elementi di versatilità si costruiscono percorsi plurali delle imprese agricole, tra cui quel- li inerenti la realizzazione di pratiche di agricoltura sociale.

Un altro esempio che ci restituisce l’immagine di un settore produttivo versatile riguarda l’ampio ventaglio di azioni e operazioni agricole che si realizzano nei processi produttivi agricoli, la molti dei quali possono es- sere effettuati da persone anche con limitate competenze, abilità e/o capacità. In altri termini la soglia di in- gresso al lavoro, in agricoltura, non è elevata.

La seconda parte del mio intervento guarda ai soggetti che, nel nostro paese, promuovono e conducono ini- ziative di agricoltura sociale.

Questi appartengono sia al settore pubblico, che a quello privato for profit e al terzo settore, o privato sociale. Esempi di agricoltura sociale in ambito pubblico sono dati da quelle tante case circondariali e istituti peni- tenziari dove si realizzano produzioni agricole entro il perimetro delle mura carcerarie. Anche alcune strut- ture ospedaliere o servizi delle aziende sanitarie locali conducono direttamente piccole esperienze agricole per integrare e coadiuvare le terapie attuate nei confronti di particolari pazienti. Ancora, sempre con riferimen- to all’ambito pubblico, vanno citate le aziende agrarie del’Università di Pisa e della mia Università che han- no attivato progetti di “farm therapy” in ambito aziendale.

Un’altra tipologia di attori sono quelli privati, in particolare le imprese agricole “ordinarie”. Diversamente da quanto non sia avvenuto in altri paesi europei, come ad esempio l’Olanda, la sfera dell’imprenditorialità pri- vata solo in piccoli numeri e da pochi anni si sta misurando con l’attivazione di pratiche di agricoltura di uti- lità sociale. Negli ultimi mesi però l’attenzione e l’interesse di alcune organizzazioni agricole nazionali ver- so tali pratiche potrebbe condurre ad una crescita anche significativa di esperienze di agricoltura sociale nel- l’ambito di imprese agricole “a fini di lucro”.

Senza dubbio è il cosiddetto terzo settore l’ambito nel quale si è maggiormente sviluppata l’agricoltura so- ciale in Italia. In particolare la sua componente imprenditoriale, ovvero le cooperative sociali, da molti anni hanno trovato anche nella pratica dell’agricoltura le risposte di inclusione sociale e di inserimento lavorati- vo di soggetti svantaggiati che la legge 381 del 1991 ha assegnato loro.

Una cooperativa sociale è un’organizzazione senza finalità di lucro impegnata nella produzione stabile e continuativa di servizi di interesse collettivo secondo modalità di tipo imprenditoriale. La legge istitutiva del- le cooperative sociali, la 381/91, distingueva le cooperative di tipo A, aventi lo scopo di erogare servizi so- ciali e sociosanitari, da quelle di tipo B, alle quali veniva affidato il compito di promuovere integrazione la- vorativa di soggetti svantaggiati attraverso lo svolgimento di attività produttive nei vari settori, agricoltura inclusa. A partire dal 2001 l’Istat realizza, con cadenza biennale, un censimento delle cooperative sociali. I risultati della rilevazione più recente, riferita all’anno 2005, indicano la presenza nel nostro paese di 571 coo- perative sociali di tipo B che esercitano attività agricole. Queste sono incrementate, rispetto a soli due anni prima, addirittura del 21,7%, una dinamica di crescita che non si registra per alcuna altra forma di impresa che opera nel settore agricolo.

Queste cooperative occupano oltre 8.000 lavoratori appartenenti alle categorie dello svantaggio. Tra le va- rie tipologie di svantaggio è interessante rilevare, rispetto alle cooperative sociali non agricole, la maggior presenza di persone affette da disagio psichico, di ex-tossicodipendenti, di ex-detenuti, ovvero delle tipolo- gie di svantaggio per le quali l’inserimento nel mondo del lavoro è particolarmente problematico. Il profilo di queste cooperative tende ad emergere dai vari casi di studio che in questi ultimi anni ho avuto modo di conoscere e di approfondire e da alcune ricerche empiriche sul territorio nazionale. Si tratta di espe- rienze che in molti casi tendono a situarsi su terre divenute marginali per il venir meno delle convenienze eco- nomiche nell’ambito dell’agricoltura ordinaria.

Il loro profilo produttivo risulta particolarmente diversificato. Una diversificazione sia riguardante l’attività agricola in stretto, con la presenza di una pluralità di attività colturali e di allevamento, sia con riferimento alla presenza di attività connesse a quella agricola quali la vendita diretta, servizi didattici per le scuole, ri- storazione e agriturismo, riabilitazione equestre e altro ancora.

Da una tesi di laurea8che ho avuto modo di seguire e che ha riguardato un piccolo campione delle coopera- tive sociali di tipo B con attività agricole, emergono questi altri tratti:

• adozione del metodo di produzione biologico, presente nel 75% delle cooperative intervistate; • attivazione di processi produttivi ad elevata intensità del lavoro manuale, con la conseguente creazione

di occupazione anche su limitate superfici;

• prevalenza di coltivazioni ad elevato valore aggiunto quali l’orticoltura, di pieno campo o in serra, la frutticoltura, la floricoltura, viticoltura ed olivicoltura, l’apicoltura e gli allevamenti di piccole specie; • presenza significativa di occupazione femminile e giovanile;

• alto grado di apertura al contesto territoriale e di integrazione in reti locali e sovralocali.

Di certo il fenomeno dell’agricoltura sociale ha a che fare con il grande tema della responsabilità sociale di impresa declinato in chiave agricola, tematica emersa in vari interventi di questo convegno. Mi sentirei però di dire che, aldilà del suo essere “responsabile” o “etica” l’agricoltura sociale è fondamentalmente utile. Nel senso che serve, che può offrire soluzioni a situazioni complesse e difficili da risolvere, che può rappresen- tare per i servizi sociali uno strumento in più di intervento, oltre a quelli consolidati e consueti.

Nei territori dove queste esperienze hanno raggiunto maggiori gradi di maturità – mi limito a citare i casi dei Castelli Romani nel Lazio, della Valdera in Toscana e della provincia di Pordenone in Friuli, i servizi stanno ri- conoscendo l’utilità derivante dalla presenza sul territorio di esperienze di agricoltura sociale e dalle rispo- ste che questa da a bisogni crescenti. Non a caso il termine “utile” sta nella sigla ONLUS Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale.

Un’altra parola chiave emersa nel dibattito di ieri, e che vorrei in questa sede declinare con riferimento del- l’agricoltura sociale, è quella di competitività. È un termine usato (e abusato) in tanti contesti, ma che potreb- be essere inteso come riferito esclusivamente all’agricoltura modernizzata, specializzata, standardizzata, ecc.

8 Fabio Belano, L’agricoltura sociale in Italia. Un’indagine sulle cooperative sociali che operano in agricoltura, tesi di laurea, Facoltà di Agraria, Università degli Studi della Tuscia, A.A. 2006-2007.

A mio avviso l’agricoltura sociale, e mi riferisco alle sue espressioni più virtuose e più consolidate, può esse- re definita un’agricoltura competitiva, nel senso di un’agricoltura capace di generare sostenibilità economi- ca nel tempo delle imprese che la esercitano. A mio avviso anche questa è competitività: se da un lato l’a- zienda non competitiva è destinata a chiudere, dall’altro alcune imprese agricole da oltre trent’anni impe- gnate in ambito di agricoltura sociale rivelano la possibilità di un’“altra” competitività, incentrata sulle eco- nomie di scopo, sulla partecipazione a reti economiche e sociali e sulla valorizzazione di fattori di produzio- ne originali, quali ad esempio le sono quelli motivazionali, sulla capacità di intercettare una domanda di mercato espressa da consumatori responsabili o “critici”.

Una delle strategie che appare particolarmente promettente per dare sostenibilità economica alle imprese che intendono avviare attività di agricoltura sociale è quella di nuove forme di collaborazione, di accordi e di partenariato tra soggetti imprenditoriali diversi. La cooperazione sociale e l’impresa agricola possono trova- re modalità di azione comune, in una logica di complementarietà: esistono già esempi, ancora limitati in ve- rità, che vedono imprese agricole e cooperative sociali allearsi, nella forma ad esempio dell’associazione temporanea d’impresa, per organizzare congiuntamente l’erogazione di servizi sociali incentrati sull’agri- coltura.

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