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I CAMBIAMENTI SOCIALI E CULTURALI NEL MONDO AGRICOLO E RURALE

DI

O

SVALDO

P

IERONI

Il tema dei cambiamenti sociali e culturali è quello che sta sostanzialmente attraversando la discussione nel- l’ambito dell’intero seminario. C’è stata molta retorica sul tema della cultura contadina, si è partiti dalle cri- tiche nei confronti della cultura contadina-contadino isolato, rozzo, chiuso all’innovazione – che induce ad un altro tipo di retorica – ruralista, tradizionalista, centrata sul passato antimodernista. Ma, dobbiamo doman- darci in primo luogo (e io lo faccio da sociologo), che cosa significa cultura? Questo è un termine difficile, che adoperiamo continuamente attribuendogli, di volta in volta, significati molto diversi. In ambito sociologico, possiamo delineare diverse definizioni: per cultura possiamo intendere nel contempo un patrimonio intellet- tuale e materiale, patrimonio resistente, durevole nel complesso, ma nello stesso tempo soggetto a cambia- menti e trasformazioni. Concorrono a formare una cultura molteplici fattori che derivano tanto dalla sfera normativa e delle relazioni sociali, quanto dai mezzi materiali per la produzione e riproduzione degli esseri umani. Quindi abbiamo alla base della cultura valori, linguaggi, definizioni, simboli, ma anche modelli di comportamento, tecniche mentali e corporee che hanno funzione cognitiva ed espressiva, affettiva. La cul- tura è un prodotto storico dell’interazione sociale che affonda le sue radici in generazioni passate, però in par- te è anche modificata dalle generazioni presenti. La cultura per essere definita tale deve essere fattore con- diviso da determinate società, oppure, in una scala più bassa, da gruppi, da professioni, da strati sociali. Po- tremmo dire che ogni collettività ha una specifica cultura, che in termini sociologici generalmente viene de- finito come sub-cultura. La cultura orienta le azioni umane, le dota di significato, contenuto, definisce lo stes- so contesto e l’identità degli stessi individui. Potremmo dire, in altri termini, che la cultura per quanto sia portatrice di passato è in ogni caso una lente, un modo di conoscere e di definire la realtà ai fini della defi- nizione di essa, ai fini dell’interazione sociale.

La domanda ora è: esiste una cultura contadina?

La risposta può essere positiva nella misura in cui la definizione di contadino implica l’esistenza di un deter- minato gruppo sociale, la condivisione di norme, valori, comportamenti, e così via. La più semplice definizione di contadino rimanda alla figura del produttore agricolo indipendente, o relativamente indipendente, che possiede (non necessariamente sotto forma di proprietà privata) una superficie di suolo coltivabile da cui ri- cava prodotti in misura variabile destinati all’autoconsumo, al mercato o anche alla collettività. Il contadino possiede inoltre i mezzi principali del proprio lavoro ed impiega principalmente la propria forza lavoro coa- diuvato dai familiari e, solo in parte, o occasionalmente, da lavoratori salariati. Questa è la definizione clas- sica di contadino. Tuttavia questa definizione è molto generale. Ci sono contadini ricchi, medi e poveri secondo la definizione classica. Esistono i “Farmer” che sono i contadini modernizzati, e i contadini in senso proprio più tradizionali, esistono proprietari di suoli affittuari, possessori senza titolo formale. Insomma il rischio di

definizioni euristiche comporta la sottovalutazione di diversità importanti nel mondo contadino e, al tempo stesso, definizioni troppo selettive ed eurocentriche escludono enormi masse di lavoratori. Quando parliamo di contadini, noi ci riferiamo generalmente al nostro modello occidentale di contadino, al problema che il no- stro mondo contadino sta vivendo a causa della drastica riduzione di unità lavorative e di attivi in agricoltu- ra. Ma se guardiamo a quell’altro 80% della popolazione mondiale che consuma un 20% di risorse, (se guar- diamo all’Africa o all’America Latina ecc.), l’universo contadino è enorme ed è alla base di una sussistenza precaria. Da un lato troviamo le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dal dominio di quelle che ve- nivano definite da Van der Ploeg “reti imperiali”, in particolare nel settore dell’agro-alimentare (che è più un settore chimico di trasformazione che un settore agricolo), dall’altro, soprattutto per quanto riguarda i pae- si occidentali, l’agricoltura contadina nelle sue dimensioni più piccole è messa in crisi da una regolazione normativa di ambito comunitario e nazionale che da un lato mira alla qualità, dall’altro spinge in maglie troppo pungenti l’universo contadino espropriandolo di alcuni aspetti, come la capacità di decidere sul desti- no dei propri prodotti, di decidere sulle proprie colture. Sempre restando su un terreno generale, affronto al- cune questioni che riguardano la definizione di contadino, per capire se esiste una cultura contadina dal mo- mento che, come abbiamo detto, due sono gli elementi che determinano una cultura e cioè: non solo i valo- ri di riferimento, ma anche gli aspetti materiali e le relazioni sociali. L’oggetto e anche il mezzo del lavoro con- tadino è la terra. Partirei da una serie di definizioni di suolo che può essere distinto. Esiste un suolo come si- stema pedologico, puramente fisico; esiste un suolo come sistema agronomico e questo ricorda le tecniche di intervento sul suolo, ed esiste un suolo agricolo. Il suolo agricolo è un sistema sociale. È definito da un siste- ma podologico, cumulativo, comprende il sistema agronomico, ma usa determinate relazioni sociali che in- cidono in maniera diretta sulla funzione e sulla riproduzione del suolo, ovvero su quella che si chiama ferti- lità del suolo. Non sto parlando di agronomia ma di sociologia, perché anche la fertilità è un prodotto socia- le. C’è quella che chiamerei fertilità tattica e c’è la fertilità strategica. La fertilità tattica è quella che richie- de al suolo il massimo possibile nel minor tempo possibile (questo è un concetto economico, il concetto di produttività). La definizione strategica è quella che mira soprattutto alla riproduzione, alla conservazione, al- la trasmissione della fertilità. La modernizzazione dell’agricoltura, la meccanizzazione dell’agricoltura, la chimicizzazione, se così possiamo dire, rientra nel primo tipo di fertilità, fertilità tattica. Tant’è che il suolo ha perso ogni rapporto con la sua consistenza naturale e sociale, è divenuto un puro bene di mercato. Si può in- vestire nel suolo finché rende, questo non da molto tempo, ma oggi in maniera assolutamente eclatante nel- l’ambito del mercato internazionale; spesso si trasferisce il capitale dalla terra in altre attività e da altre at- tività alla finanza. La grande azienda, l’azienda monoculturale e il comparto agroalimentare, hanno questo tipo di ottica, questo tipo di “cultura” della terra, propria di una struttura aziendale che non è quella conta- dina. È una struttura d’impresa che ha come finalità quella del profitto, una razionalità puramente economica, nel senso dell’economia di mercato. La fertilità implica un altro tipo di rapporti sociali. Implica la figura del contadino, dell’azienda familiare, indica un rapporto con il suolo, con la terra e con la fertilità inteso come patrimonio da conservare, trasmettere. Queste definizioni generali ci aiutano ad inquadrare quello che pos- siamo intendere per cultura contadina.

Queste nuove figure di contadino, avendo attività e pratiche differenti, possono avere sub-culture differen- ti, ma possono mettere in luce ciò che li unisce. E questo è un punto di vista che, potremmo dire, si costitui- sce come sub-cultura di un movimento sociale che ha maturato e sta maturando una diversa visione del mon- do. In che senso? Una diversa visione del rapporto tra essere umano e ciò che lo circonda, cioè l’ambiente. L’ambiente non è solo l’ambiente naturale, ma è anche l’ambiente trasformato e, soprattutto, è ciò che noi percepiamo e definiamo come tale. Io ritengo che la natura in sé non esista, esiste nella misura in cui viene definita, e noi come esseri umani la definiamo sulla base delle nostre percezioni, dei nostri valori della no- stra visione del mondo, dei nostri sensi, del nostro corpo, della nostra identità biologica. Ad esempio noi ve- diamo colori che altri esseri viventi non vedono, altri esseri viventi vedono colori che noi non vediamo, per- cepiamo soltanto alcuni odori, altri ne percepiscono diversi; percepiamo alcune onde magnetiche che altri non percepiscono, pertanto non siamo sicuri che la natura sia quello che noi vediamo. Quindi capiamo che an- che la natura è una questione di cultura; credo che allora possiamo attribuire a quella che oggi andiamo a definire come cultura contadina, una visione del mondo che mette in discussione un rapporto del tutto stru- mentale e di dominio nei confronti della realtà e che invece propone un altro tipo di relazione, una relazio- ne che Davide Biolghini definirebbe di tipo sistemico, in cui ogni variabile è collegata alle altre in cui il disa- stro di una variabile si riflette su tutte le altre. Dobbiamo soprattutto guardare non tanto all’ideologia, quan- to alle pratiche, perché dalle pratiche emerge perfettamente questo tipo di rapporto. È un tipo di rapporto che non riguarda più soltanto la produzione di cibo o di materia prima derivata dall’agricoltura, ma è un tipo di rapporto che oggi si allarga. Ci sono diverse figure contadine, da un lato sono il prodotto di movimenti so- ciali eterogenei, spesso però accomunati da una cultura di tipo ambientalista, quindi abbiamo fattori con- nessi alla crisi economica, alla ineguale distribuzione del reddito, e, dall’altro abbiamo fattori connessi a un’altra crisi estremamente grave che spesso rimuoviamo che è quella ambientale. Infine ci sono altri aspet- ti che riguardano questa visione del mondo che tende a recuperare il valore delle relazioni interpersonali, il valore del legame sociale, il valore di un’identità non omologata ma che è connessa a un luogo, che ha una relazione con ciò che ci circonda, che finisce per costituire la nostra identità e quindi da questo punto di vista possiamo parlare di nuove funzioni dell’agricoltura e di una nuova cultura che sostiene queste nuove funzioni. Queste nuove funzioni, non sono più soltanto quella “produttiva”, anche se la funzione produttiva acquista un’enorme importanza in relazione a una qualità del cibo. Qualità che, in ogni caso, non deriva soltanto del- la normativa europea che impone determinati standard che poi finiscono per distruggere l’essenza della qua- lità che è estesa nella diversità. Un prodotto ha un’elevata qualità perché è unico, perché spesso si produce in modi particolari e in piccole quantità. Da questo punto di vista spesso le norme cancellano questo tipo di diversità. Mentre invece c’è una forte domanda anche da parte del mercato e dei nuovi consumatori, che di- ventano sempre più consumatori attenti di prodotti che rispettano proprio la diversità dell’origine, la carat- teristica tradizionale, etc.

Quindi, da un lato, c’è questo aspetto ancora connesso al mercato ed estremamente importante che coinvol- ge un altro aspetto, che riguarda la relazione tra produttore e consumatore, il rapporto di fiducia che si sta- bilisce tra chi produce e chi consuma che può creare una sorta di domanda sociale rispetto all’insoddisfazio-

ne di un mercato anonimo, di un mercato in cui le funzioni prevalgono sugli individui. La relazione “faccia a faccia” con il produttore è un’altra delle domande sociali che emerge proprio rispetto a quella che possia- mo definire la crisi del legame sociale. Poi c’è un’altra questione di estrema importanza che riguarda il rap- porto che c’è tra mercato e ambiente. Su questo non mi dilungo, molte cose son già state dette. Il mercato, così com’è organizzato, e in generale l’economia formale, ha finito per entrare in contraddizione e distrug- gere l’ambiente. È molto difficile coniugare questi tre pilastri dello sviluppo sostenibile: economia, società e ambiente. Il vertice di questo triangolo è sempre l’economia. La domanda che emerge sia da parte della so- cietà, dei movimenti culturali e dall’altro dalle pratiche accennate, è una domanda che rovescia questo trian- golo e pone, non solo al vertice del triangolo, ma su un piano orizzontale della relazione tra società e am- biente, l’economia ridefinendola come strumento che questa relazione tra società e ambiente dovrebbe con- trollare. Qui c’entra quella che viene chiamata filiera corta o catena breve, perché non si tratta solo di un rap- porto produttore-consumatore che ricostituisce l’identità del luogo, ricostituisce la fiducia nei confronti del produttore, ma si tratta di accorciare questa filiera perché è la più inquinante e più distruttiva in termini di effetto serra, implica grossi dispendi energetici, implica emissioni di CO2. Un prodotto trova il suo suolo in Ita- lia, viene trasformato in Cina, poi ritorna al consumatore italiano. In tutto questo tragitto è incredibilmente elevata la quantità di emissioni e l’inquinamento che viene provocato. La filiera corta è estremamente im- portante da questo punto di vista. Sono molti gli aspetti che questo comprende e poi vi sono altri aspetti con- nessi ai primi che riguardano soprattutto questa visione del mondo: insieme di pratiche e valori che durano, che guidano la definizione della società stessa, dell’ambiente e dell’individuo, la costruzione della propria identità. Per affrontare questo tema occorre uscire da un’ottica settoriale, da un contesto puramente agrico- lo, perché il contesto delle nuove pratiche agricole non è più un contesto isolato, anche se si è ridotto nume- ricamente, ma è un contesto dilatato che intrattiene rapporti con ogni altro settore e diviene centrale dal punto di vista della visione del mondo. Infatti, le strategie, le pratiche più consapevoli cui ieri si è accenna- to, si scontrano con il mercato, con la tecnologia, con le regolazioni statali, con le regole stabilite dal sistema istituzionale. Potremmo parlare insomma di contro-cultura contadina, rispetto alla cultura dominante, non col significato sociologico che viene dato, ma come cultura che propone un’altra società, non solo un’altra agri- coltura, che propone un altro modo di consumare, di relazionarsi con gli altri, un altro tipo di rapporti sociali di produzione. Potremmo parlare di strategie contadine di tipo antiutilitariste, termine utilizzato da La Tou- che e da un movimento che oggi pone il tema dello sviluppo in termini di decrescita e non in termini di cre- scita continua che ha prodotto enormi ricchezze da un lato e povertà dall’altro, che ha prodotto crisi am- bientali ed enormi cumuli di rifiuti che non sappiamo più dove mettere. L’individuazione del responsabile che ha rotto una relazione con la riproducibilità delle risorse e che ci presenta un futuro davvero fosco sotto tutti i punti di vista. Potremmo parlare di razionalità sostanziale (in termini Weberiani); mercato, tecnologie, politica, gli stessi sussidi, non sono intesi dalle figure del nuovo universo contadino come fattori strutturali. È in base al mercato che io definisco la mia identità di produttore. Queste concezioni sono invece utilizzati di- screzionalmente in base, non soltanto alle proprie esigenze, ma proprio in base a principi etici, di solidarietà sociale, a principi che non sono quelli tipici della concorrenza, competizione di mercato. Intendo dire un’ul-

tima cosa: parlavo prima di culture come insieme di fattori da un lato resistenti che durano nel tempo e dal- l’altro che invece cambiano. È diversa la cultura di oggi con quella di ieri, quando i contadini erano ancora una maggioranza nell’universo agricolo. In realtà poi non sono una minoranza neanche oggi. Anche le azien- de piccolissime hanno una funzione che non è soltanto di sussistenza. Il cambiamento riguarda il rapporto con la tradizione. In senso proprio, la tradizione non si discute. Il termine significa trasmissione; trasmissione di valori, di cultura, di pratiche, di modelli. E nella misura in cui la tradizione si discute, paradossalmente non esiste più, non è più tradizione. Il processo di individualizzazione ci rende molto più soli ma ci libera da al- tri obblighi sociali come per esempio il ruolo della donna. Il ruolo della donna che nella tradizione era un ruo- lo subordinato, oggettivamente non è più accettato come tale. Da un lato troviamo la gerontocrazia, la figura dell’autorità, le gerarchie dall’altro troviamo invece delle relazioni che mettono tutti sullo stesso piano in maniera più discorsiva, più dinamica. Questi sono gli aspetti positivi della modernità che sono all’interno an- che della cultura contadina che riflette sulla tradizione, sulle pratiche; che riflette sulle colture più che sulle culture, che cerca di depurare determinate pratiche da determinati aspetti che non vengono più accettati dal punto di vista sociale e culturale. Anche qui si tratta di un movimento diversificato che tuttavia recupera dal passato alcuni elementi in maniera riflessiva e li ripropone in maniera innovativa. In fin dei conti la stessa agricoltura biologica si rifà a determinate tradizioni. Tradizioni che c’erano, perché non si fa tanto riferi- mento alla mancanza di strumenti ma si fa riferimento a determinati saperi concreti, derivanti dall’espe- rienza e non saperi adunati in universi fisici. Il nostro sapere universitario è il più aperto possibile e forse sia- mo un po’ devianti rispetto ad altri istituti che invece rispondono della produzione di strumenti, di tecniche e non alla richiesta di una relazione positiva, equilibrata e diversa con il mondo degli altri e con l’ambiente, ma rispondono invece alle esigenze di produttività nella misura in cui queste vengono da poteri forti, da re- ticoli imperiali (come li chiamava Van der Ploeg). I due interventi che seguiranno mettono in luce funzioni di- verse del rapporto con il suolo e quindi dell’agricoltura, che hanno come riferimento la figura del contadino, ma che non necessariamente son pratiche di contadini. Da queste pratiche emergono non solo aspetti di mer- cato, aspetti sociali, emergono aspetti che riguardano una pacificazione non con la natura ma anche con il mondo: “Gli orti della pace”, la funzione educativa del rapporto con la terra, con il suolo. Emergono anche elementi che riguardano la nostra estetica del mondo, perché da una nuova relazione con l’ambiente emer- ge una nuova/antica sensibilità, il modo di guardare a ciò che ci circonda, che sfiora aspetti del sacro, la stessa espressione artistica ha sempre avuto attinenza con una concezione del sacro. Vedremo come per esempio la coltura dell’ulivo diventa cultura dell’ulivo e diventa anche estetica dell’ulivo in quanto dà pro- dotti di tipo estetico, puramente artistico. Ecco, è estremamente complicato definire una coltura legata a que- ste nuove pratiche che emergono dall’agricoltura, quello che c’è sotto, quello che emerge è una visione del mondo molto più pacificatrice, benefica, dal punto di vista sociale e che è probabilmente l’alternativa rispetto alle crisi incombenti, quella finanziaria, ambientale, energetica.

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