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SITUAZIONE ATTUALE E PROSPETTIVE FUTURE

DI D AVIDE B IOLGHIN

Ringrazio innanzitutto chi mi ha invitato e dico subito che sono un esponente concreto di quanto Van der Ploeg diceva all’inizio riguardo le ricadute sul terreno delle relazioni sociali connesse alla differenziazione e alla pluriattività. Come consumatore responsabile, sono entrato in relazione con una delle aziende citate e tra- mite questo rapporto mi sono reso conto di cosa significhi nuovi contadini, nuova agricoltura, rinnovamento dell’agricoltura e per alcuni versi sono espressione di questa differenziazione anche sul terreno disciplinare. Io sono, lo dicevo anche a Francesco Di Iacovo, nuovo rispetto a questo cenacolo. Dal punto di vista discipli- nare sono un fisico cibernetico che fa ricerca sulle reti da un punto di vista anche della teoria tra le varie re- ti. Però sono tutti elementi che ho ritrovato negli interventi e nelle ricerche che sono state illustrate. Un’ulti- ma osservazione rispetto alle precedenti relazioni: i risultati illustrati nel precedente intervento sono stati ot- tenuti anche nelle nostre ricerche più empiriche, più primitive, all’interno del contesto in cui sono state rea- lizzate, che è quello delle Economie solidali.

Il contesto in cui abbiamo svolto la nostra ricerca, l’ambito in cui abbiamo potuto condurre le osservazioni ha prodotto un lavoro che già di per sé ha permesso di ampliare il rapporto e il confronto con gruppi disciplinari e interdisciplinari. Si tratta di un progetto di ricerca e di sperimentazione che si chiama “Nuovi stili di vita” iniziato nel 2004, con l’obiettivo di verificare quali sono le condizioni, i metodi, gli strumenti, le politiche pubbliche che possono facilitare lo sviluppo di Reti di Economie solidale.

L’Economia Solidale è il settore dell’economia che si è sviluppato soprattutto a partire dagli anni ’80 in rapporto con il commercio Equo-Solidale, con la finanza etica, con il consumo critico (i gruppi di acquisto solidale), con il cosiddetto turismo responsabile. Tutte esperienze che sono sicuramente in rete “verticale” e che noi, trami- te un progetto che si chiama Distretti di Economie solidale vogliamo mettere in rete anche a livello “orizzon- tale”. L’ambito territoriale in cui si è sviluppato il nostro Progetto è la Lombardia. I partners promotori sono: Banca Popolare Etica; MAC 2, che è una cooperativa che si occupa di microcredito; CASH, che si occupa di as- sicurazione etica; Rete del Nuovo Municipio; una struttura di agenzia di sviluppo della provincia di Milano che si chiama Milano-Metropoli e noi come partner di ricerca, cooperazione e tecnologia. Oltre a questi prime- partners ci sono una serie di altri partners di rete: Reti locali di economia solidale e pubbliche amministrazio- ni, come la Provincia, fino ad alcuni comuni caratterizzati dal fatto che appartengono alla Rete del Nuovo Mu- nicipio. Lo sviluppo del progetto è abbastanza tradizionale. Il tentativo era quello di individuare dei modelli che potessero essere condivisi da questi soggetti per quanto riguarda la costruzione delle proprie reti, i servizi di supporto, i processi di trasformazione del territorio in cui intervengono tramite l’individuazione anche di indi- catori di qualità della vita, di benessere. Qualità, quindi, non legata al prodotto interno lordo.

Poi abbiamo fatto un’interessante esperienza di formazione, li abbiamo chiamati animatori di reti di econo- mia socio-solidale perché abbiamo compreso che questi processi legati alle interconnessioni che prima sono

state citate richiedono presidio, capacità di far tesoro dell’esperienza, crescita di competenze specifiche e ri- teniamo che questa figura, interna a queste reti (abbiamo formato non degli esperti esterni che riflettono sul- le reti, ma un membro delle reti esistenti affinché potessero gestire meglio le relazioni e i servizi necessari per far crescere queste stesse reti); e poi c’è stato un lungo periodo di sperimentazione sulle ipotesi emerse nella fase precedente di analisi, indagine e di ricerca-azione. Cosa fanno in genere questi distretti locali di eco- nomia solidale? Si costruiscono dal basso con processi bottom-up attorno a principi condivisi, a valori. Il se- condo passo è quasi sempre quello di mappare tutte le reti esistenti sul proprio territorio che possono far ri- ferimento a progetti come quello del distretto di economia solidale. Viene estesa una carta dei criteri e dei principi e poi si da vita alla prima iniziativa comune che cerca di render visibile il progetto e rafforzare le re- lazioni di rete tra i soggetti partecipanti, metterli direttamente in contatto con i consumatori: la fiera. Un esempio di fiera dell’economia solidale è “Terra Futura” a Firenze, diventata molto importante e ragguar- devole anche rapportata al numero di partecipanti. Se ne fanno altre anche a livello locale.

Poi cominciano i problemi perché dopo aver fatto questi passi il distretto si misura con le altre reti per il pro- cesso che prima è stato descritto di allargamento, di relazioni, interconnessioni, si misura con le pubbliche am- ministrazioni. I primi passi nelle esperienze: in questo libro5definisco una trentina di questi progetti a livel- lo nazionale, dal trentino fino alla Sicilia (tutti processi che nascono dal basso senza il rapporto con gli Enti Pubblici salvo alcune esperienze), di cui la più importante è quella della Città dell’altra economia di Roma che nasce da un progetto del Comune, e, rispetto alla classificazione che è stata fatta anche prima, è uno dei po- chissimi progetti di questo tipo all’interno di un contesto che nasce direttamente dall’alto in rapporto con la pubblica Amministrazione. Però, la caratteristica più importante di questi interventi è il tentativo di cambia- re i flussi economici, le relazioni economiche tra produttori e consumatori a partire da alcune tipologie di progetto. Esse sono, da un lato le filiere corte e quindi il rendere la filiera rispetto ai territori d’intervento la più corta possibile dal punto di vista sia delle distanze messe in gioco ma anche degli attori che vengono coinvolti; poi ci sono progetti di sensibilizzazione dei consumatori, il più importante dei quali è stato fatto a Venezia e si chiamava “cambieresti”, promosso dal Comune di Venezia. Ci sono state anche tante altre ini- ziative in altri territori: i mercati contadini, i mercati solidali, i piccoli mercati territoriali e poi ci sono altre esperienze che tendono a declinare nel filo diretto tra produttori e consumatori con iniziative specifiche. C’è un’ultima colonna che è quella dei fatti pubblici; perché? (figura 1)

Perché una delle ipotesi su cui si misura l’intervento di questi distretti (adesso io ne parlo sia come ricerca- tore, ma anche come partecipante appassionato) è quello di creare zone di economia liberata, alternativa, rispetto a quella dominante che naturalmente sul piano territoriale fa i conti con altre iniziative dello stesso segno. Prima sono stati citati i movimenti per i beni comuni, quindi con altri spazi pubblici. Pertanto, una delle scommesse su cui si gioca il futuro è a mio parere, la capacità di condividere questi spazi pubblici con gli altri attori che hanno a cuore il futuro sostenibile dei propri territori.

Io li chiamo i “sistemi territoriali socialmente responsabili” perché li ritengo uno dei modi per articolare sul piano territoriale le cose che sono state dette riguardo le Fattorie Sociali fino a tutti gli altri elementi che esi- stono nei singoli territori e che si propongono di cambiare in senso responsabile il proprio territorio. Uno de- gli obbiettivi è appunto quello di mettere in rete queste esperienze, altrimenti ognuna con maggiore fatica cerca di rendersi autorevole e visibile e non valorizza esperienze analoghe e soprattutto non inaugura, così, circuiti virtuosi che sono quelli che poi riescono realmente a creare connessioni per la trasformazione dei sin- goli territori. Questo è un tentativo in corso. Naturalmente bisogna mettere insieme sia le iniziative promos- se dai distretti, sia quelle di altri attori locali, sia naturalmente quelle virtuose delle pubbliche amministrazioni. Quali sono le ipotesi che sono emerse? Le ipotesi che sono emerse da questo progetto sono:

• La formazione di operatori di rete deve riguardare anche la pubblica amministrazione, che si occupa di Governance (parola forse ambigua) e del coordinamento di tutti gli attori, non soltanto gli stakeholders ma anche i rightholders, ossia i portatori di diritti, esistenti sui singoli territori. Bisogna che la pubblica ammi- nistrazione nel nostro paese sia in grado di formare figure che siano in grado di gestire questi processi. • Necessità di interventi specifici di sensibilizzazione dei cittadini al consumo responsabile. Non possiamo

mettere in rete solo i produttori, è necessario che rispetto a questo processo ci sia anche una qualificazione della domanda, sia perché questo permette, tramite processi aggregativi, di rendere l’offerta autonoma capace di auto-sostenersi e di non dipendere dai vari complessi industriali e finanziari, ma anche perché

la qualificazione della domanda permette di qualificare l’offerta. Noi ci siamo confrontati con l’econo- mia Sociale proprio su questo tema. L’economia sociale dice: “Noi produciamo queste cose e adesso dob- biamo vendere”. Noi abbiamo detto: “No, non si può fare questo tipo di proposta tradizionale, importante è capire quali sono i bisogni soggiacenti e reali dei consumatori e su questa base cambiare le proprie mo- dalità di produrre e, quindi anche i propri prodotti”.

• Coinvolgimento della pubblica amministrazione, non solo come supporter e sostenitore esterno, ma come protagonista di un processo di trasformazione, quindi come acquirente; voi sapete che la pubblica am- ministrazione acquista il 20% dell’insieme dei prodotti a livello nazionale tramite i “social green public pro- curement” e tramite tutti gli interventi volti a far si che essa diventi direttamente attore e parte in causa del processo di qualificazione dell’offerta. Noi ci stiamo anche misurando con i problemi della distribu- zione. Perché c’è produzione, consumo, ma c’è anche un elemento della catena che è quello della logistica. Noi vorremmo che fosse socio-solidale e, quindi, ci stiamo ponendo il problema delcome rendere socio- solidale la distribuzione. Stiamo parlando di piccola distribuzione organizzata contrapposta naturalmen- te alla grande distribuzione organizzata. Ci vogliono poi le infrastrutture di reti perché è vero che le reti tra le persone e l’economia delle relazioni hanno bisogno di supporti di tipo info-telematico. Un altro ele- mento che noi stiamo verificando concretamente è che per differenziare, per mantenere coerenza tra va- lori e pratiche, è importante caratterizzare queste relazioni non solo sul terreno economico, ma anche su quello non monetario, ossia sul versante della reciprocità perché è uno scambio di conoscenze non mo- netizzata che permette ad una comunità sul territorio di crescere come ricordava il primo intervento an- che dal punto di vista dei mestieri, delle professionalità. I distretti industriali nel nostro paese sono cre- sciuti perché esistevano comunità di pratica che non erano collegate alle singole imprese solo da un rap- porto economico, ma che si ritrovavano e permettevano, tramite scambi basati sulla reciprocità, di far crescere le conoscenze sui terreni specifici di ogni filiera, indipendentemente da ogni intervento in que- sto senso; questo processo non è stato mai così chiaro e oggi i distretti sono in crisi forse anche per que- sto. (figura 2)

Infine, le filiere corte, la nuova agricoltura. Bene su questo vi faccio vedere un progetto che è stato realiz- zato all’interno di “Nuovi stili di vita” dal distretto della Brianza che si chiama “spiga e madia”, promozio- ne di un progetto di resistenza alimentare partecipata. È un progetto iniziato nel 2006 a partire da una se- rie di riferimenti importanti sul piano culturale, ideale. Si fa riferimento alla sovranità alimentare, alla ca- pacità dei singoli paesi di definire da soli le proprie politiche sull’agricoltura, alla dichiarazione fatta a Roma, nel controvertice FAO del 2002, e mi sembra che questo sia un elemento interessante. Il progetto natural- mente è stato gestito a partire dalle competenze esistenti in questo distretto quindi valorizzando i mestieri e le conoscenze dei partecipanti. La struttura a mio parere è interessante perché questo progetto è stato fatto non da professionisti, non sulla base di un intervento finanziato, ma sulla base di un rapporto di comunità di pratica ai fini di scambi di conoscenze: sono stati analizzati il contesto, la politica dell’Unione Europea, i rap- porti con la biodiversità.

Gli scenari possibili in cui inserire l’intervento sono stati definiti stabilendo degli obiettivi collegabili dal pun- to di vista dei valori a quelli che caratterizzano il distretto: economia delle relazioni e sostenibilità solidale. L’ambito di intervento di questo progetto è legato ad un’area della Lombardia nord occidentale intorno a Monza-Milano, un’area di 50 Km (uno dei criteri utilizzati per definire quello che è realmente progetto lo- cale). Sono state analizzate una serie di esperienze di catena del valore della produzione agricola quindi il peso che ha la distribuzione per la determinazione del prezzo finale del prodotto. Poi si è parlato di catena logistica, com’è caratterizzata e quali sono i diversi componenti della catena dalla produzione al consuma- tore, quindi il passaggio negli ultimi anni dalla mediazione del grossista a quelle delle grandi centrali distri- butive che forniscono i punti vendita e che sono diventate il complesso del settore agroalimentare che de- termina tutto, anche i prezzi alla fonte e i prezzi al consumo. E qui c’è tutto il processo che è stato gestito al- l’interno del distretto della Brianza, quindi il modello del Grand Market e della Val Mar è quello per cui 1 kg di mele costa al consumatore finale 1 dollaro, di cui 7 centesimi vanno ai contadini che le producono ed il 68% va alla Val Mar che gestisce la parte centrale del grande anello della distribuzione organizzata. Qual è l’o- biettivo? Ridurre il numero di passaggi tra produzione e consumo. Aumentare l’incremento di valore ad ogni passaggio in particolare per chi produce il grano come vedremo e mirare ad un modello di produzione che permetta di impostare quantità senza subire tutte le altalene del prezzo legate al mercato cosiddetto globa-

lizzato, promuovendo la nascita di canali non convenzionali di rete. Naturalmente produrre mantenendo ri- ferimenti etici e massimizzando anche i valori intangibili. Qui è stata proposta una nuova catena logistica, dal- la produzione al consumo; cioè quella parte centrale su cui stiamo lavorando, dal grossista al punto di ven- dita, legato a modelli di piccola distribuzione organizzata su cui si sta cercando di dare un’esperienza concreta, e qui naturalmente il riferimento ai mercati contadini, come quelli della Liguria, è stato riproposto. Quindi il quadro di riferimento sono i famosi 50 km in cui dovevano avvenire tutti i passaggi, la produzione delle materie prime, la trasformazione artigianale ed il passaggio al consumatore, in una zona, quella del- la Brianza, in cui non c’è più agricoltura perché essendo il nord dell’area metropolitana milanese, l’urbaniz- zazione violenta ha trasformato tutto il contesto, non solo paesaggistico. Gli attori sono due cooperative so- ciali che hanno preso in carico la parte di produzione, di semina della granella, di raccolta e trasformazione in farina; un proprietario terriero, e, una cosa importante su cui faccio un’ultima considerazione, perché mi sembra che siano gli elementi che confermano alcuni assunti di questo convegno; la rete dei gas. Perché la rete dei gas? Perché i gruppi di acquisto solidale, le famiglie di questa retina (sono una ventina i gas di que- sta zona, quasi uno per ogni comune della Brianza), sono quelli che hanno garantito l’insieme del processo, in quanto, a partire dalla definizione di costi possibili e dalla negoziazione con chi ha poi piantato il grano, raccolto etc., hanno garantito ai primi elementi della catena la possibilità di avere una giusta remunerazio- ne del lavoro che è stato fatto. Sostanzialmente hanno anticipato sulla base di un impegno, di un patto di- retto con i produttori il pagamento del pane che sarebbe arrivato un anno dopo. Hanno quindi garantito al produttore che ci sarebbe stato una certa quantità di pane acquistato e quindi tutto il processo è potuto par- tire. Inizialmente con un finanziamento del 10% di tutto il costo complessivo che era stato anch’esso calco- lato. Tutto questo è iniziato nel 2006, il pane è stato venduto nel 2007 dopo appunto tutto il ciclo contadino e adesso per la prossima semina si sta parlando di un finanziamento pieno. Questo ha permesso di avere un costo finale del pane di euro 2.70 al kg garantendo tutta una serie di elementi che fanno parte dei valori pro- posti dall’economia delle relazioni a partire da un impegno assunto dai gas, per verificare quanti chili di pa- ne ogni gas poteva acquistare. Con un calcolo dei costi di investimento sostanzialmente il costo finale si è abbassato del 30% perché è stata eliminata la distribuzione. Da questo progetto ne sono nati altri basati sempre su patti analoghi: uno di questi riguarda l’acquisto di servizi Telecom da una cooperativa sociale che si chiama Lycon, invece che dalle multinazionali che governano il mercato. Nel patto in questione dimenticavo di dire che c’è anche un fondo di solidarietà e sviluppo cioè sia chi vende che chi acquista destina l’1% del va- lore scambiato ad un fondo di solidarietà che dovrà servire per eventuali problemi nell’arco della produzio- ne/distribuzione o per finanziare altre iniziative. I fattori più importanti di questa esperienza sono: la par- te finanziaria è stata affrontata estendendo le relazioni solidali al di là del consumo come parte finale della filiera, facendo si che i consumatori si facciano carico anche della produzione. Sul terreno della sostenibilità economica è stato fatto in modo che questa filiera potesse essere sostenibile dall’inizio alla fine e poi si so- no curate le parti ideali con questo patto solidale basato su un nuovo mutualismo, su relazioni che propon- gono un nuovo mutualismo ovviamente recuperando anche quando storicamente è successo nel nostro pae- se visto che su questo terreno non abbiamo da invidiare nessuno. Chi sia interessato a questa esperienza ri-

chieda pure riferimenti più precisi, stiamo fornendo materiali informativi agli organizzatori. Penso che la nuova agricoltura di cui si sta parlando oggi non sia un’agricoltura moderna. Questo modello della nuova agricoltura si basa anche su rapporti diversi con i consumatori e con la possibilità di contribuire alla trasfor- mazione del modo di fare agricoltura a partire da una responsabilità sociale diretta anche dai produttori su questo processo. Ed è assolutamente secondario che questo avvenga nel nostro paese dove, lo si diceva pri- ma di iniziare con Onorati, i contadini ci sono ed è inutile pensare che possano scomparire o trasformarsi in chissà quali imprenditori. Grazie.