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LE RETI DI SEMENTI CONTADINE, LA SELEZIONE PARTECIPATIVA E LA VALORIZZAZIONE DELLE VARIETÀ TRADIZIONAL

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Io sono Riccardo Bocci, attualmente lavoro per AIAB su un progetto di cui vi parlerò e che tratta delle situa- zioni sementiere in Europa. Io sono il coordinatore della Reti Semi Rurali, un’associazione che si è formata recentemente con 8 soci fondatori, che sono AIAB, Crocevia, associazioni di agricoltori localizzate in Veneto, Toscana, Liguria e Piemonte, il consorzio della Quarantina e Archeologia Arborea. Cercherò di illustrare il percorso che hanno fatto queste reti, sia quella italiana, sia quelle francese e spagnola in Europa sulla que- stione della biodiversità, e focalizzerò l’attenzione su alcuni punti direttamente connessi all’attività di queste reti. In Europa abbiamo una situazione molto particolare riguardo alla legislazione sementiera. Da un lato abbiamo un sistema legato a UPOV 91, un sistema di protezione dell’innovazione varietale, che si muove in direzione dell’eliminazione del privilegio dell’agricoltore (in Italia questo sistema non è stato nemmeno ri- conosciuto nella legge nazionale). Abbiamo, in sintesi, un sistema che rinforza la proprietà intellettuale in agricoltura, come avviene in tutti gli altri settori industriali. Questa è una tendenza molto forte in Europa che si ripercuote sull’intera legislazione sementiera e sull’innovazione varietale. Dall’altra parte, però, in Europa abbiamo una direttiva, la 98/95, sulle varietà da conservazione. Dieci anni fa Bruxelles ha inco- minciato a riconoscere il problema che stava scomparendo la biodiversità nei campi e quindi si è pensato di fare una direttiva per proteggere in maniera del tutto conservazionistica questa biodiversità, tanto che le varietà si chiamano “varietà da conservazione”, e queste varietà per legge possono essere solo quelle sog- gette all’erosione genetica.

L’UE aveva pensato di creare un apposito catalogo per queste varietà, che facesse capo ad un sistema legi- slativo a parte, diverso. Ad oggi questa direttiva ancora non è implementata, e ciò testimonia la difficoltà di costruire questi processi a livello europeo. Ci sono state inoltre tutta una serie di resistenze da parte dell’in- dustria sementiera, soprattutto francese e tedesca, mentre i paesi che avevano interessi affinché questa di- rettiva venisse implementata non hanno fatto abbastanza pressione a Bruxelles. Dall’altra parte, sempre in questo settore, abbiamo un piano d’azione per la biodiversità agricola elaborato dalla Commissione in cui di- cono proprio testualmente che: per avere una conservazione in sito, on farm, c’è bisogno di una legislazio- ne che permette di commercializzare i materiali genetici diversificati. Per cui il lavoro che si fa come rete in realtà non è così astratto, ma la normativa esistente va contro la conservazione on farm, quindi andrebbe mo- dificata.

Noi ci immaginiamo una UE molto moderna, dal punto di vista agricolo e da un punto di vista sementiero. Ci viene insegnato che i sistemi sementieri informali esistono soltanto al sud, in Africa, in America Latina, dove gli agricoltori fanno gli scambi, e da noi il mondo è completamente diverso. (figura 1)

Questa tabella fa vedere qual è la provenienza delle sementi in Europa. Vi sono sementi certificate. Semen- ti riprodotte in azienda – quindi il privilegio dell’agricoltore di cui si parlava prima, cioè gli agricoltori che ri- producono in azienda sementi protette e certificate.

Figura 1

Sulla destra quelle che per l’industria sementiera sono sementi riprodotte in maniera illegale. Si distinguono quindi agricoltori che hanno varietà locali, da agricoltori che si scambiano illegalmente sementi. Il quadro che emerge è che, innanzitutto, abbiamo ancora sementi illegali con una percentuale che varia a seconda della specie che consideriamo; poi la riproduzione in azienda è molto presente. In Francia, per esempio, il 42% dei cereali viene riprodotto in azienda, mentre in Italia, che sembrerebbe il paese dotato di più diversità, le per- centuali dell’industria sementiera ci descrivono come un paese moderno: il 90% del frumento duro è certifi- cato e soltanto il 10 viene riprodotto in azienda. Per cui, dal punto di vista di queste statistiche, siamo più mo- derni di tutti quegli altri. Ma la lettura che io faccio è che i nostri agricoltori sono riusciti a trovare strategie per sembrare moderni attraverso cartellini, certificati, etc., per comportarsi, poi, in maniera completamente diversa. Se andate nelle aziende trovate agricoltori che hanno varietà locali di cereali che seminano e ripro- ducono, ma sul cartellino che danno poi all’ente di certificazione c’è scritta un’altra cosa, in tal modo hanno trovato una strategia per riuscire ad avere un’integrazione conservando le loro varietà.

Il sistema europeo quindi non è così moderno, esistono una serie di produzioni informali di sementi come nei paesi del sud. Allora, in questo contesto, sono nate delle forme di aggregazione nuove e interessanti nel set- tore agricolo: queste sono le reti sulle sementi. In Spagna si chiama Reti Sulle Sementi, in Francia Rete Se-

menti Contadine, in Italia Reti Semi Rurali. Queste reti in realtà pongono tre problemi al modello agricolo do- minante: 1) una critica tecnica, quindi revisione, e qui introduco il concetto di varietà, che deve tradursi in for- me stabili, e il concetto di valore agronomico di varietà; 2) una critica politica, che quindi riguarda il sistema di proprietà intellettuale sulle sementi, un problema di legittimazione del sistema che stiamo incrementan- do; 3) infine, la critica scientifica, inerente il lavoro di queste reti legato sempre di più alla ricerca agricola, che si basa sulla consapevolezza che ci sono altri saperi in azienda e in agricoltura, che sono quelli degli agri- coltori, che hanno ugual diritto di quelli dei ricercatori e con cui deve esserci un confronto.

Queste esperienze hanno altre particolarità rispetto ad altri modelli aggregativi in agricoltura. Il primo punto è che associano (proprio perché la tematica biodiversità ha un interesse nella società civile) altri soggetti al di fuori dell’ambito agricolo, e hanno la capacità di rivolgersi non solo al mondo agricolo ma alla società civile, e quindi aggregano la società civile creando consenso. Inoltre, il numero di azioni che stanno compiendo, in- sieme al numero di aderenti, cresce proporzionalmente nel tempo, quindi prospettano – rispetto ai sindacati agricoli la cui rappresentanza sta diminuendo – un futuro di azione, hanno la capacità di comunicare al gran- de pubblico con più forza di quella dei sindacati agricoli, e possiedono la grande capacità di lavorare in rete. Se voi andate nei diversi paesi europei in cui queste reti stanno funzionando, nessuno vi dirà mai che il nostro lavoro si deve fermare in Francia, o ad un determinato ambito ma, al contrario, l’obiettivo è costruire un coor- dinamento europeo sulle sementi e, soprattutto da parte della rete francese, c’è una grande capacità di lavo- rare, perché essendo attiva da più tempo con altri paesi africani (per esempio i progetti di ricerca e di coope- razione con il Maghreb e con l’Africa occidentale) possiede più esperienza pratica ed è più motivata. Inoltre, da un punto di vista della comunicazione della scienza, questi soggetti diventano quelli che vengono definiti “attori ibridi”, cioè se la scienza si sta modificando, sta cambiando il rapporto con la società e si par- la di dover costruire gli spazi pubblici in cui rinegoziare “che cos’è scienza” e ricostruire tali rapporti; in agri- coltura questi soggetti hanno la capacità di parlare con gli scienziati e di costruire una ricerca diversa, senza essere né università, né accademia, né Stato. Pertanto vengono definiti “attori ibridi” per la capacità delle or- ganizzazioni non governative di costruire un sapere diverso rispetto alla ricerca ufficiale. Questo è una di- chiarazione fatta da un fisico francese molto attivo, Leblond, su questa partita tra scienza e società, e che se nel mondo generale della scienza ha tutta una serie di complicazioni. Queste teorie in agricoltura sono par- ticolarmente premianti, perché in fisica, in matematica in altri settori scientifici non ci sono i soggetti che noi studiamo. In agricoltura noi abbiamo i soggetti, cioè i contadini, che non possono essere messi da parte ri- spetto ad un processo di ricerca agricola, in quanto sono portatori di sapere, ci sono fisicamente, mentre ne- gli altri ambiti scientifici gli elementi che studiamo non ci chiedono conto. Allora, se questo è vero, bisogna modificare completamente il sistema di ricerca agricola, perché attualmente il sistema che abbiamo non fun- ziona per adattarsi a questi altri modelli agricoli. Questo è un po’ uno schema molto generale, ma mostra co- me è fatto il sistema attualmente: noi abbiamo una ricerca agricola più o meno internazionale, fatta dal si- stema del CGIAR (Consultative Group of International Agricultural Research), questo sistema vale soprattut- to nei paesi del sud del mondo però non è tanto diverso come idea dai paesi del nord. Quindi abbiamo quel- lo che viene definito il global knowledge che in qualche modo deve essere adattato a un contesto e poi adot-

tato dagli agricoltori. C’è una diversità molto grossa tra quello che è il global knowledge costituito dagli scien- ziati e il local knowledge degli agricoltori. La domanda fondamentale, cui in genere i sociologi rispondono, soprattutto nel sud, è questa: perché gli agricoltori non adottano la tecnologia? Alla fine di tutto questo pro- cesso costruito dalla ricerca agricola, gli agricoltori non la adottano, perché? I sociologi studiano questo, e cer- cano di rispondere dicendo: “Gli agricoltori sono stupidi, in genere sono ignoranti, bisogna spiegargli meglio l’importanza di queste varietà moderne, bisogna spiegargli che conviene utilizzarle, etc.”. Ma, in realtà, non capiscono che c’è un’altra logica, un’altra razionalità nel loro pensare l’innovazione, c’è una razionalità nel fatto che non l’adottano, ed è perché non gli conviene.

Tutto questo va in qualche modo ribaltato, va anche ripensato in una logica che sta distruggendo la ricerca agricola, anche il dibattito tra pubblico e privato. Diventa molto complicato fare queste modifiche quando la ricerca agricola sta diventando sempre più legata al privato e sempre più slegata dal pubblico in intenti di fi- nanziamenti, e questo è un problema che in qualche modo dovrà essere affrontato nel futuro. Sempre nel- l’ambito della scienza, vedete come la comunicazione in qualche modo era servita alla scienza all’interno della nostra società. Noi avevamo scienze e industria che producevano input attraverso l’assistenza tecnica, questi input dovevano arrivare agli agricoltori con un sistema di comunicazione condotto dall’informatore agrario, un tipo di comunicazione che dice cosa devi fare. L’agricoltore deve fare una serie di cose che ven- gono decise altrove, in questo meccanismo l’industria alimentare si comportava nello stesso modo nei con- fronti dei consumatori, magari mettendo in atto pratiche pubblicitarie attrattive ma ingannevoli, per au- mentare le vendite e l’acquisto da parte dei consumatori. L’emergenza di questi soggetti nuovi delle reti fa sì che la freccia si inverta, quindi gli agricoltori comunicano con la scienza e quindi invertono il meccanismo, e poi comunicano con i consumatori. Quindi tutto questo meccanismo di comunicazione che avevamo prima in qualche modo viene distorto e modificato.

I punti critici che come reti stiamo mettendo in luce sono:

• il rapporto tra ricerca e innovazione. Chi produce innovazione in ambito rurale?

• quale è la legislazione più adatta da un punto di vista sia della proprietà intellettuale e sia della legisla- zione sementiera per tutelare l’innovazione? La proprietà intellettuale non è una cosa naturale, nasce esclusivamente per tutelare i processi innovativi nella nostra società. Noi diamo monopoli a qualcuno per- ché ne riceviamo beneficio sociale. Ora, nel momento in cui l’innovazione non viene più prodotta, dob- biamo rivedere i meccanismi in cui tuteliamo queste innovazioni, perché se la proprietà intellettuale non serve più a quel fine perde l’utilità sociale, quindi è inutile portarla avanti se non acquista l’utilità socia- le che è alla base del suo principio istitutivo.

• lo scambio Nord-Sud. Gli agricoltori che fanno parte di queste reti e in qualche modo dimostrano che non esiste una dicotomia tra nord e sud, ma esistono dicotomie tra modelli agricoli, e quindi come esistono sud, ed esistono anche tanti nord, ci possono essere anzi delle consonanze molto forti tra questo modello agri- colo del nord e quelli del sud.

Nell’ambito di questo nuovo modello di ricerca assume, importanza un tipo di trasmissione del sapere che non è più verticale ma diventa orizzontale, come i ricercatori fanno i loro sistemi alla pari, e così via, è possibile

pensare ai sistemi di scambio dell’innovazione del sapere alla pari tra agricoltori, almeno nei paesi del sud dove è stato studiato. Qui lo scambio come si diceva prima diventa produttivo. Un professore dell’Università di Firenze, un genetista, invece di fare la classica lezione, va dall’agricoltore francese, e prende semi per la sua collezione di università; secondo me questo da un po’ l’idea del fatto che possiamo cambiare questi rap- porti tra ricercatori e agricoltori. L’esperienza francese negli anni è cominciata con la selezione partecipati- va del 2001, su alcune poche culture (mais, girasole, frumento), nel 2005 sono aumentate le culture, e nel 2006 ancora di più; quindi la selezione partecipativa in Francia sta diventando qualcosa che interessa sem- pre di più agricoltori e ricercatori.

Rispetto all’Italia, c’è stata una difficoltà in più, cioè queste varietà non c’erano. L’inizio del lavoro della re- te francese è partito da una situazione iniziale ristretta, 30-40 ettari, si trattava di una realtà basata su pra- tiche biologiche, non avevano le varietà che servivano, quindi sono andati a cercarle. Nei campi non c’era- no più, ma con la ricerca hanno aperto le banche La ricerca gli ha permesso di avere sementi che venivano dalle banche del seme francese. Questo lo stanno facendo un po’ con tutte le colture. In Italia è diverso, noi abbiamo ancora una base di varietà locali coltivate dagli agricoltori nelle aziende, quindi potremmo vera- mente fare un buon lavoro se la ricerca cominciasse ad occuparsi degli agricoltori e di queste tematiche. Non c’è bisogno di andare ad aprire le banche, anche se sarebbe interessante.

Infine, oltre che lavorare in rete a livello europeo (non so se è fortuna, o è grazie al sostegno soprattutto del- l’INRA, capofila di questo progetto), l’anno corso abbiamo vinto un bando dello stesso programma quadro, un bando specifico per fare ricerca finalizzata alle politiche, in cui abbiamo tutti i partner delle varie reti (quella francese, quella italiana, l’AIAB, quella spagnola, più alcuni siti di ricerca), la cui finalità è quella di proporre a Bruxelles una serie di normative che tengano conto di tutte queste realtà, che però non sono ab- bastanza visibili. Questa è la partnership del progetto europeo: abbiamo istituti, associazioni di agricoltori bio- logici delle varie reti sementi, e anche una buona rappresentanza tra nord e sud (ci sono olandesi, svizzeri ma anche spagnoli, italiani). Questo è molto importante, perché su queste tematiche non la pensiamo allo stesso modo, il dibattito che ne segue, a livello europeo, è molto forte. Ovviamente i soggetti coinvolti, pro- venienti da realtà differenti e distanti tra loro, hanno un altro modello agricolo diverso e su queste cose so- no più avanti rispetto a noi, anche dal punto di vista normativo, oltre che biologico.

Recentemente c’è stata una polemica legata alle sementi biologiche da utilizzare in Europa, e gli svizzeri, che fanno parte di questo progetto, hanno suggerito che le sementi biologiche devono essere certificate. Invece, quello che stiamo portando avanti come punto di vista del sud è il fatto che queste sementi devono essere adatte ai sistemi agricoli, non ci importa nulla che siano certificate o meno, è più importante che siano adat- te ai sistemi agricoli.