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3 Creatio ex nihilo: la novità radicale della tradizione giudaico-cristiana

3.7 Basilio, Gregorio di Nissa e Ambrogio

L’ingresso nel IV secolo, secolo in cui nasce anche Agostino, segna un ulteriore passo in avanti per quanto riguarda la riflessione cristiana sulla creazione. È in questo secolo, infatti, che fiorisce una serie considerevole di raffinati commentari aventi per tema l’esegesi degli insegnamenti scritturistici concernenti l’origine del cosmo. Se non si può dire che nasca in quest’epoca il genere letterario dell’“Esamerone”- il termine Hexaëmeron infatti è riconducibile a Filone, fatto che lascia trasparire come la letteratura cristiana si inserisca sulla scia di un ramo già codificato della letteratura giudaica123 -, è tuttavia fuor di dubbio che nel corso del IV secolo esso conosca in ambito cristiano una fioritura senza pari. Basti ricordare, tra le altre, le figure di Basilio di Cesarea, di Gregorio Nisseno e di Ambrogio di Milano.

Basilo (329-379) pronuncia le sue nove Omelie sull’Esamerone verosimilmente durante la settimana santa del suo ultimo anno di vita, il 378. Il tentativo messo in atto dal vescovo di Cesarea è quello di comprendere il testo delle Scritture, e precisamente il

121 Cfr. ivi II, 2, 2. 122 Cfr. ivi III, 5, 3. 123

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racconto delle origini contenuto nella Genesi, secondo il senso letterale, per evitare così di cadere negli errori insiti nelle letture allegoriche compiute da quegli esegeti che superbamente si ritennero più sapienti dei pronunciamenti dello Spirito Santo124. In quest’ottica deve essere compreso e creduto che Gen 1, 1 si riferisce alla effettiva creazione divina di tutte le cose a partire dal nulla.

Basilio nota come l’eccezionalità dell’azione creatrice non risieda unicamente nell’aver tratto dal nulla e ordinato la materia, ma anche nell’averlo fatto unicamente a partire da se stesso. Questa convinzione lo induce a opporsi nettamente al modello demiurgico e semi-creazionista di stampo platonico, come risulta evidente dall’analisi semantica del verbo ποιέω, associato in senso proprio all’autentica attività creatrice, e opposto rispettivamente alle forme verbali ενεργέω, che rimanda ad una produzione di tipo artigianale, e ὑφίστημι, che propriamente significa “modellare”, “foggiare” un dato materiale125.

Questa meticolosa attenzione nel non lasciare spazio alcuno a qualsivoglia visione dualistica o concezione che riduca la creazione ad un’azione ordinatrice esercitata su di un sostrato materiale esistente ab aeterno non poteva esimersi dal fare i conti con il luogo in questo senso forse più ambiguo e decisivo di tutte le Scritture, ossia Gen 1, 2. L’obiettivo di Basilio è dunque quello di dimostrare come la terra informe e deserta di cui parla Mosè non sia la materia increata teorizzata dalla tradizione platonica. Tale finalità viene da Basilio perseguita mediante un duplice ordine di considerazioni: innanzitutto, egli fonda la propria certezza riguardante la natura creata della materia sul fatto che quest’ultima è in sé priva di qualità, forma e bellezza. Una simile realtà, in quanto tale, non può possedere le medesime prerogative divine o costituire un principio increato accostabile allo statuto dell’essere di Dio. In un secondo momento, il vescovo di Cesarea adduce un’ulteriore ragione, in base alla quale appare legittimo considerare la materia come non esistente ab aeterno.

Questa ragione ulteriore rappresenta sostanzialmente una variazione della prima: se infatti si ammette che Dio abbia agito su di un sostrato materiale preesistente e a lui inferiore, bisogna al contempo vincolarne l’azione alla necessità di creare un prodotto ineguale e non consono alla sua dignità. Considerare eterna la materia di cui si compone il cosmo conduce dunque, secondo Basilio, all’assurda conseguenza di vincolare il Creatore a un’azione creatrice di carattere difettivo e necessitato126.

Basilio tratta dunque la delicata esegesi di Gen 1, 2 sgomberando il campo da ogni residuo di dualismo o di semi-creazionismo. Un altro importante nodo teologico sul quale egli insiste è rappresentato dal termine “ἀρχή” con cui esordiscono le Scritture: il quesito fondamentale che il vescovo di Cesarea non esita ad affrontare è precisamente quello riguardante il carattere temporale o intemporale che deve essere assegnato a tale

124

Cfr. Hom. Hex. IX, 1.

125

Cfr. ivi I, 8.

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vocabolo. In primo luogo, Basilio sostiene con nettezza che il mondo fisico è giunto all’essere nel tempo (ἀπό χρόνου), così come, nel tempo, esso conoscerà la corruzione (ἐν χρόνῳ)127. Ci si attenderebbe dunque che, all’affermazione del carattere temporale dell’origine del cosmo, facesse seguito l’attribuzione di uno statuto temporale anche alla creazione divina. Basilio tuttavia non si dimostra di quest’avviso: Dio infatti, in quanto sommo fattore dell’universo, non può ragionevolmente essere vincolato alla successione cronologica e al divenire, che notoriamente rappresentano forme di limitazione a cui solo le creature, nella loro esistenza terrena e derivata, sono soggette. In ossequio a questa duplice convinzione, il termine ἀρχή con cui si apre il libro della Genesi viene interpretato in riferimento all’inizio temporale del cosmo, inizio tuttavia che non riguarda l’esistenza della totalità degli esseri. Secondo Basilio, infatti, la creazione temporale delle realtà visibili di cui parlano le Scritture deve presupporre una creazione eterna delle entità spirituali e incorporee. Sulla scorta dell’influenza della tradizione platonica, inoltre, il vescovo di Cesarea sottolinea con forza che l’ἀρχή della successione temporale in cui si colloca l’esistenza degli esseri corporei possiede un carattere extra-temporale, così come il principio della strada, in quanto tale, si distingue da quest’ultima128.

Anche il fratello di Basilio, Gregorio di Nissa (335-395 ca.), fu un acuto commentatore del testo della Genesi e maturò, grazie alla propria riflessione, una serie di convincimenti speculativi di notevole importanza e originalità. Due sono le opere di Gregorio che rivelano la sua attenzione e la sua acutezza nell’affrontare la tematica della creazione. In occasione della Pasqua dell’anno 379, egli offre al fratello Pietro di Sebaste un testo, il “Περὶ κατασκευῆς ἀνθρόπου”, più conosciuto secondo il titolo latino De opificio hominis.

Tale testo si propone di essere la continuazione delle Omelie di Basilio e a più riprese prende in esame la sezione narrativa di Gen 1, 1-25. In seguito a una serie di ulteriori questioni sollevate dal fratello a cui l’opera era stata inviata, Gregorio compone nello stesso anno un breve trattato sul cui titolo la tradizione manoscritta si rivela incerta, forse a causa dell’esitazione dei lettori nell’interpretare la finalità propria del testo: convenzionalmente, ci si attiene alla formula più breve e più anticamente attestata, ossia “Ἐις τήν Ἑξαήμερον”, che in latino viene tradotta In Hexaemeron129.

Non potendo rendere conto della complessità delle riflessioni prodotte da Gregorio in rapporto al racconto della creazione, mi limito ad accennare ad alcuni sviluppi contenuti all’interno di questo secondo testo relativamente a una questione cruciale,

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Cfr. ivi I, 3.

128 Cfr. ivi I, 6.

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Per una discussione delle informazioni principali sull’opera, si veda J. Rousselet, Grégoire de Nysse, avocat de Moïse, in Principio, cit., pp. 95-113, dove l’autore (alle pp. 95-96) discute con acribia la questione della tradizione manoscritta relativa al titolo dell’opera e cerca al contempo di individuarne l’obiettivo principale. La lettura per cui si propende è che esso costituisca in chiave apologetica una sorta di defensio Moysis rivolta contro una serie di obiezioni sollevate da alcuni ambienti intellettuali, vicini al fratello Pietro di Sebaste, insoddisfatti della lettura del testo genesiaco fornita da Basilio.

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ossia l’esegesi di Gen 1, 2, che aveva impegnato anche Basilio. Tale scelta mi sembra giustificata, non solo tenendo conto dell’importanza di tale questione e dell’originalità con cui Gregorio si relaziona ad essa, ma anche per le evidenti affinità che avvicinano una simile problematica a quella che condurrà Agostino a ricorrere alla dottrina delle causales rationes.

Gregorio riconosce che tutti gli esseri creati da Dio sono essenzialmente “puri pensieri e puri concetti” (ἔννοιαι ψιλαί καὶ νοήματα)130. Ciò equivale a riconoscere che tutta la creazione è conosciuta da Dio dalle origini, ancor prima che essa fosse posta in essere, come per altro attesta la Scrittura in Dn 13, 42131. In questo senso la totalità delle qualità fisiche degli esseri avrebbe potuto essere generata istantaneamente in occasione dell’unico atto creativo, se tra tali qualità non vi fosse stata l’estensione, e precisamente l’estensione temporale (τὰ χρονικά διαστήματα)132.

Il concetto di διαστήμα costituisce “l’essere circoscritte in una dimensione finita che si muove verso un fine”133 da parte delle creature: all’infuori di Dio, al quale unicamente si addice l’attributo ὰδιάστατος, tutte le creature, materiali o spirituali che siano, non sfuggono all’essere inglobate nella dimensione del διαστήμα. Quest’ultima, proprio in virtù del carattere onnicomprensivo che possiede, risulta inerente alle più diverse realtà, ma secondo gradi di implicazione differenti: in questo senso, essa “funge da criterio di discriminazione tra le varie creature, coincidendo di fatto con il grado e il modo di essere che compete ad ogni creatura”134.

Gregorio deve quindi fondare adeguatamente la necessità dell’esistenza della successione cronologica, posta in essere secondo un atto intemporale ed eterno: la ragione originaria della manifestazione degli esseri nel tempo risiede per Gregorio in un atto creativo posto al di fuori del tempo. L’apparizione diacronica degli esseri viventi risiede a sua volta nella legge e nell’ordine che Dio inscrive nel corso della natura, affinché esso si riveli razionale e organizzato. I giorni della creazione dunque, sulla base dei quali il racconto della creazione redatto da Mosè è articolato, altro non sono secondo Gregorio che tappe successive della manifestazione e dell’ordinamento degli elementi a partire da un’azione eterna e simultanea operata da Dio secondo la propria natura135.

Proprio a quest’altezza, si inserisce la questione dell’esegesi di Gen 1, 2: a partire da questo luogo scritturistico, Gregorio intende dimostrare come lo stato iniziale del mondo comporti, necessariamente e in potenza, il dispiegamento dell’ordine futuro del cosmo. L’immagine della “terra invisibile e informe” (ἀόρατος καὶ ἀκατασκεύαστος) utilizzata da Mosè indica infatti, secondo Gregorio, che originariamente tutte le cose furono create in

130 Cfr. In Hex. 69 B. 131 Cfr. ivi 72 B. 132 Cfr. ivi 77 B.

133 Cfr. G. Ferro Garel, Gregorio di Nissa - L’esperienza mistica, il simbolismo, il progresso spirituale, Il leone verde, Torino 2004, p. 204.

134

Cfr. ivi, p. 205.

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potenza, che cioè in occasione dell’azione creatrice venne istituita una sorta di “potenza seminale” (σπερματική δύναμις) finalizzata alla nascita di tutti gli esseri, senza che però questi stessi esseri fossero posti in essere individualmente e attualmente136.

Se dunque tutte le singole qualità di ogni singolo essere futuro sono state fondate in origine, senza che per questo venissero al contempo a manifestarsi, dire che la terra era “invisibile e informe” equivale ad affermare che la materia al contempo “era e non era” (ἦν καὶ οὐχ ἦν)137. Gregorio, dunque, distingue, mosso in buona parte anche da alcuni dubbi che Pietro di Sebaste recava irrisolti dopo aver letto le Omelie di Basilio, tra l’atto creativo vero e proprio (ποιέιν) e un secondo momento nel quale gli esseri vengono compiutamente alla luce (κατασκευάζειν): quest’ultimo comprende, come detto, una prima manifestazione potenziale delle diverse qualità degli elementi e il loro dispiegamento definitivo. Probabilmente, la dottrina della presenza in potenza di tutti gli esseri nello stato iniziale del cosmo viene collegata a Gen 1, 2 da Gregorio in base ad una serie di dati esegetici contenuti nella riflessione di Basilio riguardante il termine “terra” che compare nel secondo versetto delle Scritture.

Gregorio però assume una posizione più radicale rispetto a quella del fratello, sostenendo che il termine terra veicola precisamente l’idea un substratum, di un ὑποκείμενον, sul quale vengono a depositarsi individualmente le qualità che contraddistinguono la totalità degli esseri. La riflessione di Gregorio rivela a questo punto un’ambiguità di fondo, poiché giustifica sia l’identificazione della terra con l’insieme ancora potenziale delle varie qualità, tra cui la più significativa si rivela quella del διαστήμα, sia l’equivalenza tra la terra e un substratum capace di accogliere le singole qualità, ma diverso in quanto tale da esse.

Senza addentrarsi in una questione di tale complessità138, mi accontento di fornire una considerazione d’insieme sul tenore degli sviluppi esegetici che Gregorio ha proposto nel tentativo di comprendere il significato più proprio di Gen 1, 2. Le sue riflessioni, infatti, possiedono un andamento molto complesso e legato a doppio filo con un ambito di pensiero più propriamente filosofico: il Nisseno, che intende difendere l’autorità del testo mosaico dinnanzi alle perplessità avanzate da un pubblico colto di lettori delle Omelie basiliane, si impegna in un’operazione di notevole spessore culturale. Nell’insieme della sua proposte esegetica, facendo attenzione a non farsi catturare dalle maglie troppo strette di alcuna scuola filosofica tradizionale, egli tenta di lasciar risplendere la luce dell’unicità del Dio creatore, concepito sotto una patina sulla quale traspaiono i riflessi della speculazione platonica, sfrondata dai rami secchi della mitologia demiurgica e opposta al materialismo proprio alla scuola stoica139.

136 Cfr. In Hex. 77 D.

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Cfr. ivi 80 A.

138

Cfr. Rousselet, Grégoire de Nysse, in In Principio cit., pp. 107-109.

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L’ultimo pensatore cristiano al quale faccio riferimento prima di dedicarmi all’esposizione dei tratti fondamentali della filosofia agostiniana della creazione è Ambrogio (339-40-397). Quasi sicuramente durante la settimana santa dell’anno 387, forse sotto gli occhi dello stesso Agostino, il vescovo di Milano pronunciò una serie di Omelie sull’Esamerone, aventi per tema il racconto biblico della creazione. Pur risentendo fortemente dell’influenza di Basilio, Ambrogio si differenzia profondamente da quest’ultimo ponendosi alla ricerca del significato allegorico, simbolico e profondo che pervade la narrazione mosaica delle origini del cosmo. Un primo bersaglio polemico contro il quale si scaglia la riflessione del vescovo di Milano è rappresentato dalla tradizionale teoria platonica della materia eterna e increata. Facendo leva sull’autorità delle Scritture, in modo particolare di quelle neotestamentarie, come dimostra l’impiego che viene fatto in questo senso di Gv 8, 25, Ambrogio sottolinea il ruolo di sommo creatore di tutte le cose, e della loro stessa materia, da parte di Dio. Con un intento analogo il termine ἀρχή che apre il racconto contenuto in Gen 1 viene identificato con il Verbum di cui in Gv 1, 3 si dice che “omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil, quod factum est”. Questa breve sequenza di citazioni scritturistiche costituisce per Ambrogio una formidabile triade opposta dalla rivelazione cristiana agli errori filosofici della cosmologia pagana. Il mondo ha bisogno di un cominciamento, come afferma la Scrittura, e questo significa che deve essere esistito un tempo in cui ancora esso non era: il cosmo è dunque coerentemente stato creato dal nulla140. L’espressione “In principio” possiede secondo il vescovo milanese tre distinti significati: essa può essere impiegato in chiave temporale, se ci si domanda quale sia il tempo in cui il cosmo fu creato: in chiave numerica, se ci si interroga sulle realtà create per prime: e, da ultimo ma nel suo significato principale, per veicolare l’idea del fundamentum dal quale tutte le cose hanno tratto origine e in cui tutte trovano sostentamento141.

Quest’ultimo valore semantico viene analizzato in riferimento a uno dei luoghi capitali dell’esegesi cristiana della Genesi, ossia Gen 1, 2. Lo stato originario di indeterminatezza in cui si trovava la terra viene interpretato come la testimonianza fornita da Mosè del fatto che l’azione creatrice divina abbia posto in essere a partire dal nulla tutte le realtà142. Alla triade di espressioni bibliche che Ambrogio considera determinanti nella formulazione della propria speculazione relativa alla creazione si aggiunge anche Rm 11, 36, dove l’Apostolo afferma: “ex ipso, et per ipsum, et in ipso sunt omnia”.

Ambrogio dedica a quest’ultima una profonda analisi, attraverso cui vengono assegnati alle tre preposizioni contenute nel versetto paolino altrettanti valori semantici distinti: la preposizione ex indica il materiale stesso della creazione, per rimanda all’operazione per mezzo della quale l’universo è unificato e reso armonioso, e in lascia

140 Cfr. Hexaem. I, 3. 9. 141 Cfr. ivi I, 4, 12. 142 Cfr. ivi I, 4, 16.

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trasparire il fine verso cui Dio dirige il corso di tutte le cose143. In questo senso, viene confermata e rafforzata la convinzione, già precedentemente espressa, che ogni realtà esistente deve in ultima istanza essere ricondotta, affinché la sua origine possa essere spiegata, al libero atto creatore divino avvenuto a partire dal nulla.