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Breve storia di Es 3, 14: dal Dio che Sarà al Dio che É

2 L’ente creato

3.2 Esse, aeternitas, immutabilitas

3.2.1 Breve storia di Es 3, 14: dal Dio che Sarà al Dio che É

L’originale espressione ebraica del testo dell’Esodo, che suona letteralmente «’èhyèh ’ashèr ’èhyèh» (הֶיְהֶא ר ֶשֲא הֶיְהֶא), pone tutt’ora e ha da sempre posto agli interpreti numerosi problemi di carattere ermeneutico178. Senza esaminare per intero la sua presenza all’interno dell’episodio convenzionalmente noto come del “roveto ardente”179, richiamo all’attenzione alcuni elementi riguardanti il significato di tale espressione Nemmeno quest’ultima si rivela essere un’operazione semplice, dal momento che i tre termini sopra citati possono essere raggruppati in maniera differente a seconda del significato che si conferisce alla particella ’ashèr.

L’ipotesi più accreditata è quella di attribuirle la funzione di predicato nella frase principale e di soggetto della subordinata relativa. In ebraico il verbo della relativa, nel caso possieda il medesimo soggetto del verbo della principale, mantiene la medesima persona di quest’ultimo. Questo carattere appare mantenuto nella versione latina ego sum qui sum attestata nella Vulgata, mentre la traduzione greca dei Settanta prova ad ovviare a questa particolarità grammaticale semitica sostituendo alla proposizione relativa un participio presente maschile180.

Ciò che mi preme sottolineare è invece il valore semantico che viene ad assumere il termine ’èhyèh: nella sua prima ricorrenza deve essere inteso nel senso “predicativo” di una dichiarazione d’identità, nella seconda invece in un significato “esistenziale”181. Proprio questo secondo ’èhyèh attira l’attenzione sul carattere dinamico della visione ebraica dell’“essere”, che andrà perduta nel corso del passaggio dell’eredità biblica nel mondo greco: mediante il ricorso al verbo hâyâh, che in ebraico non è mai usato come copula182, l’autore dell’Esodo vuole mettere l’accento sulla vocazione di Dio alla manifestazione, sulla sua presenza efficace nel momento decisivo della vicenda di Mosè183. Ecco perché sarebbe preferibile tradurre l’espressione che stiamo esaminando piuttosto che al presente, tempo verbale che lascia aperto uno spiraglio per un misconoscimento statico, al futuro: “Io sono-sarò colui che sarò”184.

178

Cfr. A. Caquot, Les énigmes d’un hémistiche biblique, in Dieu et l’être, cit., pp. 17-26.

179

Cfr. ivi, pp. 22-26.

180 Cfr. ivi, pp. 19-20.

181

Ivi, p. 20: «Elle définit le premier «je suis» comme «prédicatif», comme une déclaration d’identité, et le second comme «existentiel», comme l’énoncé par Dieu de sa propre existence».

182 H. Cazelles, Pour une exégèse de Ex. 3, 14, in Dieu et l’être, cit., pp. 27-44, p. 33: «Il a été déjà signalé que ce verbe en hébreu n’est jamais copule mais signifie une existence, une présence active».

183

Ibid.: «La réponse introduit le verbe hâyâh à l’imperfectif; ce «temps» implique en hébreu répétition et durée. La présence active de Dieu n’est pas transitoire, elle est durable quelque soit son mode et c’est cela qui peut inspirer confiance aux Israélites ou à lors Anciens».

184

Caquot, Les énigmes, in Dieu et l’être, cit., p. 20: «C’est à propos du second ’èhyèh qu’a été invoquée la distinction qui s’impose entre les conceptions hébraïque et indo-européenne de l’«être». Jusqu’au début de notre siècle les exégètes chrétiens paraissent avoir privilégié les aspects statique de l’être (authenticité, continuité). On reconnaît maintenant que ces connotations sont plus grecques qu’hébraïques et en vertu du «dynamisme» attribué au verbe hâyâh, on pense que par le second ’èhyèh,

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Abbiamo sopra accennato alla traduzione del testo biblico in lingua greca, comunemente detta dei Settanta, poiché proprio questo sarebbe stato secondo la tradizione il numero dei saggi che avrebbe partecipato alla sua redazione. Essa rende l’«’èhyèh ’ashèr ’èhyèh» ebraico mediante la formula greca ἐγώ εἰμι ὁ ὤν: questa traduzione si rivela però foriera di un cambiamento di prospettiva che segnerà per secoli l’interpretazione di Es 3, 14. La mentalità profondamente dinamica con cui questo passo viene concepito secondo l’originale prospettiva della lingua ebraica cede il passo a una nuova prospettiva. La formula greca opera infatti la sostituzione della forma personale e coniugata ’èhyèh, introdotta in una proposizione relativa, con la forma verbale participiale ὤν, preceduta dall’articolo determinativo. Questa sostituzione comporta un primo passaggio da un contesto di indeterminatezza a uno scenario caratterizzato da un maggior grado di precisione.

Inoltre, come detto, l’espressione ebraica possiede una connotazione di incompletezza che rimanda a una reiterazione dell’azione d’esser presente proiettata verso una dimensione futura; quella greca, al contrario, esplicita l’idea di una realtà stabile concernente la sfera del presente185.

In un tale contesto affonda le proprie radici l’esegesi “filosofica” inaugurata da Filone di Alessandria: questi, in molte sue opere, e in maniera particolare all’interno del trattato di natura apologetica De vita Mosis186, presenta una lettura del passo in questione dai tratti marcatamente platonici. L’ἐγώ εἰμι ὁ ὤν viene infatti inteso, oltre che come un modo di opporre la verità dell’essere di Dio alla falsità di quella degli dèi pagani187, come una dichiarazione esplicita della differenza intercorrente tra Dio e l’orizzonte degli esseri mondani. Solamente di Dio, infatti, si possono affermare la reale esistenza e il possesso di una salda consistenza ontologica, dal momento che, mentre ogni altra cosa è peritura e transeunte, Egli solo permane immutabilmente188. L’utilizzo della forma participiale sia al maschile (ὁ ὤν) sia al neutro (τὸ όν) evidenzia come il carattere

Dieu se donne pour une personne manifestant ou susceptible de manifester une présence efficace. Le temps inaccompli corrobore cette traduction de hâyâh par un verbe presque actif, de sorte qu’à «je suis celui qui est» on préfère aujourd’hui «je suis celui qui sera (là)», celui qui se manifestera au moment décisif pour soutenir Moïse, son envoyé».

185

E. Starobinski-Safran, Exode 3, 14 dans l’œuvre de Philon d’Alexandrie, in Dieu et l’être, cit., pp. 47-55, p. 48: «l’ἐγώ εἰμι ὁ ὤν modifie ’èhyèh ’ashèr ’èhyèh: une forme substantive du verbe, òν, précédé de l’article défini, se substitue à une forme personnelle et conjuguée, ’èhyèh, introduite par un relatif, impliquant une nuance d’indétermination. Le grec marque une réalité stable, la plénitude exprimée par le présent, alors que l’hébreu indique une réalisation inaccomplie, qui se poursuit dans le temps, un devenir permanent, une orientation vers l’avenir».

186

Cfr. De vita Mosis libri duo, in Philonis Alexandrini Opera quae supersunt, vol. IV: De Abrahamo, De Iosepho, De vita Mosis lib. I-II, De decalogo, edidit L. Cohn, De Gruyter, Berolini 1902, pp. 119-268.

187 Cfr. v. Mos. I, 75.

188

Starobinski-Safran, Exode 3, 14 dans l’œuvre, in Dieu et l’être, cit. p. 49: «Le sens de cette affirmation est que Dieu seul existe véritablement, parce que lui seul a consistance, solidité. Alors que tout change, lui seul reste immuable, lui qui remplit tout est seul stable».

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distintivo della divinità filoniana non sia più la personalità, quanto il grado assoluto di essere189.

Nel De somniis190, unico carattere di Dio che quindi la ricerca umana, il cui emblema è rappresentato dalla richiesta di Mosè relativamente all’identità divina, può aspirare a conoscere è l’essere (εἶναι), l’esistenza (ὕπαρξις)191. Quest’ultima implica una serie di predicati, quali l’atemporalità, la stabilità, la permanenza immutabile, l’assoluta perfezione, l’essere ovunque e in nessun luogo, i quali però si rivelano inadatti all’essenza (οὐσία) di Dio. Da questa considerazione trae la propria linfa l’altro versante della riflessione “filosofica”192 di Filone, ossia quello riguardante l’assenza di nomi propri adatti alla designazione di Dio. Benchè diventi qui impossibile seguire gli sviluppi del pensiero filoniano riguardanti l’impenetrabilità dell’essenza divina, può essere ricordato il significativo gioco di parole, a cui egli ricorre nel De fuga et inventione193, per mezzo del quale, con l’aiuto della lingua greca, mette in rapporto i termini roveto (βάτος) e inaccessibile (ἄβατος)194.

L’influenza dell’ontologia platonica in rapporto alla comprensione di Es 3, 14 non è però un fenomeno circoscrivibile alla sola speculazione filoniana, dal momento che ne compaiono i segni nella letteratura cristiana dei Padri di lingua greca. In quest’ottica, particolarmente interessanti si rivelano le riflessioni di Origene, Gregorio Nazianzeno e Gregorio Nisseno.

All’interno della produzione origeniana, se si tiene almeno conto delle sette principali citazioni di questo versetto, Es 3, 14 costituisce un argomento decisivo a favore della dottrina, centrale nel pensiero dell’autore, della partecipazione degli esseri a Dio. Senza entrare nel dettaglio, noto che il participio ὁ ὤν viene riferito specificamente o,

189 W. Beierwaltes, Agostino e il neoplatonismo cristiano, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 91: «Siccome Filone usa le due forme del participio, il maschile e il neutro, risulta evidente che, almeno in questo contesto, l’“esser-vero”, ossia la denominazione suprema dell’intelligibile, e non la personalità, è il primo carattere della sua concezione di Dio».

190 Cfr. De somniis libri duo, in Philonis Alexandrini Opera quae supersunt, vol. I: De opificio mundi, Legum allegoriarum lib. I-III, De Cherubin, De sacrificiis Abelis et Caini, Quod deterius potiori insidiari soleat, edidit L. Cohn, De Gruyter, Berolini 1896, pp. 204-306.

191 Cfr. Somn. I, 231.

192

Cfr. Starobinski-Safran, Exode 3, 14 dans l’œuvre, in Dieu et l’être, cit., pp. 50-51, dove si precisa come la riflessione filoniana sull’assenza di nomi propri per designare Dio, anche se avrebbe potuto essere motivata ricordando come nella versione dei Settanta non compaia mai il Tetragramma sacro ’YHWH, debba essere ricondotta alla nozione del Dio ineffabile presente nel pensiero di Platone precisamente in alcuni passi del Timeo e della Lettera VII.

193 Cfr. De fuga et inventione, in Philonis Alexandrini Opera quae supersunt, vol. III: Quis rerum divinarum heres sit, De congressus eruditionis gratia, De fuga et inventione, De mutatione nominum, De somniis lib. I-II, edidit P. Wendland, De Gruyter, Berolini 1898, pp. 110-155.

194

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come nel De principiis195, al Padre-Creatore196, o, come nel secondo libro dell’In evangelium Iohannis197, al Figlio-Λόγος198, ma sempre per esplicitare il vincolo partecipazionistico che lega gli esseri mondani, i quali di per sé non sono (οὐκ ὄντες), a Dio che è l’Essere: se nel primo caso la partecipazione all’essere che viene accentuata è quella risultante dalla creazione, nel secondo si fa propriamente riferimento ad una conoscenza, insieme teorica e pratica, di Dio che deve costantemente rinnovarsi nel corso della vita degli uomini. Ecco che, in quest’ultima prospettiva, ci si può riferire ai santi come a coloro che sono (ὄντες) e ai peccatori come a coloro che invece non sono (οὐκ ὄντες). Tuttavia, il participio ὁ ὤν non viene mai concepito come il nome proprio di Dio, che, a differenza di quello degli uomini, permane immutabile ed eterno. In questo Origene rimane fedele a una linea di pensiero capace di accomunare platonismo e tradizione biblica199.

La questione dei nomi divini è presente anche all’interno dell’opera di Gregorio Nazianzeno. Questi infatti, in una delle sue più celebri Orationes, la numero XXX200, dopo aver insistito sul tema tradizionale dell’impossibilità di nominare la divinità, spiega come i termini “Colui che è” (ὁ ὤν) e “Dio” (θεός) siano posti da Dio stesso in modo necessario per designare il proprio essere201. Mentre però θεός, al pari del termine “Signore” (κύριος), deve essere compreso in relazione ad alcune funzioni divine specifiche, ὁ ὤν è a pieno titolo capace di esprimere lo statuto dell’essenza (οὺσία) divina202: quest’ultima possiede una natura a cui appartiene l’essere non in relazione ad altro, ma in quanto tale (τὸ εἶναι καθ'αυτοῦ) e senza alcuna determinazione riconducibile a un “prima” o a un “poi” cronologicamente intesi. In Dio, infatti, non dimorano né l’“era” né il “sarà”, poiché

195 Cfr. Origenes, Vier Bucher von den Prinzipien, hrsg., übersetzt, mit kritischen und erlauternden Anmerkungen versehen von H. Gorgemanns und H. Karpp, (Texte zur Forschung, vol. 24), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1985.

196 Cfr. De princ. I, 3, 6-8.

197 Origene, Commentaire sur saint Jean, vol. 1 (Livres 1-5), texte grec, introduction, traduction et notes par C. Blanc, (Sources chrétiennes, vol. 120), Les éditions du cerf, Paris 1966.

198 Cfr. In Ioh. Comm. II, 13.

199 M. Harl, Citations et commentaires d’Exode 3, 14 chez les Pères Grecs des quatre premiers siècles, in Dieu et l’être, cit., pp. 87-108, pp. 95-96: «Si le titre ὁ ὤν est indispensable à la définition origénienne de la vie véritable des êtres, il n’est pas cependant, avons-nous dit, le NOM propre et unique de Dieu. […] Commentant la phrase «que ton NOM soit sanctifié», Origène définit le nom comme ce qui indique l’identité propre des êtres, montre que celui des hommes peut changer (Abram-Abraham, Saul-Paul), tandis celui de Dieu immuable et éternel est unique, toujours le même; […] La longue tradition, à la fois platonicienne et biblique, impose de respecter le caractère «innommable» de Dieu: il n’est pas possible de voir dans o òn le nom propre de Dieu, exclusif de tous les autres».

200

Cfr. Orationes, in Sancti Gregorii Nazianzeni Opera, Versio syriaca III: Orationes XXVII,XXXVIII,XXXIX, editae a B. Coulie, J. Mossay et M. Sicherl (CCG 53, Corpus Nazianzenum 18), Brepols-Leuven U. P., Turnhout-Brepols-Leuven 2005.

201 Cfr. Or. XXX, 18.

202 Harl, Citations et commentaires, in Dieu et l’être, cit., p. 97: «[…] il [scil. Grégoire de Nanzianze] donne cependant une importance particulière au titre o òn, parce que ce titre, dit-il, au lieu d’être «relatif» à certaines fonctions divines (les noms «dieu» et «Seigneur» sont des nomes πρός τι) est un titre de l’ousìa divine».

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Egli è presenza sussistente al di fuori del tempo, è perenne attualità e inscalfibile compiutezza.

In un altro celebre discorso pronunciato in occasione della natività del Salvatore, l’Oratio XXXVIII203, il vescovo di Costantinopoli, ancora una volta nel tentativo di spiegare il significato del nome divino che è posto nel cuore dell’episodio biblico del roveto ardente, utilizza l’immagine di un “oceano infinito e indeterminato d’essenza che supera ogni nozione di tempo e di natura”204.

Il tema dell’innominabilità divina è presente anche nel pensiero di Gregorio Nisseno. Come infatti precisa nel libro I della sua nota opera polemica indirizzata a Eunomio205, il titolo ὁ ὤν rivelato a Mosè sull’Horeb indica la “divinità” comune alle tre Persone della Trinità, la loro comune essenza, ma non deve essere identificato con il nome autentico di Dio206. In quest’opera, il discorso viene chiaramente sviluppato in chiave trinitaria, dal momento che Eunomio, interpretando la scena del roveto ardente secondo un duplice riferimento all’Angelo di Dio (il Figlio) e a Colui che è (il Padre), metteva a serio rischio l’assunto dell’unicità divina.

Come aveva già fatto in precedenza il fratello Basilio, Gregorio rimprovera al suo interlocutore ariano di fare del Figlio Unigenito un “non-essente” (μὴ ὤν) e lo invita, appoggiandosi su una serie di importanti testi delle Scritture, a comprendere come Egli sia invece degno di ricevere il titolo di “Colui che è”, ὁ ὤν 207. Nel corso dell’opera, il Nisseno fornisce poi una caratterizzazione dell’οὺσία divina in termini analoghi a quelli utilizzati da Origene e dal Nazianzeno: essa è atemporale ed eterna, non mutevole e stabilmente permanente, priva di delimitazioni. Quest’ultima caratterizzazione rimanda esplicitamente alla nota centrale del concetto di Dio del Nisseno: Dio infatti viene concepito come indeterminato (ἀόριστος) nell’essere208, ossia come infinito.

Il riferimento ai tre autori sopra citati mi ha consentito di mostrare come, partendo dall’esegesi di Es 3, 14 conforme alla mentalità greca, si sia imposta l’identificazione tra Dio e l’Essere all’interno di una serie di importanti pensatori che accolsero e fecero proprio il messaggio della rivelazione biblica. A una simile equazione, del resto, perviene, attraverso un percorso autonomo rispetto a quello di matrice giudaico-cristiana, anche una parte della speculazione propriamente filosofica che vediamo fiorire nel corso dei primi secoli successivi alla venuta di Cristo.

203

Cfr. Orationes, in Sancti Gregorii Nazianzeni Opera, Versio syriaca IV: Orationes XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, edidit J. C. Haelewyck (CCG 65, Corpus Nazianzenum 23), Brepols-Leuven U. P., Turnhout-Leuven 2007.

204 Cfr. Or. XXXVIII, 7. A tal proposito, Harl, Citations et commentaires, cit., in Dieu et l’être, cit., p. 97; cfr. W. Beierwaltes, Agostino e il Neolpatonismo, cit., p. 93.

205

Contra Eunominum, in Gregorii Nysseni Opera, vol. II: Contra Eunomium libri duo (vulgo 3-12); Refutatio confessionis Eunomii (vulgo lib. 2), iteratis curis edidit W. Jaeger, Brill, Leiden 1960.

206

Cfr. C. Eun. I, 8.

207

Cfr. Harl, Citations et commentaires, cit., in Dieu et l’être, cit., pp. 101-103.

208

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Sicuramente, questo secondo modello speculativo merita di essere considerato assieme al primo quale fondatore della sovrapposizione tra il piano della divinità e quello dell’essere: farò quindi ad esso riferimento, ma solo dopo aver osservato più da vicino il ruolo giocato dalla comprensione di Es 3, 14 all’interno del pensiero agostiniano.