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2 L’ente creato

2.2 Mutabilitas spazio-temporale: l’anima

Ho parlato poco sopra di una “gerarchia ontologica” che si struttura in base ai diversi gradi di mutabilità degli esseri, e ho affermato che il livello di mutabilitas rappresenta l’indice di approssimazione degli enti all’Essere immutabile. Bisogna precisare come questa gerarchia venga a costituirsi: essa prevede una netta separazione tra realtà (1) corporali, divisibili in parti, composte di forma e materia e soggette a variazioni di tipo spaziale e di tipo temporale (per locum et per tempus), e (2) spirituali, mutevoli invece unicamente rispetto al tempo (per tempus)30. Le realtà spirituali godono di uno statuto superiore a quello delle prime in quanto sono caratterizzate da un grado di unità maggiore (in quantum unum est), e possiedono l’esistenza ad un livello mediano (medie), posto al di sotto unicamente dell’essenza divina. Le realtà corporee invece

27 É. Gilson, “Notes sur l’être et le temps chez saint Augustin”, RechAug, 2 (1962), pp. 205-223, p. 218: «Le problème du mal, qui a si longtemps tourmenté le cœur d’Augustin, n’est donc que l’une des transpositions du problème de l’être. L’Essentia est, il ne devrait donc pas y avoir de devenir. L’Essentia est immuable, il ne devrait donc pas y avoir de mutabilité et, s’il y en a, elle est le mal».

28 Cfr. mor. II, iv, 6.

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Trapè, La nozione, cit., p. 47: «Come si vede la questione del male si raccoglie e si svolge fin dalle prime battute tra due poli: l’essere impartecipato, che, essendo bene immutabile, non può essere causa né ammettere alcun male, e l’essere partecipato, che, per la sua mutabilità, può andare soggetto a difetto o privazione di bene».

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Gn. litt. VIII, xx, 39: «Hic ergo incommutabili aeternitate uiuens creauit omnia simul, ex quibus currerent tempora et implerentur loca temporalibusque et localibus rerum motibus saecula uoluerentur. In quibus rebus quaedam spiritalia, quaedam corporalia condidit, formans materiam, quam nec alius nec ullus, sed omnino ipse informem ac formabilem instituit, ut formationem suam non tempore, sed origine praeueniret. Spiritalem autem creaturam corporali praeposuit; quod spiritalis tantummodo per tempora mutari posset, corporalis autem per tempora et locos. […] Omne autem quod mouetur per locum, non potest nisi et per tempus simul moueri: at non omne quod mouetur per tempus, necesse est etiam per locum moueri. Sicut ergo substantiam quae mouetur per tempus et locum, praecedit substantia quae tantum per tempus; ita ipsam praecedit illa quae nec per locum nec per tempus». Cfr. Sancti Aurelii Augustini De Genesi ad litteram libri duodecim, in Sancti Aurelii Augustini Opera, pars I: De Genesi ad litteram libri duodecim et eiusdem libri capitula, De Genesi ad litteram imperfectus liber, Locutionum in Heptateuchum libri septem, recensuit J. Zycha (CSEL 28/1, pp. 258-259, xxv-viii; xii-xviii), Tempsky, Vindobonae 1894, pp. 3-456. Omettendo l’ed. CSEL l’indicazione dei paragrafi, faccio riferimento a quella fornita dall’ed. dei Maurini (PL 34, pp. 245-486).

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devono essere collocate al livello di esistenza infimo (infime) e investito nella maniera più cospicua dalla molteplicità31.

Se per un lettore di Agostino non costituisce un assunto problematico, o almeno non sorprendente, che la natura degli esseri corporei sia investita da un continuo variare, che sia in altre parole soggetta all’avvicendarsi di differenti stati secondo il flusso del divenire, non si può dire altrettanto per quanto riguarda le realtà immateriali. Lascio quindi da parte la considerazione dello statuto delle realtà fisiche e rimando per ora la considerazione dei principi di forma e materia, dalla cui coessenzialità scaturisce la struttura propria degli enti corporei, concentrandomi invece sul più elevato livello ontologico delle realtà spirituali. A tal proposito, mi sembra particolarmente fecondo il legame che Agostino istituisce tra la realtà dell’anima e il carattere della mutabilitas, poiché a partire da tale nesso potrà essere indagato un altro importante segno distintivo delle realtà create, la temporalità. Si tratta quindi innanzitutto di accertare se effettivamente Agostino consideri mutevole la natura dell’anima, per poi comprendere in che modo tale mutabilità vada correttamente intesa.

Come è noto, Agostino dedica notevoli energie fin dalle prime opere allo studio dell’anima, curandosi di sottrarre tale nozione ad una comprensione materialistica e di metterne in luce la natura spirituale. Si comprendono perciò anche i molti sforzi profusi nella ricerca di una solida argomentazione a favore della dimostrazione della sua immortalità. Entrambi questi attributi tuttavia, ossia spiritualità e immortalità, non devono però essere ritenuti sinonimi di immutabilità, né si deve pensare che, in quanto caratterizzata dai primi due, l’anima debba essere concepita come in possesso anche del terzo.

Una conferma della non sovrapponibilità di questi termini può essere trovata in un testo presente nella parte conclusiva del VII libro del De Genesi ad litteram, libro interamente dedicato alla risoluzione di svariati dilemmi sorti in rapporto alla natura dell’anima. Agostino in questa sede afferma che l’anima deve essere al contempo ritenuta immortalis e mortalis: immortale quanto a una determinata modalità di vita che mai potrà perdere, mortale in considerazione del carattere mutevole che la contraddistingue, riassumibile nel suo poter divenire peggiore o migliore32. Si assiste quindi a una

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ep. 18, 2: «Est natura per locos et tempora mutabilis, ut corpus. Et est natura per locos nullo modo, sed tantum per tempora etiam ipsa mutabilis, ut anima. Et est natura quae nec per locos, nec per tempora mutari potest; hoc Deus est. Quod hic insinuavi quoque modo mutabile, creatura dicitur; quod immutabile, Creator. Cum autem omne quod esse dicimus, in quantum manet dicamus, et in quantum unum est, omnis porro pulchritudinis forma unitas sit: vides profecto in ista distributione naturarum, quid summe sit, quid infime, et tamen sit; qui medie, maiusque infimo, et minus summo sit». Cfr. Sancti Aurelii Augustini Episulae (1-55)1, in Sancti Aurelii Augustini Opera, pars III,1, cura et studio K. D. Daur (CCL 31/1, p. 44, xiii-xxii), Brepols, Turnhout 2004.

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Gn. litt. VII, xxviii, 43 (CSEL 28/1, p. 228, x-xiii): «[…] et quod sit immortalis secundum quendam uitae modum, quem nullo modo potest ammittere; secundum quandam uero mutabilem, qua potest uel deterior uel melior fieri, non inmerito etiam mortalis possit intellegi»

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descrizione della natura dell’anima giocata su di un duplice registro. Essa infatti secundum quemdam modum deve essere ritenuta non passibile di annullamento, ma contemporaneamente, nella misura in cui è contraddistinta dalla mutabilità, viene a essere intaccata da una certa forma di mortalità.

Questo conferma quanto detto precedentemente, ossia che l’anima, pur se designata come spirituale e immortale, non appartiene al novero delle realtà immutabili ed eterne. Al contrario, la mutabilità designa un particolare aspetto di mortalità proprio dell’anima, rivelandosi quindi come un dato a lei originariamente inerente e che essa, come si vedrà in seguito, ha in un certo senso il compito di trascendere.

Assodato che l’anima non è esente dal mutamento, vanno approfonditi i caratteri peculiari della sua mutabilità. Quest’ultima, infatti, si differenzia notevolmente dalla mutabilità inerente alle realtà corporee. Come scrive giustamente Trapè, “l’anima non ha le prerogative della quantità, non è diffusa nello spazio, non ha parti distinte che occupino un luogo: è tutta in tutto il corpo e tutta in ogni sua parte (in toto tota est, et in qualibet eius parte tota est)33. Dunque l’anima, realtà secundum quemdam modum dotata di una vita immortale che non può essere perduta, viene di converso descritta anche come mutevole e mortale, a patto che questi attributi siano a essa riferiti in modo differente da come avviene per gli esseri corporei e materiali.

Si osservi quindi più da vicino il modo in cui Agostino giustifica e concepisce questa differenza: ho scelto di perseguire questo intento in rapporto (1) a una dimostrazione dell’incorporeità dell’anima basata sull’analisi del suo processo autoconoscitivo, e (2) alla nozione di temporalità, a cui si lega il suo essere mutabile.

Tramite l’esposizione del processo conoscitivo che l’anima dispiega per giungere al coglimento di sé, Agostino attribuisce a tale realtà una costituzione incorporea. Ancora una volta, questo accade nel libro VII del De Genesi ad litteram, dove Agostino rimarca la distanza che intercorre tra la sfera dell’anima e quella propria agli enti corporei. Pur non potendo analizzare in modo dettagliato l’andamento dell’intera argomentazione, credo utile tuttavia soffermarci su di una sua parte molto significativa.

Agostino intende dimostrare come l’anima, in quanto priva di estensione spaziale, si differenzi da qualsiasi natura corporale. Se fosse in possesso di tale carattere, tale realtà risulterebbe estesa nelle tre dimensioni, divisibile e circoscrivibile34. Essa in realtà è una totalità indivisibile, come dimostra la modalità con cui è in grado di conoscersi.

Quando essa infatti pone la propria natura quale oggetto d’indagine (cum enim se quaerit) lo fa con la consapevolezza dell’operazione che sta compiendo (novit quod se

33 Cfr. Trapè, La nozione, cit., p. 88.

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Gn. litt., VII, xxi, 27 (CSEL 28/1, p. 217, xviii-xxi): «Si enim qui hoc sentiunt hoc dicunt corpus, quod et nos, id est naturam quamlibet longitudine, latitudine, altitudine spatium loci occupantem, neque hoc est anima neque inde facta credenda est».

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quaerat), dal momento che la conoscenza che tenta di ottenere non le deriva da altro all’infuori di se stessa (neque enim aliunde se quaerit, quam a se ipsa). Dal fatto dunque che si sappia alla ricerca di sé deriva che si conosca, e a tale sapere di tutta la propria natura nel ruolo di soggetto conoscente (cum itaque quaerentem novit, tota se novit) corrisponde quello di tutta la propria natura in quanto oggetto conosciuto (ergo et totam se novit)35.

Utilizzando questa formula complessa, Agostino intende dimostrare il carattere immateriale dell’anima a partire dall’analisi delle modalità di autoconoscenza che essa mette in atto: queste infatti chiariscono che l’anima, a differenza degli enti corporei, è una totalità indivisibile.

Questo breve testo sintetizza un’argomentazione contenuta in misura più estesa nelle pagine del coevo De trinitate. Nelle prime battute del X libro, Agostino si prefigge infatti l’obiettivo di mostrare come la possibilità per l’anima di rendere se stessa oggetto d’amore e di conoscenza dipenda dalla facoltà di conoscersi in quanto soggetto pensante che tale realtà possiede.

Agostino si interrega su quale sia la realtà cui si rivoge l’amore dell’anima allorché questa tenta di passare dall’ignoranza alla conoscenza di sé (Quid ergo amat mens, cum ardenter se ipsam quaerit ut noverit, dum incognita sibi est?). La risposta a tale interrogativo prende forma mediante la formulazione di un argomento di tipo “riflessivo”36. L’anima cioè è in grado di rinvenire una forma di autoconoscenza a partire dall’approccio conoscitivo rivolto ad un oggetto esterno, dal momento che quest’ultimo presuppone la conoscenza dell’atto stesso di conoscere (novit autem quid sit nosse).

Tale coscienza della natura dell’atto intellettivo, manifestatasi in occasione della conoscenza di un oggetto esterno, non perviene tuttavia all’anima dall’esterno, ma è qualcosa che le è per così dire essenziale. Inoltre, il coglimento di un oggetto esterno genera nell’anima non solo la consapevolezza di cosa significhi conoscere in senso generale, ma fa sorgere in essa la consapevolezza di sé in quanto soggetto conoscente (neque enim alteram mentem scientem scit, sed se ipsam).

Da questa prima parte della riflessione agostiniana emerge che, quando l’anima ignorante della propria natura cerca di conoscersi, essa conosce già il significato dell’atto conoscitivo che intende mettere in atto; tale consapevolezza consente inoltre all’anima di

35 Ivi VII, xxi, 28 (CSEL 28/1, p. 218, i-vii; xi-xiv): «Nec ipsa sibi tale aliquid occurrit, cum se nescire non possit, etiam quando, se ut conosca, inquirit. Cum enim se quaerit, nouit, quod se quaerat; quod nosse non posset, si se non nosset. Neque enim aliunde se quaerit quam a seipsa. Cum ergo quaerentem se nouit, se utique nouit et omne, quod novit, tota nouit: cum itaque se quaerentem nouit, tota se nouit, ergo et totam se nouit: neque enim aliquid aliud, sed seipsam tota nouit. […] Desinat ergo nunc interim suspicari se esse corpus, quia, si aliquid tale esset, talem se nosset, quae magis se nouit quam coelum et terram, quae per sui corporis oculos nouit».

36 P. Agäesse, Note complémentaire “La connaissance de l’âme par elle-même”, in Saint Augustin, La Trinité, (VIII-XV). Traduction par P. Agäesse, Introduction et Notes par P. Agäesse et J. Moingt (Bibliothèque Augustinienne 16), Desclée de Brouwer, Paris 1955, pp. 603-605, p. 604: «Pour prouver que l’âme se connaît elle-même, Augustin recourt non pas à l’introspection, mais à un argument réflexif».

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conoscere se stessa in quanto soggetto dell’atto medesimo. In definitiva, l’anima che si cerca, e anzi proprio perché si cerca, già si conosce come cercantesi e non conoscentesi (novit enim se quaerentem atque nescientem)37.

Questo prezioso risultato non può ancora dirsi sufficiente ai fini di provare l’immaterialità dell’anima: per far questo, Agostino deve dimostrare non solo che essa effettivamente si conosce, ma anche come essa lo faccia mediante un coglimento integrale di sé. A tal proposito, egli ricorre a un’argomentazione che sembra avere come cifra caratterizzante una sorta di verbalismo, dal momento che, orientando l’attenzione sul piano grammaticale, fa leva sul passaggio del medesimo termine dall’accusativo (me oggettivo) al nominativo (io soggettivo)38. Provo a seguire il ragionamento del De trinitate.

Il primo passo è quello di sostenere, in accordo con i risultati sopra raggiunti, che è l’anima tutta intera, in quanto soggetto di conoscenza, a saper di conoscere (cum itaque aliquid de se scit, quod nisi tota non potest, totam se scit). Tutta l’anima quindi si sa nell’atto di conoscere qualcosa (scit se aliquid scientem). Come fa con precisione notare Paul Agäesse, è a quest’altezza che si colloca il cuore del ragionamento, dal momento che “grammaticalmente, il se che è all’accusativo si trova al tempo stesso a essere soggetto dell’azione che è designata dal participio”; questo sta sostanzialmente a significare che “l’anima essendo oggetto di conoscenza per se stessa, è al tempo stesso soggetto della conoscenza di un oggetto altro da sé”39.

Da queste premesse deriva che essa si conosce nella sua interezza (scit se igitur totam), poiché vi è come un’estensione delle prerogative dell’anima in quanto soggetto conoscente alla stessa in quanto oggetto conosciuto40. Ci si trova insomma al cospetto di una forma di sapere sui generis, quella cioè attraverso cui l’anima diviene consapevole del proprio atto conoscitivo: quest’ultimo rappresenta la condizione di ogni altra conoscenza e perciò stesso è irriducibile a ogni altra forma di conoscenza41.

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trin. X, iii, 5 (CCL 50, p. 318, xxxviii-xlv): «Neque enim alteram mentem scientem scit sed se ipsam. Scit igitur se ipsam. Deinde cum se quaerit ut nouerit, quaerentem se iam nouit. Iam se ergo nouit. Quapropter non potest omnino nescire se quae dum se nescientem scit se utique scit. Si autem se nescientem nesciat, non se quaeret ut sciat. Quapropter eo ipso quo se quaerit magis se sibi notam quam ignotam esse conuincitur. Nouit enim se quaerentem atque nescientem dum se quaerit ut nouerit».

38 Agäesse, “La connaissance de l’âme”, in La Trinité, cit., p. 604: «L’argument proposé par Augustin semble prêter au verbalisme, parce qu’il s’appuie sur un raisonnement d’ordre grammatical, qui, par une sorte de réduction dialectique, fait passer l’accusatif dans le nominatif, c’est-à-dire le objet dans le moi-sujet».

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Cfr. ivi, pp. 604-605.

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trin X, iv, 6 (CCL 50, pp. 318-319, xlvi-lii): «Quid ergo dicemus? An quod ex parte se nouit, ex parte non nouit? Sed absurdum est dicere non eam totam scire quod scit. Non dico: "Totum scit", sed: "Quod scit tota scit". Cum itaque aliquid de se scit quod nisi tota non potest, totam se scit. Scit autem se aliquid scientem, nec potest quidquam scire nisi tota. Scit se igitur totam».

41 Agäesse, “La connaissance de l’âme”, in La Trinité, cit., p. 605: «Sous cette forme un peu subtile, ce qui est affirmé, c’est que la conscience de soi non implique pas division entre connu et connaissant. Il y a une manière de connaître irréductible à toute autre connaissance. La connaissance de l’âme par elle-même est la connaissance de son acte propre».

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La lettura di questo testo, che secondo Agäesse risente dell’influenza del trattato plotiniano Sulle ipostasi che conoscono (Enn. V 3), in cui Plotiono risponde ad alcune difficoltà sollevate nell’Adversos mathematicos42 da Sesto Empirico 43, ha fornito i dati fondamentali (l’anima che si cerca si conosce e lo fa mediante una forma peculiare per cui tale sapere si estende alla sua interezza) in base ai quali poter affermare che l’anima non è per Agostino un’entità corporale costituita da parti differenti, ma una realtà di tipo spirituale e una totalità indivisibile. Il corso immediato del X libro si preoccuperà di spiegare le cause del fatto che l’anima giunga a fraintendere la propria natura ed a credersi dotata di sussistenza corporale mediante la precisazione, sulla cui non mi soffermo, del ruolo rispettivo delle nozioni di nosse e cogitare.

Dopo aver seguito l’argomentazione cui Agostino dimostra, a partire dall’indagine del suo processo autoconoscitivo, la struttura semplice e indivisibile, quindi non corporea, dell’anima, mi si conceda un ultimo breve riferimento alla conclusione del brano del libro VII del De Genesi ad litteram che avevo preso in esame44. Al contenuto sopra esposto segue infatti una precisazione di notevole importanza: assodato infatti che l’anima possiede la consapevolezza di se stessa nell’atto presente (sed hoc in praesenti) di ricercarsi, bisogna aggiungere che l’oggetto della sua ignoranza, verso il quale si dirige appunto l’atto del ricercare, è rappresentato dal suo stato passato (quid antea fuerit) o dal suo stato futuro (quid futura sit)45. Ciò significa che il carattere di estraneità alla composizione spaziale e al mutamento locale non può essere esteso alla dimensione del tempo, ragion per cui l’anima a torto sarebbe considerata alla stregua di una realtà assolutamente semplice e non soggetta a variazione, quale si rivelerà essere la somma essenza divina.