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2 L’ente creato

2.6 Il vincolo tra la creatura e il Creatore nella creatio

3.1.1 Dal materialismo manicheo all’infinitas spiritualis

Un tentativo di comprensione dell’infinità di Dio, come testimonia il libro VII delle Confessiones141, risale al periodo in cui Agostino frequenta la setta dei manichei. Si tratta di formulazioni improntate ad una visione del reale estremamente materialistica, di rappresentazioni che riconducono lo statuto della divinità all’interno di una prospettiva spazio-temporale. In questo frngente, Agostino descrive la natura divina come un mare sconfinato che si estende attraverso spazi illimitati e che contiene, interamente pervadendola, la totalità della creazione, paragonata a sua volta ad una spugna di dimensioni enormi, circoscritta tuttavia nei suoi estremi142.

Una simile visione, denotata da una sorta di errore “cosmomorfico”143, resiste sino a che l’incontro con il pensiero neoplatonico spinge Agostino nella direzione di una corretta comprensione della natura spirituale di Dio. Questa nuova consapevolezza, suscitata dalla lettura dei Platonicorum libri144, segna quindi il passaggio dall’idea di un Deus per infinita spatia locorum omnium al risveglio dell’intelletto, capace ora di comprendere l’infinità della divinità, ma non secondo la carne145.

Le realtà mondane finite, dal canto loro, continuano a essere contenute nel seno dell’infinità divina, ma lo sono diversamente (aliter) da come ci si trova ad occupare un determinato spazio146. L’importanza della svolta concettuale compiuta da Agostino viene espressa e compendiata mediante l’impiego apparentemente poco significativo dell’avverbio aliter: esso però, se inteso in tutta la sua pienezza di significato, non

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conf. VII, i, 1 (CCL 27, pp. 92, xviii-xxi): «[…] ut quamuis non forma humani corporis, corporeum tamen aliquid cogitare cogerer per spatia locorum siue infusum mundo siue etiam extra mundum per infinita diffusum […]».

142 ivi VII, v, 7 (CCL 27, pp. 96, viii-xviii): «[…] et feci unam massam grandem distinctam generibus corporum creaturam tuam, siue re vera quae corpora erant, siue quae ipse pro spiritibus finxeram, et eam feci grandem, non quantum erat, quod scire non poteram, sed quantum libuit, undiqueuersum sane finitam, te autem, domine, ex omni partem ambientem et penetrantem ea, sed usquequaque infinitum, tamquam si mare esset ubique et undique per immensa infinitum solum mare et haberet intra se spongiam quamlibet magnam, sed finitam tamen, plena esset utique spongia illa ex omni sua parte ex immenso mari : sic creaturam tuam finitam te infinito plenam putabam […]».

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Cfr. Dubarle, “Essai sur l’ontologie”, cit., p. 212.

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conf. VII, ix, 13 (CCL 27, p. 101, iv-vi): «[…] procurasti mihi per quemdam hominem immanissimo typho turgidum quosdam Platonicorum libros ex Greca lingua in Latinam versos, […]». Cfr. infra, p. 155, n. 52.

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Ivi VII, xiv, 20 (CCL 27, pp. 106, vi-xii): «Et inde rediens fecerat sibi Deum per infinita spatia locorum omnium et eum putauerat esse te et eum collocauerat in corde suo et facta erat rursus templum idoli sui abominandum tibi. Sed posteaquam fouisti caput nescentis et clausisti oculos meos, ne uiderent uanitatem, cessaui de me paululum, et consopita est insania mea; et euigilavi in te et uidi te infinitum aliter, et uisus iste non a carne trahebatur».

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Ivi VII, xv, 21 (CCL 27, pp. 106, i-iv): «Et respexi alia et uidi tibi debere quia sunt et in te cuncta finita, sed aliter, non quasi in loco, sed quia tu es omnitenens manu ueritate, et omnia uera sunt, in quantum sunt, nec quidquam est falsitas, nisi cum putatur esse quod non est».

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rimanda solamente al superamento di una mera “nozione ancora informe di infinità”147, ma piuttosto all’abbandono definitivo di una concezione foriera di gravi e sciagurati errori148. Il carattere di certezza149 attribuito a questa nuova comprensione della divinità viene dunque a sottolineare come essa costituisca un approdo finalmente saldo e a lungo agognato.

L’abiezione del materialismo manicheo e la sua inefficacia nella comprensione del carattere di infinità della natura spirituale di Dio sono oggetto di biasimo da parte di Agostino anche nel corso della celebre disputa che lo vede opposto al vescovo manicheo Fausto. Quest’ultimo infatti mette in dubbio il possesso da parte della divinità cristiana di uno statuto illimitato, facendo leva su un’apparente contraddizione insita nella formula biblica “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. Quest’ultima infatti non solo comprometterebbe la presunta infinità divina mediante un’evidente limitazione, ma addirittura, omettendo la menzione dei grandi predecessori di Abramo e della sua stirpe quali Enoch, Noè e Sem in quanto privi del segno distintivo della circoncisione, testimonierebbe il rapporto di estraneità vigente tra i Cristiani, anch’essi incirconcisi, e il Dio che invocano. Nell’eventualità che quanto detto non risultasse persuasivo, il vescovo devoto a Mani, aprendo uno scenario analogo a quello del libro VII delle Confessiones, porta come prova decisiva dell’effettiva limitatezza della natura divina l’esistenza del male150.

La risposta agosiniana è perentoria. Solamente una purificazione operata per mezzo di una ragione veritiera e di una fede devota, egli afferma, potrebbe esimere la dottrina di Mani dall’incapacità di cogliere la reale natura dell’infinità divina, la quale non è affatto dotata di estensione corporale. Fintantoché non verranno sanati da tale azione catartica, i manichei farebbero bene a tacere, dal momento che si trovano nella condizione non solo di non poter insegnare nulla di vero, ma addirittura di non poterlo neppure imparare. Imprigionati nelle maglie anguste del materialismo, essi non potrebbero infatti trovare soluzioni a dilemmi quali quelli riguardanti la possibilità di ritenere limitato un Dio che non è contenuto in nessun luogo o di considerarLo viceversa illimitato nonostante sia interamente conosciuto dal Figlio, la possibilità ancora di sostenere che sia limitato Colui che è immenso e illimitato colui che è perfetto, di comprendere come possa essere finito

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Cfr. Gilson, “L’infinité divine”, cit., p. 570.

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Dubarle, “Essai sur l’ontologie”, cit., p. 214: «Cet aliter est essentiel: il marque la rupture augustinienne avec les fantasmes spatio-temporels de l’infinité divine et de son rapport à l’étendue matérielle, non point seulement le dépassement d’une notion encore informe de cette infinité, mais le rejet d’une vue désormais reconnue gravement erronée, cette vue que, quelques lignes auparavant, saint Augustin n’hésite pas à dire forgerie d’idole».

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conf. VII, xx, 26 (CCL 27, pp. 109, iv-v): «[…] certus esse te et infinitum esse nec tamen per locos finitos infinitosue diffundi […]».

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se privo di misura e infinito in quanto misura di ogni altra cosa. Non vi è verità, conclude Agostino, nelle regioni lontane da Cristo in cui errano i seguaci di Mani151.

Ulteriori spunti di riflessione in relazione alla concezione agostiniana dell’infinità divina emergono all’interno di un contesto apparentemente inatteso, ossia nel corso di una lettera indirizzata da Agostino a Dioscoro. Lo scopo principale di questo testo è quello di mostrare al giovane studente greco come l’adempimento della richiesta da lui formulata, ossia di rispondere a delle modeste questioni intorno ai dialoghi di Cicerone152, costituisca un’occupazione non adatta alla vita di un vescovo. Esaudire tale richiesta infatti richiederebbe un prolungato sforzo intellettuale e fisico (Agostino utilizza l’immagine del consumarsi delle unghie: atque attererent ungues meos) che andrebbe sicuramente a discapito delle impellenti curae apostoliche153. Tuttavia, nella sezione finale della missiva, alcuni dei paucae interrogantiuncula trovano risposta. In particolare, trova risposta un quesito relativo a un testo tratto dal De naturam deorum154, nel quale Cicerone prende in considerazione le posizioni filosofiche di Anassimene e Anassagora155. Commentando quella del primo, che secondo quanto riporta Cicerone sostenne che la divinità è dotata di un corpo aereo illimitato e generato, Agostino ribadisce che Dio deve certamente essere considerato infinito, ma non come se si estendesse nello spazio e fosse divisibile in molteplici parti, bensì a causa del suo essere identico alla verità nel possedere una presenza totale di carattere spirituale156. L’infinità di Dio si intreccia inestricabilmente al suo essere Verità, carattere questo che sembra contrapposto all’imperitissima scientia nominata qualche riga più sopra nel corso del testo.

Differente è invece il caso di Anassagora: questi infatti designa il principio della propria filosofia, l’Intelletto, con i termini veritas e sapientia, fattore che sembra relegare la distanza che lo separa dalla fede cristiana ad una dimensione puramente nominale.

151 Ivi xxv, 2: «Prius enim estis a figmento carnalium corporaliumque cogitationum pia fide et quantulacumque veritatis ratione mundandi, ut spiritalia quoquo modo et ex quantacumque parte cogitari possitis. Quod quamdiu non potestis (heresis quippe vestra nihil aliud novit, quam et corpus et animam et Deum per locorum spatia vel finita vel infinita distendere, cum solum corpus talia occupet spatia, vel spatiis talibus occupetur), consultius feceritis, si vos huic questioni non commiscueritis, ubi nec docere potestis aliquid veri, sicut nec in cateris; nec discere estis idonei, quod fortasse potestis in quem nullus locus capit; quomodo infinitus, quem totum Filius novit; quomodo finitus, quem nullus locus capit; quomodo infinitus, perfectus; quomodo finitus, nullum habens modum; quomodo infinitus, modus omnium: omnis cogitatio carnalis evanescit; et si vult se fieri quod nondum est, prius ex eo quod est erubescit». Cfr. Sancti Aurelii Augustini Contra Faustum libri triginta tres, in in Sancti Aurelii Augustini Opera, sect. VI, pars I: De utilitate credendi, De duabus animabus, Contra Fortunatum, Contra Adimantum, Contra epistulam fundamenti, Contra Faustum, recensuit J. Zycha, (CSEL 25/1, p. 727, v-xxii), Tempsky-Freytag, Vindobonae-Lipsiae 1891, pp. 251-797.

152 Cfr. ep. 117, 1.

153

Cfr. ep. 118, i, 1.

154

Cfr. De natura deorum, in M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia, vol. 45, post O. Plasberg edidit W. Ax, editio stereotypa editioni secundae Stutgardiae (MCMXXXIII) (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), in aedibus Teubneri, Stutgardiae 1968.

155 Cfr. De nat. deor. I, 10.

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L’Intelletto postulato dal filosofo di Clazomene infatti, al pari del Dio della Rivelazione biblica, è contraddistinto da una natura infinita incomprensibile alla ragione che, se da un lato non implica il possesso di un’estensione spaziale, dall’altro non pregiudica nemmeno, come accade invece nel caso dei corpi, la perfezione della forma. Il fatto poi che esso non sia limitato da alcunché di spaziale consente ad Agostino di affiancare, secondo una logica ben precisa che a una mentalità moderna risulta però tutt’altro che scontata, alla nozione di infinitas quella di totalitas: l’Intelletto anassagoreo, al pari del Dio cristiano, è infatti infinitus in quanto nessuno spazio lo circoscrive e totus in riferimento alla sua integrità e interezza157.

Se dunque Dio, secondo il principio in base al quale, per quanto concerne gli attributi sostanziali, nell’essenza divina non v’è distinzione tra id quod habet e id quod est, è e possiede un’infinita sapientia, lo stesso si può dire in rapporto alla sua conoscenza: si può asserire infatti ugualmente che Egli è una infinita scientia e che possiede una infinita scientia, capace di cogliere la dimensione dell’infinitum (capax infiniti). Quest’ultimo dato risulta evidente in rapporto alla filosofia dei numeri di Agostino.