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Infinita scientia: brevi cenni sulla filosofia dei numeri di Agostino

2 L’ente creato

2.6 Il vincolo tra la creatura e il Creatore nella creatio

3.1.2 Infinita scientia: brevi cenni sulla filosofia dei numeri di Agostino

Nel corso del libro XII del De civitate Dei, Agostino prende in esame, ai fini di confutarla, la tesi di alcuni filosofi che affermano che l’infinito non potrebbe essere in nessun caso oggetto di conoscenza. Lo stesso Dio, secondo costoro, conterrebbe una molteplicità finita di ragioni a partire dalle quali creerebbe un numero finito di enti, anch’essi finiti. Uno dei punti chiave sui quali Agostino fa affidamento per confutare questa assurda concezione è proprio il possesso da parte di Dio di una scientia capace di comprendere l’infinità del numero.

Ci sia consentita una breve divagazione all’interno del pensiero agostiniano a proposito del ruolo della nozione di infinità declinata in rapporto al numero. Essa infatti non costituisce affatto un dato scontato e immediato, ma sembra sfuggire a una comprensione univoca. Provo allora a spendere alcune parole a proposito della filosofia numerica agostiniana.

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ep. 118,iv,24: «Item Anaxagoras, sive quilibet, si mentem dicit ipsam veritatem atque sapientiam, quid mihi est de verbo cum homine contendere? Manifestum est enim omnium rerum descriptionem et modum ab illa fieri, eamque non incongrue dici infinitam, non per spatia locorum, sed per potentiam, quae cogitatione humana comprehendi non potest; neque quod informe aliquid sit ipsa sapientia, hoc enim corporum est, ut quaecumque infinita fuerint, sint et informia. […] Et aliter dicitur totum quod incorporeum est, quia sine finibus locorum intelligitur, ut et totum et infinitum dici possit: totum propter integritatem; infinitum, quia locorum finibus non ambitur». Cfr. Sancti Aurelii Augustinii Epistulae (101-139), cura et studio K. D. Daur, (CCL 31/3, p. 128, dliv-dlxxxi), Brepols, Turnhout 2009.

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Il dato più evidente che appare da una rapida osservazione dell’approcio agostiniano nei confronti della filosofia dei numeri è sicuramente la compresenza di due distinti registri concettuali: talora è messa in atto una forma di argomentazione legata agli sviluppi tradizionali di origine aristotelica, talaltra invece compare l’utilizzo di principi teoretici di origine pitagorico-platonica. Di seguito, trattando il tema dell’infinità del numero, farò riferimento a due testi rispettivamente riconducibili all’uno e all’altro dei paradigmi concettuali menzionati.

Posso iniziare col dire che la filosofia dei numeri di Agostino risente fortemente, soprattutto in una prima fase, dell’influsso del pensiero pitagorico, come testimonia il resoconto che le Confessiones offrono a proposito dell’opera giovanile andata perduta, intitolata De pulchro et apto. Considerando che essa venne composta a Cartagine e rinvenendo alcune formulazioni affini nel breve commentario dedicato al Somnium Scipionis da parte di un Favonio Eulogio, allievo di Agostino al tempo del suo insegnamento cartaginese, Solignac 158 ritiene che proprio quegli anni abbiano rappresentato per il giovane insegnante di retorica un periodo di studi aritmetici relativamente intenso159.

Le fonti principali alle quali lo studioso francese ipotizza che Agostino si potuto ispirare sono le opere varroniane De principiis numerorum e De arithmetica, ma soprattutto e, in maniera decisiva, l’Introductio arithmetica di Nicomaco di Gerasa, pitagorico platoneggiante vissuto verso la fine del primo secolo160. Una simile eredità pitagorico-platonica è riassumibile in due principi fondamentali: 1) la della superiorità dell’unità sull’essere161, 2) la riconduzione all’Unità intelligibile dell’intera serie dei numeri matematici, da questa derivati non per addizione ma per divisione162.

Un simile influsso può essere colto in tutta la sua portata in un brano di una lettera indirizzata da Agostino all’amico Nebridio nel 387. Esso infatti ospita una serie di formulazioni che sembrano mettere in discussione, o quanto meno problematizzare, le classiche posizioni aristoteliche sulle proprietà dell’infinito163, alle quali del resto lo stesso Agostino in molti altri luoghi164 mostra di aderire.

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Cfr. A. Solignac, “Doxoghraphies et manuels dans la formation philosophique de saint Augustin”, RechAug, 1 (1958), pp. 113-148.

159 Cfr. ivi, p.132.

160

Cfr. ivi, p.133.

161

Samek Lodovici, Relazione, causa, spazio, cit., pp. 237-38: «L’unità, al posto di essere una sorta di passio entis, un accidente di una res che c’è già, e quindi da rinvenirsi nell’empiria, è il criterio primo identificante del reale, ciò che fa del reale un idem, uno stesso, ed è il criterio senza il quale l’essere stesso cessa di esistere perché non può più essere pensato».

162 Ibid.: «Tutti i numeri sono sottratti alla loro autarchia ontica in quanto contenuti nell’Unità fondamentale. […] La distinzione tra Unità e serie numerica è possibile pensando la serie dei numeri come modi progressivamente degradanti dell’Uno fondamentale, in una discesa costante sino al numero monodico (o matematico), che non ha alcuna sussistenza ontologica, ma che rappresenta soltanto la quantità discreta».

163

Cfr. ivi, p. 240.

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Si possono riassumere tali posizioni come segue: secondo lo Stagirita, per quanto concerne il livello delle grandezze materiali, è possibile, anche se mai ciò avverrà effettivamente in atto, che si dia un infinito per divisione, mentre ciò non è possibile per addizione, poiché la somma di parti finite risulterà essere anch’essa finita. Viceversa, in relazione alle entità numeriche, il discorso appare rovesciato: si può raggiungere la dimensione dell’infinito per accrescimento, ma non per divisione, poiché l’unità indivisibile costituisce un limite insormontabile.

Agostino, nel corso del brano contenuto nella lettera a Nebridio di cui riporto in nota il testo originale165, si interroga dunque sulla possibilità dell’esistenza di un corpus amplissimum, quo amplius esse non possit. In fatto di quantità fisiche, infatti, un incessante processo di addizione non vanificherebbe la possibilità di effettuarne una ulteriore nei confronti della grandezza raggiunta. Lo scoglio appena segnalato appare ancora più insormontabile allorché si consideri la parallela impossibilità, in base al principio dell’infinita divisibilità della materia, di raggiungere un corpus minimum.

A questo punto, per uscire dall’impasse che attanaglia il ragionamento, Agostino lascia balenare un’intuizione di grande valore, già comunicata ad Alipio. essa costituisce un’applicazione dei caratteri tipici della coppia aristotelica entità numeriche/grandezze materiali al binomio platonico numero intelligibile/numero sensibile. Mentre infatti il numero intelligibile può aumentare all’infinito, senza però poter diminuire oltre la monade, il numero sensibile ha un possibilità di incremento limitata, pur potendo diminuire infinitamente. Si assiste così ad una relazione che possiamo definire irreciproca: l’Unità intelligibile (μόνας), principio della serie dei numeri aritmetici, è presente in ogni forma di molteplicità e si può dire che cresce all’infinito non nel senso che la natura dell’unum ceda alla pluralità, ma nel senso che solamente grazie a essa e all’aumentare della sua presenza può essere esplicata la crescita illimitata del numero sensibile. A mano a mano che quest’ultimo invece si accresce, vede diminuire il suo grado di unità e, con esso, quello di essere166.

165 Cfr. ep. 3, 2.

166

Samek Lodovci, Relazione, causa, spazio, cit., p. 243: «La monade è l’unum ovvero il numerus intelligibilis che infinite crescit nella misura in cui si estende e si moltiplica la serie dei numeri matematici o sensibili. Tale serie, infatti, è una serie infinita e, a mano a mano che aumenta con il dispiegarsi della serie il numero delle unità matematiche, diminuisce, per il crescere appunto del tasso di molteplicità determinato dall’aumento di queste unità, il livello ontologico della serie. A mano a mano che aumenta l’insieme delle unità numeriche, aumenta la molteplicità, e quindi diminuisce l’unità e con l’unità l’essere, l’entatività della serie»; M. Bettetini, La misura delle cose: strutture e modelli dell’universo secondo Agostino d’Ippona, Rusconi, Milano 1994, p. 229: «La μονάς della terza lettera è dunque l’unum, il numerus intelligibilis che infinite crescit, nella misura in cui aumenta la serie dei numeri matematici o sensibili, che perdono essere infinitamente, perché aumentando di numero quantitativamente, perdono di unità. L’unità invece è tanto più presente quanti più sono i numeri che ad essa si rapportano: non perché l’unum si moltiplichi, ma perché esso è presente tante volte quanti sono i livelli di molteplicità».

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Questo breve excursus, oltre ad averci messo dinnanzi a un tipo di relazione che ricomparirà nel rapporto tra Creatore e creato, nel quale coesistono e si intrecciano la conservazione dell’unità e l’introduzione della molteplicità, è stato utile per comprendere come la nozione di infinità numerica possieda nel pensiero di Agostino uno statuto tutt’altro che univoco e immediato. Ho privilegiato la considerazione di una concezione di tipo pitagorico-platonico secondo la quale il numero, e più precisamente l’Unità, deve essere considerata un vero e proprio principio metafisico di natura intelligibile, capace di infinita crescita nel senso che ho cercato di precisare. Ho invece trascurato la dimensione più squisitamente quantitativa che caratterizza il numero matematico.

Proprio a quest’ultimo deve essere riferita l’infinità del numero di cui parla Agostino nel corso del testo del De civitate Dei che mi ero apprestato a considerare. Il discorso si svolge infatti sul piano aritmetico-quantitativo e rimanda alla visione di stampo aristotelico sopra ricordata: il tutto dei numeri non può che essere infinito, dal momento che ogni grandezza numerica, per quanto cospicua possa essere, può sempre ricevere l’aggiunta di un’ulteriore unità, può sempre essere raddoppiata o addirittura moltiplicata per se stessa. Ogni cifra con la quale l’intelletto avrà concretamente a che fare si rivelerà perciò sempre circoscritta e composta da numeri finiti e determinati nella loro unicità, ma il fatto che rimanga aperta la strada a un illimitato processo di accrescimento dimostra come, per necessità logica, la totalità dei numeri debba essere di carattere illimitato167.

Si tratta ora per Agostino di mostrare che l’accesso a questa infinità numerica non è precluso alla scientia di Dio: in questo senso, gli viene in soccorso il testo della Scrittura, usualmente tutt’altro che generoso quanto a attestazioni esplicite dell’infinità divina, e precisamente il quinto versetto del Sal 146, il quale afferma che “l’intelligenza di Dio non può essere calcolata con il numero”168.

Il prosieguo dell’argomentazione agostiniana trae così il proprio vigore da questa attestazione scritturistica. Sarebbe empio dunque anche solo ipotizzare che la conoscenza divina, cuius non est numerus, non sia in grado di cogliere l’infinito numerico, sebbene in rapporto a esso non esista la possibilità di effettuare alcun calcolo matematico. Ciò che sorprende è piuttosto lo statuto del rapporto che si instaura tra l’Intelletto divino e l’infinità numerica: come infatti l’oggetto di conoscenza si rivela alla mente umana in quanto finito, anche l’infinito numerico, seppur in modo indicibile (ineffabili modo) risulta

167 civ. XII, 18: «Eos [scil. numeros] quippe infinitos esse, certissimum est; quoniam in quocumque numero finem faciendum putaueris, idem ipse, non dico uno addito augeri, sed quamlibet sit magnus et quamlibet ingentem multitudinem continens, in ipsa ratione atque scientia numerorum non solum duplicari, uerum etiam multiplicari potest. Ita uero suis quisque numerus proprietatibus terminatur, ut nullus eorum par esse cuicumque alteri possit. Ergo et dispares inter se atque diuersi sunt, et singuli quique finiti sunt, et omnes infiniti sunt». Cfr. Sancti Aurelii Augustini De civitate Dei libri XI-XXII, in Sancti Aurelii Augustini Opera, pars XIV, 2, ad fidem quartae editionis Teuberianae quam curaverunt B. Dombart et A. Kalb paucis emendatis mutatis additis (CCL 48, p. 375, iv-xiii)), Typographi Brepols editores pontificii, Turnholti 1955.

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finito in rapporto all’atto conoscitivo di Dio. La scientia divina è dunque capace di coniugare semplicità e molteplicità, uniformità e multiformità, e può perciò giungere a rappresentarsi tutto ciò che, al pari dell’infinità del numero, per il debole intelletto umano risulta inconoscibile169.