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Buona fede e ripartizione dell’onere della prova: nuove asimmetrie tra la posizione della Corte di Cassazione e quella dei giudici comunitari.

Nel documento Il diritto alla detrazione e le frodi Iva (pagine 191-198)

LA GIURISPRUDENZA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SULLE FRODI IVA.

3.2.22 Buona fede e ripartizione dell’onere della prova: nuove asimmetrie tra la posizione della Corte di Cassazione e quella dei giudici comunitari.

Il mutamento di indirizzo della Corte di Cassazione, di cui si è dato conto nel paragrafo precedente, ha comportato una revisione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova sino a quel momento stabiliti.

Nella giurisprudenza di Cassazione ante 2009, l’onere della prova della legittimità dell’esercizio del diritto a detrazione nel caso in cui il fisco contesti l’inesistenza “soggettiva” dell’operazione353, risulta concepito, pur con i dovuti distinguo, in modo molto simile a quello elaborato in materia di operazioni “oggettivamente” inesistenti354.

In questo caso, infatti, dal momento che l’inesistenza “soggettiva” presuppone come abbiamo visto, una divaricazione fra colui che emette la fattura (considerato “inesistente”), ed il soggetto che esegue la fornitura (qui ritenuto vero e reale), la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni, non può essere data dal contribuente (acquirente dei beni/servizi) mediante l’esibizione dei documenti contabili emessi da un fornitore “fittizio” o, se si preferisce che non esiste. Per tali ragioni la Cassazione ritiene che la prova da parte del contribuente, deve esser data attraverso riscontri che non possono esaurirsi nell’accertamento dell’avvenuta consegna della merce e di quello del pagamento della merce medesima e dell’Iva riportata sulla fattura emessa dal terzo.

Ed infatti, precisano i giudici di legittimità355:

353 Sul tema cfr., RUSSO, Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 2000,p. 375; CASTALDI, L’onere della prova. Profili sistematici, in Della Valle-Ficari-Marini, Processo tributario, Padova, 2008, p. 226.

354 Cfr. Cass., 26 gennaio 2007, n. 1727; Cass., 21 agosto 2007, n. 17799; Cass., 26 ottobre 2007, n. 22555.

355 A tal proposito la Cassazione ha precisato che “se le operazioni potessero essere fatturate da chiunque (...) salterebbe l’intero sistema dei controlli. In definitiva, la non corrispondenza tra soggetto che emette la fattura e soggetto che effettua la prestazione (...) impedisce il controllo sull’ammontare del prezzo effettivamente pagato (e che il percettore deve dichiarare nei componenti positivi del reddito) e sull’adempimento degli obblighi iva, e consente a chi lavora in nero di sottrarsi all’imposizione” (v. Cass., 20 novembre 2008, n. 27574).

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– la consegna della merce, si verifica puntualmente nell’ambito delle operazione soggettivamente inesistente;

– il pagamento della merce integra un fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità del committente/cessionario alla frode.

A ben vedere, seguendo tale impostazione, si consente all’Amministrazione finanziaria di negare la legittimità del diritto a detrazione semplicemente provando l’inesistenza soggettiva del fornitore, essendo irrilevante lo stato soggettivo dell’acquirente (di buona o mala fede).

In altri termini, l’indetraibilità dell’Iva è conseguenza immediata e diretta dell’inesistenza sul piano soggettivo di uno qualsiasi dei soggetti coinvolti nella catena fraudolenta a monte del contribuente356.

Al riguardo, il sistema probatorio messo a punto dalla Cassazione, concentrato esclusivamente sulla prova dell’inesistenza soggettiva del fornitore, conduce invariabilmente a “condannare” l’acquirente per una frode commessa da altri, cui non si sa se l’acquirente vi ha preso parte o di cui non è provato fosse a conoscenza.

Tale posizione, oltre che irragionevole - se confrontata con i principi espressi dalla Cassazione in materia di onere della prova dell’interposizione fittizia di persona, ove da sempre è stato affermato che “la prova dell’accordo simulatorio deve, necessariamente, consistere nella dimostrazione della partecipazione ad esso anche del terzo contraente”357 – risulta altresì incompatibile con l’oggettività358 che,

secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, caratterizza le operazioni imponibili Iva, a mente del quale, il comportamento illecito della controparte non può, di per sé, incidere sulla legittimità del diritto a detrazione salvo, naturalmente, il caso di abuso di chi lo invoca.

In pratica, come già a più riprese rilevato, il giudice negherà il beneficio del

diritto a detrazione soltanto se, effettivamente, risulti dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che tale diritto è stato invocato dal contribuente in modo

356 V. Cass., 11 giugno 2008, n. 15396. In senso conforme ancora, Cass., 26 febbraio 2010, n. 4750, ove si afferma che dalla dimostrazione dell’inesistenza (soggettiva) delle operazioni discende l’illegittimità della detrazione dell’Iva.

357 In tal senso, Cass.,15 maggio 1998, n. 4911; in senso conforme v. Cass., 29 maggio 1998, n. 5317; Cass., 18 maggio 2000, n. 6541; Cass., 19 ottobre 2007, n. 22024; Cass., 25 febbraio 2008, n. 4787. 358 Corte di giustizia, Optigen e altri, cit., punto 45; ID., University of Huddersfield, cit., punto 49.

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fraudolento o abusivo. E ciò, appunto, accade quando risulti che tale diritto è stato esercitato dall’acquirente non ostante egli sapesse o avrebbe potuto sapere dell’altrui frode359. La Corte ha aggiunto che, laddove sia previsto dalla normativa nazionale360, l’Amministrazione finanziaria può basarsi anche su specifiche “presunzioni di conoscenza”, a patto che ciò non comporti de facto un sistema di responsabilità oggettiva; diversamente, infatti, sarebbe violato il fondamentale principio di proporzionalità.

Solo a tali rigorose condizioni è possibile disconoscere l’applicazione del diritto comunitario a fini illeciti ed impedirne l’utilizzazione abusiva.

Quanto alla ripartizione dell’onere della prova, la dimostrazione del coinvolgimento nella frode del contribuente spetta all’Amministrazione, come chiaramente affermato nella sentenza Mahagében e Dávid. Non solo. Tale prova abbiamo visto che non può fondarsi in via esclusiva su dati e circostanze che il contribuente non ha diritto di conoscere per la semplice ragione che essi riguardano altri soggetti361.

L’indagine volta a verificare lo stato soggettivo del contribuente ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione in esame, porta a concludere come (i) il cessionario non possa nascondersi dietro il dato formalistico di una certa rappresentazione documentale quando la frattura rispetto alla realtà è di manifesta evidenza, ma (ii) non possa nemmeno disporre di poteri di verifica al di fuori del riscontro della coerenza intrinseca di quanto complessivamente rappresentato dalla propria controparte o da terzi. Ne discende che il c.d. teorema del “non poteva non sapere”, “potrà trovare applicazione soltanto in presenza di incongruenze degli

elementi rappresentati tali che, così come devono far dubitare in modo inequivoco il

359 Corte di giustizia, Kittel e altri, cit., punto 56.

360 Corte di giustizia, 7 dicembre 2005, causa C-384/04, Federation of Technological Industries, 29. 361 Sul tema cfr., MARELLO, Frodi Iva e buona fede del soggetto passivo, cit., p. 1220, il quale evidenzia che “non sussiste … nelle legislazioni europee il diritto di una parte contrattuale di conoscere l’organizzazione (di impresa) della controparte, o le ragioni per le quali questa preferisca una certa modalità di adempimento, o i fattori che giustificano un prezzo. Il “contribuente investigatore” che dubita dell’indiziarietà fraudolenta di una modalità di esecuzione dell’obbligazione della controparte e che domanda le ragioni della stessa potrebbe quindi ragionevolmente non ottenere risposta, o sentirsi dire che l’anomalia discende dalla maggiore efficienza commerciale dell’altro contraente. Esiste insomma una vasta gamma di risposte che – non essendo chiaramente indicative dell’assenza di una frode – possono essere ritenute non esaustive, lasciando un margine di incertezza sulla “serietà” della controparte”.

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contribuente della loro corrispondenza al dato reale, perché contrarie a massime di comune esperienza rigorose e condivise, altrettanto possono far dubitare l’amministrazione della inconsapevolezza, della buona fede e della diligenza del contribuente, e farle perciò presumere il contrario. Il contribuente che “non poteva non sapere”, è dunque non quello che “avrebbe potuto sapere” o che avrebbe dovuto scoprire, indagando la verità, ma quello che non è affatto credibile che abbia potuto essere così poco accorto o “disattento” da non avvedersi della manifesta falsità della “rappresentazione” documentale pervenutagli da terzi (o della manifesta anomalia dell’operazione), salva naturalmente la prova contraria»362.

Fatta questa premessa, occorre verificare se vi è stato un effettivo recepimento da parte dei giudici nazionali della giurisprudenza comunitaria in tema di tutela della buona fede e affidamento, a seguito del revirement effettuato dalla Cassazione nel 2009, di cui abbiamo trattato nel paragrafo precedente.

Ebbene, con la sentenza 12 maggio 2011, n. 10414, la Cassazione afferma che la giurisprudenza comunitaria avrebbe “posto a carico del cessionario un

obbligo di diligenza nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente, non formali (essendo evidente che ogni meccanismo fraudolento si cura in primo luogo di esibire all’esterno una apparente correttezza contabile e cartolare) ma sostanziali, nel senso di una effettiva esistenza nel cedente di una efficiente struttura operativa e della capacità di fornire autonomamente i beni acquistati, senza ovviamente pretendere un inesigibile dovere di accurata indagine, ma fondandosi su quegli elementi obiettivi (ad es. assenza di strutture, assenza di una clientela qualificata, mancanza di indici di capacità commerciale- pubblicità, giro di affari ecc.) che non possono sfuggire ad un contraente onesto che operi in un determinato settore commerciale e che in particolare (e qui è l’unica differenziazione terminologica accettabile) non devono sfuggire ad un imprenditore mediamente accorto”.

Da quanto sopra riportato, la Corte ne fa discendere che l’onere della prova in caso di frodi carosello grava sull’Ufficio, nel senso che questi deve provare: (1) gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di “cartiera”, la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’Iva e

362 MONDINI, Falso materiale e ideologico nelle frodi iva e tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente nell’apparenza di situazioni fattuali e giuridiche prodotta da terzi, cit.

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simili; (2) la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente però con prova “certa” ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purché dotati del requisito di gravità precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi - che possono coincidere con quelli sub) 1 - tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente, il quale non può non rilevarla e peraltro deve coglierla, per il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata.

Qualora, con giudizio di fatto rimesso al giudice del merito, l’Amministrazione abbia fornito una prova nei termini di cui sopra, l’onere a carico della medesima si intende assolto e grava sul contribuente l’onere della prova contraria.

In altri termini, a detta della Corte di Cassazione la prova della consapevolezza della frode da parte del cessionario può essere fornita anche semplicemente attraverso presunzioni attinenti non allo svolgimento dell’operazione bensì alla natura di interposto del cedente363.

In questo senso la pronuncia de qua, pur ribadendo, l’indispensabile disamina della consapevolezza, da parte dell’acquirente, dell’illecito commesso dal fornitore, trasla sul contribuente l’onere di dimostrare la propria buona fede (da intendersi, evidentemente, come inconsapevolezza della frode altrui).

Non possiamo che affermare che la sentenza in rassegna si pone in contrasto con gli insegnamenti della Corte di Giustizia.

Secondo quest’ultima, come già osservato nella seconda sezione del presente capitolo, la dimostrazione della prova della “soggettiva inesistenza” dell’operazione, ossia, in pratica, del comportamento fraudolento del fornitore (o cedente) è insufficiente per negare il diritto alla detrazione dell’Iva degli altri operatori che con esso concludono affari. Per i giudici comunitari, infatti, non assurgono al rango di “elementi oggettivi”, in grado di supportare, da soli, l’ipotesi della conoscibilità della

363In questo senso anche Cass., Sez. V, 20 gennaio 2010, n. 867. Fanno proprie le conclusioni della sentenza, successivamente, anche Cass., 23 settembre 2011, n. 19530; ID., 6 giugno 2012, n. 9107; ID., 20 giugno 2012, n. 10167-10168 e 10170. La sentenza n. 10167 è pubblicata anche in Riv. giur. trib., 2012, p. 747 e s. con nota di MANZITTI - FANNI, La nuova disposizione sui “costi da reato” e la soggettiva inesistenza al “test” delle prime (timide) applicazioni giurisprudenziali.

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frode, la qualifica di soggetto passivo, la disponibilità di un’adeguata struttura e dei beni ceduti, etc. E ciò, a meno che, al contempo, l’Amministrazione finanziaria abbia provveduto a dimostrare (anche per presunzioni) che detto comportamento risultava necessariamente conosciuto o, almeno, conoscibile dalle controparti negoziali.

A ben vedere, alla base della sentenza della Cassazione qui in commento, vi è ancora il vecchio approccio (fondato sulla centralità del criterio dell’inesistenza), in cui inesistenza oggettiva e soggettiva tendono a sovrapporsi.

È, infatti, soltanto nei casi di inesistenza oggettiva che può valere il principio secondo cui “qualora l’amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni”364. E ciò, per la banale ragione che, soltanto l’inesistenza dell’operazione in rerum natura rientra, pacificamente, in una situazione giuridica oggettiva di conoscibilità. Detto altrimenti: l’operatore che riceve una fattura per un bene o servizio mai ricevuti, è perfettamente dell’inesistenza dell’operazione. Lo stesso, invece, non può concludersi quando l’operazione è stata realmente compiuta, ma da operatore diverso da quello che ha emesso la fattura (c.d. operazione soggettivamente inesistente)365.

Vi è, quindi, il rischio concreto che persistere nel consentire all’Amministrazione finanziaria di negare il diritto a detrazione limitandosi a dedurre l’inesistenza soggettiva dell’operazione, finisca con il penalizzare eccessivamente il contribuente, conducendolo (ingiustamente) a soccombere, anche quando agli atti manchi completamente la prova di un abuso.

In definitiva, quindi, è giusto pretendere dal contribuente la prova che egli “non sapeva e non poteva sapere”, ma solo a patto che, sul punto, l’Amministrazione abbia – per prima – assolto (in ossequio ai principi generali) il relativo onere dimostrativo.

Altrimenti si finisce, come già anticipato, per soggettivizzare il meccanismo frodatorio, con conseguente elevazione del fatto in sé di aver iscritto i propri acquisti in una filiera fraudolenta a presunzione grave, precisa e concordante, idonea quindi

364 Così Cass., 21 gennaio 2011, n. 1364, la quale (a riprova della menzionata confusione di fondo fra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti) richiama Cass., 19 ottobre 2007, n. 21953, pronunciata in un caso di operazioni oggettivamente (e non soggettivamente) inesistenti.

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a scaricare sul contribuente l’onere della controprova, senza che riescano a desumersi dalla sentenza quali siano gli elementi in grado di disinnescare l’efficacia del ragionamento presuntivo.

Recentemente, purtroppo, la Cassazione ha, se possibile, rincarato la dose, addossando sul contribuente (in presenza della prova dell’inesistenza soggettiva del suo fornitore) l’onere di provare che egli “non sapeva e non poteva sapere della frode”. A tal fine basta leggere le ultime ordinanze della Cassazione sul tema, ossia: le ordinanze n. 13825 e 19217 del 2012366; le ordinanze n. 6400, n. 7900, n. 8011, n. 10252, n. 13825, n. 14960, n. 16456, n. 16457, n. 16458, n. 16459, n.16462, n. 17000 e n. 17003 del 2013367, che riprendono tutte le affermazioni contenute nella citata sentenza n. 10414 del 2011.

Nello stesso filone interpretativo si pone anche la sentenza n. 12961 del 2013368 nella quale i giudici di Cassazione affermano che “la totale assenza di

struttura societaria, l’assenza di dipendenti e di beni strumentali, la mancanza di una contabilità regolare e l’assenza di qualunque documentazione attestante l’inserimento delle due società cedenti nell’ambito del settore delle esportazioni, coniugate alla falsità della dichiarazione in ordine alla qualifica di esportatore abituale si pongono come dati rilevanti ed imprescindibili ai fini della valutazione demandata al giudice, tenuto conto che, come già chiarito da questa Corte, costituiscono “fondati sospetti” che la società verificata abbia partecipato ad operazioni imponibili “soggettivamente” inesistenti volte a evadere l’imposta sul valore aggiunto l’avere intrattenuto ripetuti rapporti commerciali con società sfornite di personale adeguato, di beni aziendali ovvero comunque prive di adeguata struttura organizzativa di impresa - c.d. società fantasma - in relazione alle operazioni commerciali in concreto svolte - cfr. Cass. n. n. 12625 del 20/07/2012-“.

Si ribadisce quindi che bastano le caratteristiche del cedente (mancanza di adeguata struttura) e la sua condotta (presentazione di dichiarazioni di intento false, tenuta di una contabilità irregolare) a dimostrare la consapevolezza del cessionario,

366 Cass., Sez. VI, ord. 1 agosto 2012, n. 13825; Cass., Sez. V, ord. 7 novembre 2012, n. 19217. 367Cass., Sez. VI, ord. 13 marzo 2013, n. 6400; Cass., Sez. VI, ord. 28 marzo 2013, n. 7900; ID., 2 aprile 2013, n. 8011, ID., 2 maggio 2013, n. 10252; ID., ord. 1 luglio 2013, n. 16456, 16457, 16458, 16459 e 16462; ID., ord. 9 luglio 2013, n. 17000; ID., ord. 9 luglio 2013, n. 17003.

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tesi questa che si pone, come già rilevato, in eclatante contrasto con quanto affermato dalla Corte di Giustizia369.

Tirando le fila del discorso, possiamo affermare che, sebbene da un lato la Corte di Cassazione ha preso atto delle sentenze comunitarie che sanciscono la tendenziale detraibilità dell’Iva da parte del contribuente anche in ipotesi di frode, salvo malafede dello stesso, dall’altro lato, la stessa non rinuncia né all’utilizzo della categoria delle operazioni soggettivamente inesistenti (sorta di perno su cui ruota, nella prospettazione della Cassazione, il meccanismo ingannatorio realizzato dagli organizzatori della frode), né al consolidato schema di ripartizione dell’onere della prova.

Nel documento Il diritto alla detrazione e le frodi Iva (pagine 191-198)

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