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Osservazioni conclusive: abuso del diritto e necessità di regolamentazione ex lege.

Nel documento Il diritto alla detrazione e le frodi Iva (pagine 101-108)

LIMITAZIONE DEL DIRITTO ALLA DETRAZIONE IN IPOTESI DI ABUSO DEL DIRITTO.

3.1.9. Osservazioni conclusive: abuso del diritto e necessità di regolamentazione ex lege.

In questa prima parte del capitolo terzo abbiamo cercato di delineare i confini della nozione di abuso del diritto in ambito Iva.

È stato rilevato che tale nozione deriva direttamente dalla giurisprudenza comunitaria e consente agli Stati membri, anche in assenza di una specifica norma nazionale, di individuare e reprimere le pratiche abusive. Più incisivamente, “l’inopponibilità al Fisco delle operazioni abusive in materia di Iva e di tributi c.d.

“armonizzati” è una clausola generale antielusione di matrice comunitaria, avente rango di diritto comunitario primario, operate anche in difetto di una specifica disciplina nazionale”200.

Alla luce anche della casistica affrontata dalla Corte di giustizia, abbiamo visto, poi, che si definiscono come abusive le pratiche tese alla manipolazione delle condizioni di applicazione delle disposizioni contenute nella Direttiva Iva con lo scopo essenziale dell’ottenimento di un vantaggio fiscale, la cui concessione sarebbe contraria agli obiettivi perseguiti dalla Direttiva stessa201.

Dall’altro lato, abbiamo chiarito che comunque anche operazioni volte a ottenere unicamente un vantaggio sul piano tributario possono non costituire una pratica abusiva, se quel vantaggio è ammissibile secondo il sistema dell’Iva.

Sul perimetro dell’azione abusiva, occorre ribadire che vi è una differenza di approccio e prospettiva tra l’orientamento del giudice nazionale e quello del giudice comunitario.

200 Cass., 19 maggio 2010, n. 12249, caso Olimpiclub, punto 4.3.

201 Le norme oggetto di tale manipolazione sono quelle che attribuiscono al contribuente specifici diritti fiscali (ad esempio diritto all’esenzione, alla non imponibilità di determinate operazioni o, semplicemente, diritto alla detrazione), o comunque posizioni giuridiche soggettive che si possono definire di vantaggio perché si traducono nell’ottenere un minor gravame fiscale (ad esempio regimi speciali, Iva di gruppo ecc.) o, viceversa, nell’attenuare alcune situazioni svantaggiose derivanti dalla stessa disciplina Iva (ad esempio un pro-rata di detraibilità ridotto a causa dell’effettuazione di operazioni esenti. Cfr. per un approfondimento sul tema, MONDINI, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pacini, 2012, p. 281 e ss.

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Per maggiore chiarezza citiamo alcuni passaggi della sentenza del giudice di legittimità nel caso Olimpiclub. A detta di quest’ultimo, “dalle fonti e dalla

giurisprudenza comunitarie, [si rileva] un tendenziale divieto di abuso del diritto, inteso come divieto al ricorso meramente abusivo e sviante a forme e strumenti giuridici» da cui derivi «un regolamento contrattuale posto in essere al solo scopo di garantirsi un risparmio fiscale». Ancora più in dettaglio, il divieto di abuso riguarda

e comprende “tutte quelle operazioni che, seppur realmente volute ed immuni da

invalidità (e, quindi, pur prescindendo da simulazioni e fraudolenze), risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiuti essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale (laddove l’uso dell’avverbio “essenzialmente” rileva che l’illecito non è escluso dalla concomitante ricorrenza di ragioni economiche diverse dal mero risparmio fiscale, se marginali o teoriche e, in quanto tali, insufficienti a sorreggere una valida giustificazione alternativa dell’operazione)” (v. punto 4.4. della sentenza

citata).

Nel pensiero della Cassazione, dunque, l’abuso di diritto va rilevato da un insieme di elementi obiettivi da cui si possa trarre l’assenza delle cd. “valide ragioni economiche” dell’atto compiuto.

Non è tanto il primo aspetto che preme qui esaminare, cioè, l’insieme degli elementi obiettivi, quanto il secondo, riferito, secondo l’impostazione della Corte di Cassazione, al risultato, che viene ammesso o non ammesso, non tanto in relazione all’inderogabilità delle norme tributarie, quanto al divieto (non relativo ma) assoluto del risparmio fiscale, considerato sempre “illecito”, quando esso rappresenti l’unica o preponderante ragione economica degli atti posti in essere, quale risultato di una condotta improntata unicamente o “essenzialmente” al risparmio fiscale.

Diversa è, però, l’indicazione che proviene dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui l’abuso di diritto, cioè, l’aggiramento delle norme tributarie, non è punito tanto (e solo) in dipendenza del risparmio di imposta, quanto rispetto alla valutazione del risultato che deve essere contrario alle disposizioni fiscali202.

202Distinzione da cui deriva, come già riportato in precedenza, la suddivisione tra abuso “buono”, cioè, ammesso (in quanto al risultato) dalle norme, e “cattivo”, cioè, non ammesso, altrove suggerita: cfr. CENTORE, Simulazione e abuso nel rapporto tributario, commento a CTP Reggio Emilia n. 360/2007, in GT - Riv. giur. trib. n. 10/2007, pag. 879.

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Questo principio di valutazione comparata del risultato rispetto alla legislazione e non al “risparmio” si manifesta non solo per l’Iva, ma anche per l’imposizione diretta203.

In ambito Iva, l’abuso non è, quindi, il semplice risparmio, ma l’applicazione dell’imposta quando essa non sia dovuta o, esattamente al contrario, la disapplicazione di essa, quando, invece, sia dovuta, con un risultato che, in sintesi, possa incidere sui principi che proteggono l’imposta e, ancora più in particolare, il principio di detrazione204.

Fuori da tali ipotesi, invece, deve essere riconosciuta e garantita la libertà del soggetto passivo di scegliere e di adottare le forme e le tipologie delle operazioni commerciali, delle strutture organizzative e delle modalità operative della propria attività economica che ritenga più idonee a soddisfare i propri interessi, incluso quello di ridurre l’onere fiscale o comunque di fruire di vantaggi fiscali. La Direttiva infatti non impone di effettuare la scelta che implica un maggior debito d’imposta; la ricerca del risparmio rimane dunque lecita purché si mostri rispettosa del principio di neutralità, della parità di trattamento e concorrenziale e della natura dell’Iva quale imposta generale sul consumo.

Solo qualora tale limite venga travalicato si creerà una contraddizione tra il risultato perseguito dal singolo e il fine perseguito dal sistema normativo, seppure attraverso l’utilizzo del medesimo “mezzo” giuridico, che dovrà pertanto essere rimossa nei suoi effetti.

Le misure anti-abuso e anti-evasione devono in ogni caso risultare congrue e “proporzionate” rispetto al singolo caso concreto e al fine perseguito. Pertanto, esse possono derogare a disposizioni della Direttiva soltanto se ricorre effettivamente un rischio concreto di evasione o elusione.

Abbiamo visto che questo fa emergere un problema rilevante nell’ottica del principio di proporzionalità, considerando anche l’indeterminatezza semantica del concetto di abuso del diritto che la giurisprudenza comunitaria è venuta finora elaborando e che, come si è visto, lo rende prima facie idoneo a inglobare figure

203 Sul punto cfr. Commissione europea, COM. (2007)785 cit.

204 Tanto è vero che, nel caso Bupa Hospital cit., è stata censurata l’applicazione dell’IVA in luogo dell’esenzione: cioè, una situazione che, se giudicata con il metro del “risparmio”, non troverebbe collocazione nell’ambito delle pratiche abusive.

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diversissime fra loro, dalla classica condotta elusiva fino all’evasione in senso stretto, attuata mediante mezzi fraudolenti o simulatori.

La distinzione tra frode e abuso, in assenza di una predeterminazione normativa delle pratiche ascrivibili all’uno o all’atro dei comportamenti richiede necessariamente una valutazione da effettuarsi caso per caso.

Nei suoi termini essenziali, i contorni della frode sono delineati nell’operazione artatamente posta in essere allo scopo di ottenere un indebito vantaggio: diverso, in senso strutturale, è l’abuso di diritto, il cui limite viene identificato nella libertà riconosciuta alle parti di costruire l’operazione nel modo più vantaggioso possibile, purché nel rispetto dei fini perseguiti dal sistema.

In relazione agli effetti dell’abuso va innanzi tutto ricordato, come insegna la Corte di giustizia e come riconosce la stessa Amministrazione finanziaria, che deve essere garantita la cd. restitutio ad integrum, cioè, il ripristino della situazione effettiva, danneggiata dall’abuso, riconoscendo non solo il rimborso delle imposte pagate nell’esecuzione dell’operazione abusiva ma i diritti (e, in particolare, la detrazione, trattandosi dell’Iva) ammessi nella conduzione, si può dire, “normalizzata” dell’operazione.

Del resto la correzione dell’abuso del diritto è implicata dallo stesso divieto, dal momento che questo ha la funzione di integrare il sistema in modo da impedire che le norme producano risultati qualificabili come “ingiusti” se rapportati agli scopi del sistema stesso.

Non è peregrino ipotizzare che, intesa in questo modo la clausola generale anti-abuso operi come norma che attribuisce all’Amministrazione finanziaria un vero e proprio potere di integrazione della disciplina positiva delle fattispecie tributarie rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Si tratta di un potere destinato a correggere le patologiche manipolazione della normativa, ossia il suo aggiramento rispetto ai fini perseguiti dal sistema.

Ne consegue che le Amministrazioni finanziarie degli Stati membri, chiamate a verificare la corretta attuazione della normativa Iva, possono, in virtù della clausola generale antielusiva, giungere a negare radicalmente al contribuente l’esercizio di determinati diritti vantati sulla base di quelle norme (come ad esempio il diritto di detrazione), al fine di prevenire o ostacolare una pratica abusiva, elusiva o evasiva.

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Le singole Amministrazioni dei diversi Stati membri potrebbero, così, di fatto, alterare, il meccanismo di funzionamento del tributo e la sua neutralità impositiva con lo stesso effetto di una deroga normativa, ma senza dover soggiacere alla procedura di autorizzazione formale di cui all’art. 395 della Direttiva Iva (già art. 27 della Sesta Direttiva, citato); senza cioè dover passare attraverso il giudizio preventivo dell’Unione circa la proporzionalità del mezzo prescelto e, quindi, il bilanciamento di interessi “accentrato” a livello comunitario.

Un ulteriore aspetto problematico riguarda l’applicazione delle sanzioni, sulle quali la Cassazione, in diverse sentenze205 si espressa osservando che l’accertamento di un maggiore imponibile Iva, conseguente al disconoscimento di un’operazione per il suo carattere abusivo, non comporta un’automatica esclusione delle sanzioni, dovendosi applicare la relativa disciplina.

L’osservazione, seppur fugace, è precisa e in palese favore della tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria che non sembra avere dubbi sull’applicabilità delle sanzioni previste normativamente anche alle ipotesi cd. abusive.

Di diverso orientamento è, invece, la Corte di Giustizia che, nella sentenza “Halifax” citata (cfr. punto 93) evidenzia che “la constatazione dell’esistenza di un

comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’IVA assolta a monte (v., in tal senso, sentenza “EmslandStärke”, cit., punto 56)”.

L’indicazione giurisprudenziale comunitaria, che costituisce “diritto vivente” direttamente applicabile nel nostro ordinamento, chiede dunque, un ripensamento sul tema delle sanzioni applicabili all’abuso, tenendo conto, oltre tutto, del principio di proporzionalità, che impone di eseguire una valutazione differenziata fra frode e abuso, sotto pena, in caso contrario, dell’appiattimento delle sanzioni all’ipotesi, certamente diversa e più grave, della frode.

A tal proposito, occorre ricordare, inoltre, che una condotta abusiva/elusiva è, in realtà e al di là di tutte le sfumature sulla definizione operativa del concetto, il profittamento da parte del contribuente delle maglie lasciate aperte dalla lettera della legge, legge che è essa stessa “disallineata” rispetto al suo stesso spirito. Nel caso in

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cui la lettera della legge non sia in linea con le sue finalità, e quindi il rispetto di essa comporti una frustrazione degli obiettivi, esiste probabilmente un “concorso di colpa”, tra il contribuente da un lato e il legislatore dall’altro.

Si deve quindi trovare un punto di equilibrio, che non sussisterebbe qualora fosse prevista l’esposizione del contribuente non solo all’obbligo tributario ma anche a sanzioni per il suo atteggiamento elusivo. È corretto, sulla base di tale necessaria simmetria, che il contribuente elusore sia sottoposto all’obbligo di pagare il tributo, ma è fortemente dubbio che il suo dovere si possa spingere fino al punto di dovere salvaguardare lo spirito della legge più di quanto lo abbia fatto il legislatore stesso. Sembra possibile affermare che il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione per come specificato dall’art. 53, imponga di corrispondere il tributo sulla fattispecie elusa, ma sembra precluso affermare che tale dovere di solidarietà implichi anche il dovere di integrare contra se delle disposizioni di legge, in contrasto con il loro significato, con effetti sanzionatori di tipo punitivo in caso di inadempimento206.

Tali argomenti risultano poi potenziati al quadrato laddove si tratti del contrasto dell’elusione non fondato su norme di legge, ma su vaghe clausole di origine giurisprudenziale, come quella in esame.

Quanto sopra riportato, deve essere affermato con forza ancora maggiore in campo penale. Come illustrato nei paragrafi precedenti, il concetto di “abuso del diritto”, oltre che essere di mera creazione giurisprudenziale, è vago ed indeterminato, costruito esclusivamente su elementi di diritto. Al contrario le fattispecie penali sono caratterizzate dalla tipicità degli elementi costitutivi, che fanno perno su dati di fatto e su comportamenti specificamente descritti. Da sempre si afferma e si insegna che, in omaggio al canone fondamentale dell’art. 25 cpv. Cost., il diritto penale è tipico, fondato su elementi fattuali circoscritti e specificamente individuati. L’istituto dell’abuso del diritto, invece, si caratterizza per la sua indeterminatezza concettuale e la sua vischiosità applicativa, ed è quindi del tutto all’opposto del diritto penale voluto dalla nostra Costituzione.

206 Rileva il carattere quasi paradossale di tale conclusione LUNGHINI, Elusione e principio di legalità: l’impossibile quadratura del cerchio?, in Riv. dir. trib., 2006, I, p. 657.

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Alla luce di tutte le problematiche esposte nelle pagine precedenti, si rende quanto mai necessaria una regolamentazione ex lege del tema, poiché il principio generale antiabuso è ancora applicato dalla giurisprudenza in modo spesso asistematico e irrazionale: vi si fanno rientrare operazione di semplice evasione, che ben meriterebbero le sanzioni, o, al contrario, situazioni di legittimo risparmio d’imposta. In questo senso, il contenuto della clausola generale antielusiva andrebbe specificato meglio, in modo da tenere conto delle peculiarità dei singoli tributi e in modo da fornire ai contribuenti standards ragionevoli e durevoli su cui poter parametrare le proprie scelte in ambito fiscale.

CAPITOLO III

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