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La prospettiva della giurisprudenza nazionale: le “operazion

Nel documento Il diritto alla detrazione e le frodi Iva (pagine 172-175)

LA GIURISPRUDENZA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SULLE FRODI IVA.

3.2.17 La prospettiva della giurisprudenza nazionale: le “operazion

inesistenti”.

Giunti a questo punto dell’indagine, si tratta ora di verificare come

l’obiettivo comunitario di combattere le frodi Iva sia declinato dalla giurisprudenza nazionale.

Come abbiamo già visto nei capitoli precedenti, data la rigidità e i limiti intrinseci dell’azione legislativa di integrazione positiva, la giurisprudenza (sia comunitaria che nazionale) gioca da alcuni decenni un ruolo di primo piano nell’interpretazione del diritto comunitario così come nella declinazione concreta degli obiettivi dell’Unione.

La dimensione del fenomeno è facilmente intuibile. L’impatto del diritto comunitario, nell’interpretazione data dalla Corte di Giustizia, produce cambiamenti sostanziali nell’ordinamento tributario degli Stati Membri. Tutti i poteri dello Stato sono infatti chiamati a veicolare nel sistema interno le soluzioni del giudice comunitario: il legislatore, la prassi dell’amministrazione fiscale e ovviamente i giudici nazionali sono attori di questo processo, che produce l’effetto di un graduale svuotamento di contenuto della sovranità statale, senza tuttavia cancellarne formalmente la facciata.

Per tale ragione, la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di frodi Iva verrà analizzata in questa sede proprio alla luce dei risultati raggiunti in ambito comunitario e di cui si è dato conto nella precedente sezione.

In questo scenario, occorre premettere che la Corte di Cassazione ha elaborato negli anni un proprio strumentario argomentativo nel tentativo di contrastare nella maniera più efficacia possibile le frodi Iva, discostandosi per molti versi dalla giurisprudenza della Corte del Lussemburgo.

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Mettendo infatti in relazione la giurisprudenza comunitaria con quella nazionale emergono due “modelli giuridici” diversi per affrontare il problema della responsabilizzazione e del riparto delle responsabilità tra gli operatori economici, in caso di frodi imputabili ad una sola delle parti o addirittura a terzi.

Quello comunitario, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza, postula l’esistenza di un dovere di accortezza e di vigilanza in capo agli operatori, immanente allo stesso sistema d’imposizione dell’Iva, e collega la responsabilità alla violazione di questo dovere e alla consapevolezza, anche solo potenziale, della frode, valorizzando espressamente gli status soggettivi di buona e mala fede, con tutte le incertezze inerenti alla loro verifica, dato che poi non predetermina quali siano gli elementi obiettivi da cui poterli inferire.

Quello nazionale è, come sottolineato dalla dottrina, “di tipo “chiuso”304, perché fonda il riparto della responsabilità su ipotesi cristallizzate di inadempimento di obblighi strumentali (e quindi su violazioni tipizzate), e piuttosto che formulare in modo esplicito presunzioni legali assolute di partecipazione o di conoscenza delle frodi altrui (o, al più, con possibilità di prova contraria limitata e vincolata) preferisce dissimularle introducendo specifici e obiettivi presupposti di responsabilità solidale del cedente, o del cessionario”305.

Questo scollamento di soluzioni e prospettive tra il giudice comunitario e quello nazionale è dovuto in gran parte al fatto che la giurisprudenza della Cassazione sulle frodi nasce, almeno inizialmente, come giurisprudenza in materia di operazioni inesistenti; nozione, quest’ultima, che come abbiamo avuto modo di esaminare, è totalmente sconosciuta nonché irrilevante in ambito comunitario.

In ambito nazionale, invece, tale nozione è positivizzata.

Segnatamente, l’art. 21, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che “se

viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relativi sono indicate in misura superiore a quella

304 DI SIENA, Operazioni soggettivamente inesistenti e detraibilità dell’iva, in Rass. trib., p. 2007, 201 ss.

305 MONIDINI, Falso materiale e ideologico nelle frodi iva e tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente nell’apparenza di situazioni fattuali e giuridiche prodotta da terzi, cit.

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reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”306.

Per intendersi su quale sia il significato da attribuire alla locuzione “operazioni inesistenti” occorre fare riferimento alla disciplina penal-tributaria e, più in particolare, all’art. 1, comma 1, lett. a), del D. Lgs. n. 74 del 2000 che recita espressamente “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si

intendono le fatture e gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”. Non solo, quindi, esiste, seppur in ambito penale, una definizione

normativa della fattispecie, ma la formulazione della disposizione testé citata accomuna le fatture fittizie dal lato oggettivo, quelle emesse a fronte di cessioni di beni e prestazioni di servizi non realmente effettuate, alle fatture che, riferendo l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, si palesano come inesistenti da un punto di vista soggettivo.

Si assiste pertanto alla sostanziale assimilazione tra le due ipotesi di operazioni “oggettivamente” e “soggettivamente inesistenti”, dato che, come si è rilevato in dottrina, “sostenere che l’operazione si è verificata tra soggetti diversi da quelli apparenti costituisce una variante dell’affermazione secondo cui l’operazione non si è verificata”307.

Ebbene, se l’operazione può essere considerata soggettivamente inesistente a prescindere dallo stato soggettivo dell’acquirente (che potrebbe essere anche di totale buona fede) e se, come si è visto, dalla mera non corrispondenza tra cedente effettivo e fatturante fornitore (che non abbia versato l’imposta) si fa derivare l’indetraibilità dell’Iva in capo all’acquirente, è agevole comprendere che il divario con la

306 Il corrispondente art. 203 della direttiva rifusa stabilisce che “l’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”.

307 Così MARELLO, Oggettività delle operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, in Riv. dir. fin. Sc. fin., 2008, II, p. 39; ID., Frodi Iva e buona fede del soggetto passivo, in Giur. it., 2011, p. 1216, il quale molto opportunamente evidenzia l’aspetto, facendo da ciò derivare la condivisibile affermazione secondo la quale la Cassazione, ma si avrà modo di vederlo nel proseguo, adotta una prospettiva “eminentemente oggettiva”. Conformi MONDINI, L’emissione di fatture soggettivamente false impedisce al cedente intracomunitario di avvalersi del regime di non imponibilità della cessione, cit.

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giurisprudenza comunitaria che si impernia sulla rilevanza dell’elemento soggettiva della conoscenza o conoscibilità della frode da parte del soggetto passivo diventa incolmabile.

Infatti, mentre a livello comunitario si afferma che il diritto alla detrazione è tendenzialmente inviolabile, a meno che l’Amministrazione finanziaria non provi, sulla base di elementi oggettivi, che il soggetto passivo che lo invoca sapeva o

avrebbe dovuto sapere di aver partecipato ad un’operazione fraudolenta, a livello

nazionale la prospettiva è ribaltata: in caso di operazione soggettivamente inesistente il diritto alla detrazione è in linea di principio negato, salvo che il contribuente si opponga dando dimostrazione dell’esistenza dell’acquisto effettuato.

Nel documento Il diritto alla detrazione e le frodi Iva (pagine 172-175)

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