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4 “Molte anime mortali” 631 L’individuo molteplice di Proust

4.2 Molteplicità sincroniche

Ma quelle che Proust descrive sono morti piuttosto strane, visto che i morti, in questo caso, non sono necessariamente morti, ma continuano talvolta ad esistere accanto agli altri io che via via nascono scalzando i vecchi. Si delinea così un secondo modello di pluralità egologica all’interno della Recherche proustiana; una pluralità sincronica, per cui non solo gli io si succedono alla guida della stessa (supposta) unità personale, ma essi coesistono, e la sua stessa esistenza è dunque l’esito di una cooperazione a più mani. L’immagine che Proust usa è quella già citata del volto “a grappolo” delle divinità orientali655, in cui ciò che si dà come unità è in realtà il prodotto di una serie di piccoli volti indipendenti, ognuno dei quali è di per sé un singolo io, del resto non indipendente dalla serie. Il modello – largamente diffuso nella cultura francese del tardo Ottocento, di cui Proust si dimostra, qui come altrove, figlio – è quello geologico: l’io viene concepito come una struttura stratigrafica, in cui gli io deceduti vengono di volta in volta sotterrati e sostituiti da una nuova superficie egologica. Non si tratta solo di ereditare il paradigma polare “superficiale-profondo”, molto utilizzato (si pensi a Ribot, o allo stesso Bergson, oltre a Proust), ma si tratta di trattare l’io come una complessa e instabile cooperazione di strati diversi. Per maggiore chiarezza, cominciamo da un passo di Albertine disparue: “I vecchi giorni coprono a poco a poco quelli che li hanno preceduti, e vengono a loro volta sepolti da quelli che li seguono. […] Il nostro io è fatto della sovrapposizione dei nostri stati successivi. Ma questa sovrapposizione non è immutabile come la stratificazione di una montagna. Incessanti sollevamenti fanno affiorare alla superficie strati più antichi”656. Non si tratta qui solo degli eventi metacronici di resurrezione di un io

654 Si prenda ad esempio della lettura proustiana dell’identità diacronicamente dispersa e ricostruita sotto il medesimo nome per comodità, semplicità, pigrizia, doveri sociali, quanto il narratore dice circa la sguattera di Combray: “La sguattera era un’entità morale, un’istituzione permanente a cui delle attribuzioni invariabili assicuravano una specie di continuità e di identità, attraverso alla successione delle forme passeggere in cui s’incarnava: giacché non se ne ebbe mai la stessa due anni di seguito” (CS, p.98).

655 Cfr. il già citato JF, p. 591. 656 AD, p. 155.

sepolto (un momento di reminescenza attraverso un inaspettato fenomeno di memoria involontaria), cui pure Proust fa riferimento nello stesso passo: si tratta anche (e per quanto ci riguarda al momento soprattutto) della coesistenza e della convivenza di io diversi, e del frequente ritornare a farci visita di io che credevamo scomparsi. È in un certo senso il versante romanzesco di ciò che sono le resurrezioni sul versante poetico: in esse si tratta di una resurrezione, del nascere corrispettivo di un essere extratemporale, di una visione stereoscopica che rivela un’essenza, vale a dire un coincidere di prospettive, vale a dire a sua volta la scoperta di una verità che si riveli attraverso una comparazione metaforica di due momenti e di due io distanti temporalmente. Qui invece ci si trova talvolta (spesso la rappresentazione di questi momenti sconfina nell’ironico, quando non nel comico vero e proprio657) a ricevere le visite di io che credevamo sepolti e che senza un particolare motivo ritornano ad agire in noi, oppure dell’arrivo a sorpresa di un nuovo io, che inspiegabilmente non sa quasi nulla di noi e del nostro passato. Esempi del primo tipo li troviamo in Swann, quando, ormai indifferente a Odette, si trova a condurre ancora delle ricerche per scoprire come l’abbia tradito (è evidente che non è l’io attuale di Swann a condurre queste indagini, ma il vecchio io, ancora paradossalmente attivo, che aveva amato Odette)658, o nel narratore stesso nel burrascoso periodo successivo alla fuga di Albertine (è una sorta di surreale processione di vecchi io che ritornano a far visita, come ad un funerale, all’io che ha subito la perdita dell’amata; “ce ne erano alcuni che non rivedevo da parecchio tempo; per esempio l’io che io ero quando mi facevo tagliare i capelli”659). Un esempio del secondo tipo è invece, dopo la morte di Albertine, l’insorgere di nuovi io, che si rivelano indifferenti alla notizia del lutto, essendo venuti troppo tardi per conoscere la defunta660. Non si tratta solo dunque di essere composti da un “grappolo” di io diversi, da un polipaio di cellule indipendenti (per usare un’espressione cara alla psicologia dell’epoca e vedremo tra poco quanto rilevante nella formazione e nelle

657 Si pensi a Walter Benjamin, che identifica una delle cifre caratteristiche di Proust nella comicità (“La caratteristica di Proust non è l’umorismo, ma la comicità; in lui, il riso non solleva il mondo, ma lo scaraventa a terra”, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 33). 658 Cfr. JF, p. 117.

659 AD, p. 19.

660 Cfr. anche per esempio JF, p. 3, in cui si dice che Swann ha aggiunto alle precedenti una nuova personalità, che sarebbe quella di marito di Odette.

concezioni di Proust): si tratta anche di esperire un continuo sfasamento temporale tra questi io coesistenti. Avendo vissuto porzioni diverse della nostra vita, essendo stati partecipi di eventi diversi, essendo stati alla guida del nostro agire per periodi diversi, essi amano cose diverse, sanno cose diverse, sono sensibili ad eventi diversi, spesso neanche sono in grado di comprendersi veramente. La nostra esistenza si sviluppa così in modo tutt’altro che cronologico661: ad io attuali si alternano vecchi io, che credevamo scomparsi, e “il calendario del cuore raramente coincide con il calendario dei fatti”662.

Proust arriva perfino a configurare in termini “burocratici” (e in certo modo anche gerarchici) la struttura dell’io. Come se l’io fosse una sorta di istituzione impersonale, organizzata secondo uffici diversi, sottouffici, segreterie, ognuna delle quali svolga funzioni diverse, e non necessariamente consapevoli. Così è un segretario per lo più digiuno di nozioni sul passato dell’istituzione, assunto di recente, quello che viene incaricato di scrivere meccanicamente il nome di Gilberte su di una lettera; mentre quello stesso nome sconvolgerebbe i funzionari di uffici diversi (uffici forse soppressi da tempo), che pure non ne vengono neanche a conoscenza663. Ci troviamo di nuovo al limite di una rappresentazione dell’io di stampo surrealista: siamo convinti del resto che un’analisi dei passi proustiani che più si muovono in direzione del surreale (si pensi peraltro che il movimento surrealista si andava affermando contemporaneamente alla stesura della Recherche) potrebbe portare notevole materiale a sostegno della tesi generica di una scomposizione dell’io nel romanzo proustiano664.

661 Cfr. JF, p. 261-2.

662 Ci si riferisce qui all’incapacità di esperire qualcosa nel momento in cui lo si vive, il che comporta che eventi già vissuti siano esperiti a distanza anche di molto tempo: il caso più famoso è quello che prende il significativo titolo di “Intermittenze del cuore”, e che descrive come la morte della nonna sia realmente esperita dal narratore solo a distanza di un anno dalla sua effettiva scomparsa, attraverso il gesto, di per sé insignificante, di allacciarsi uno stivaletto (Cfr. SG, pp. 190-200).

663 Cfr. SG, p. 169.

664 È in particolare Theodor W. Adorno, Piccoli commenti a Proust in Note per la letteratura, cit., in particolare alle pp. 197-199) ad aver per primo segnalato la vicinanza (anche sul piano della carica eversiva dell’arte) di Proust alla grande avanguardia francese coeva. La sua osservazione parte da un altro brano, quello in cui i Guermantes a teatro si trasformano in divinità marine, ma è senz’altro estendibile a numerosi altri passi della Recherche, tra cui la presente scena, e quella finale del bal de têtes, di cui avremo modo di parlare nel prossimo paragrafo.

“È un verità, quella sì oggettiva, che ciascuno di noi non è uno, ma contiene numerose persone le quali non hanno tutte lo stesso valore morale”665. Proust si sbilancia: a dispetto del suo prospettivismo, del suo sostanziale relativismo, qui afferma con perentorietà che esiste una “verità” e perfino “oggettiva”: questa verità, che del resto è un ulteriore rafforzamento prospettivistico, è quella della molteplicità dell’io (sia nel senso diacronico visto prima che in quello sincronico di cui stiamo parlando). Non si può non notare, almeno qui, la straordinaria vicinanza di queste posizioni proustiane con quelle che abbiamo analizzato nel capitolo precedente circa la molteplicità intrasoggettiva in Nietzsche. Sia la mutevolezza di maschere nel tempo, sia la coesistenza di persone diverse (di polipai di persone, riprendendo il modello citologico), sia la continua oscillazione tra personalità diverse, sia la concezione di un’identità fissa assegnata per motivi di comodità, pigrizia, semplicità, violenza sociale, sia infine una gerarchizzazione instabile di tali personalità avvicinano le posizioni del romanziere a quelle del filosofo tedesco.

E ciò è a maggior ragione comprensibile se si riferiscono le loro posizioni al comune retroterra culturale. Il nome fondamentale, cui non si può non pensare, è quello (che abbiamo già chiamato in causa a proposito di Nietzsche) di Hippolyte Taine666.

Ora, si sa che Proust conobbe l’opera taineana, e che ebbe modo di leggerla (forse non integralmente) prima del 1908 (la data in cui si celebra la svolta che conduce dal Contre Sainte-Beuve al romanzo)667. Se anche così non fosse, del resto, il nome e le teorie di Taine erano estremamente diffusi all’epoca, e difficilmente un uomo di cultura poteva ignorarle: a maggior ragione non poteva ignorarle chi come Proust avesse approfondito lo studio della filosofia (sotto la guida del professor Darlu, fondamentale per la sua formazione) sul manuale di Rabier, che teneva in gran conto le teorie del maggiore dei médecins philosophes.

665 AD, p. 137.

666 Per il riallacciarsi di Proust alle tematiche di Taine e più in generale dei médecins philosophes ci siamo serviti abbondantemente del testo di Marco Piazza Passione e conoscenza in Proust (cit., in particolare alle pagine 109-148), e accanto a questo (più specifico per quanto riguarda la nostra indagine) al testo di Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo (cit.).

667 A testimonianza di ciò si può vedere come nel saggio Contro Sainte-Beuve egli rimandi alla prefazione di De l’intelligence. Nel 1921, inoltre, egli darà alcuni giudizi sull’opera dello psicologo in alcune lettere private. Cfr. M. PIAZZA, Passione e conoscenza in Proust, cit., pp.111-

Ovviamente, non solo sue: il paradigma che egli inaugurò nella psicologia francese divenne dominante e diffuso anche grazie a Ribot, Binet, Espinas, lo stesso Bergson; non è escluso tra le altre cose, che Proust avesse un accesso privilegiato alle teorie psicologiche e neurologiche più aggiornate grazie al padre – accademico e medico – e a tutti gli studi che proliferavano all’epoca e che incrementavano il dibattito sull’afasia668.

Non è dunque senz’altro un caso che Proust utilizzi esplicitamente la metafora del polypier, rifacendosi a questa specifica tradizione. Scrive infatti nel Temps retrouvé:

Avevo un bel considerare da sempre il nostro essere individuale, in un momento determinato del tempo, come un polipaio il cui occhio, organismo indipendente sebbene associato, se avverte della polvere sbatte senza il bisogno del comando dell’intelligenza, e il cui intestino, parassita nascosto, addirittura si infetta senza che l’intelligenza lo venga a sapere, e parallelamente per l’anima, ma anche nella durata della vita, come un succedersi di io giustapposti ma distinti, destinati a morire uno dopo l’altro, o magari ad alternarsi tra loro, come quelli che a Combray si sostituivano l’uno all’altro quando veniva la sera.669

Il passo è significativo per diversi aspetti. Anzitutto l’uso del termine “polipaio”, che si richiama direttamente ai médecins philosophes e alla loro tradizionale scomposizione dell’io in aggregati di cellule, il cui potere viene confiscato di volta in volta da un centro egemone (instabile), che descrive l’assetto personale in un determinato momento. In secondo luogo il passo mette l’accento sul tema diacronico delle morti frammentarie degli io che vengono così a succedere l’uno all’altro, a giustapporsi l’uno all’altro, scomponendo l’individuo in una serie di persone successive e irrelate (si consideri che lo stesso Taine aveva parlato dell’io come di una “trama di eventi successivi”, privo in tal senso di persistenza, identità, spiritualità670). Questi due momenti sono sintetizzati per altro brillantemente dallo stesso Proust nelle immagini della “sfilata”

668 Cfr. in particolare S. POGGI, Gli istanti del ricordo (cit.). 669 TR, p. 300 (c.n).

(momento seriale) e dell’ “esercito” (momento della pluralità intrasoggettiva) di personaggi diversi che si impersonano successivamente o contemporaneamente. Ma c’è un terzo elemento che viene qui messo in risalto, ed è quello per cui gli organi agiscono indipendentemente da un controllo centrale. L’intelligenza (che qui forse non è sbagliato sovrapporre tout court a quella che nel capitolo precedente abbiamo chiamato “coscienza”) non viene a conoscenza della maggior parte degli eventi che riguardano il nostro corpo: ancora una volta la metafora taineana per cui la coscienza è una luce che si proietta via via su palchi differenti (di cui quelli in ombra non sono meno attivi di quello illuminato) dando l’illusione dell’unicità del palco. Così in Proust l’intelligenza rimane per lo più ignara di ciò che succede nella psiche dell’ “individuo”, ma in compenso se ne fa un’idea semplice, unitaria, di un io coeso e coerente, che deriva esclusivamente dalla sua semplicità e non da quella effettiva dell’oggetto. Rimandiamo al paragrafo successivo un’indagine più puntuale delle forze che agiscono l’uomo senza che egli ne abbia coscienza e anzi conservi un’illusione di autonomia.

4.2.1 L’ave Maria di Bobbio

Vorremmo ora aprire brevemente una parentesi, suggeritaci dal francesista Giovanni Macchia671. Egli prende in considerazione un passo di una novella di Pirandello (L’avemaria di Bobbio672), dal sapore marcatamente proustiano, per ricondurre entrambi all’antenato comune, che in questo caso non sarebbe Taine ma Alfred Binet673. Tale paragone risulta doppiamente interessante. In primo luogo perché mette in luce il nesso tra Proust e un altro tra i maggiori degli psicologi francesi dell’Ottocento, con i cui testi è senz’altro entrato in contatto, e attraverso questa mediazione ad un altro dei grandi della letteratura del primo Novecento. In entrambi gli scrittori è possibile trovare infatti temi binetiani quali: (a) la personalità come sintesi di fenomeni variabili in continua trasformazione, (b) la successione di persone diverse all’interno dello stesso individuo, (c) la pluralità di coscienze e memorie, (d) l’identità personale come artificio. In questo

671 GIOVANNI MACCHIA, Tutti gli scritti su Proust, Einaudi, Torino 1997, pp. 275-283. Non approfondiremo oltre il legame tra Proust e Pirandello, autore che pure risulta fondamentale per il nostro tema (l’io, l’identità personale), che ha trattato quasi ininterrottamente per la sua intera opera.

672 LUIGI PIRANDELLO, Novelle per un anno, Mondadori, Milano, 1985, Volume I, tomo I, pp. 507- 515.

contesto Macchia fornisce anche una preziosa indicazione di un passo che Proust avrebbe trascritto quasi letteralmente da Binet674.

In secondo luogo, possiamo trarre una somiglianza ulteriore dai testi. Macchia evidenzia infatti che c’è nella summenzionata novella un passo che sembra riportare la teoria proustiana delle reminescenze – e del rapporto dell’io con se stesso – (che riportiamo in nota per non appesantire il testo675). La prima parte del brano è perfettamente solidale con l’idea proustiana dell’assenza a sé stessi, dell’inconoscibilità di tutti i singoli io che ci compongono e di tutte le funzioni – fisiologiche come psicologiche – cui non possiamo presiedere ma che si svolgono “in automatico”. Nella seconda parte invece Pirandello pare descrivere un meccanismo identico a quello della reminescenza proustiana (un io resuscitato da una sensazione involontaria e tratto fuori da un lungo oblio). Il punto è che Pirandello, come Proust, pur parlando in sede teorica di queste resurrezioni, in realtà in sede narrativa va in tutt’altra direzione, non descrivendo affatto quello che nella Recherche potrebbe a buon diritto dirsi una reminescenza, ma descrivendo qualcosa di molto simile a quanto abbiamo descritto poco sopra, ovvero il tornare a far visita di un io, seppellito a profondità geologiche, che un sommovimento tellurico (un mal di denti) porta a tornare al ribalta e a far sentire la sua voce all’interno dell’io attuale, mostrando più una convivenza particolare di io diversi che una vera e propria resurrezione (i cui elementi non si trovano affatto nella novella pirandelliana). Ovviamente il testo proustiano dà ragione anche di vere e proprie esperienze di reminescenza, ed anche con ruoli chiave nell’economia dell’opera, ma ad esse sembrano affiancarsi e acquistare sempre maggior peso col procedere dell’entre deux676 altri modi di trattare l’io (che,

674 Si tratta di un brano che si trova nel Tempo ritrovato e che quasi parafrasa un passo dell’

Introduction à la psychologie expérimentale. Cfr. GIOVANNI MACCHIA, Tutti gli scritti su Proust,

cit. p. 281.

675 “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo coscienza è paragonabile alla poca acqua che si vede nel collo di un pozzo senza fondo. E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali ora siamo, viviamo in noi, quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da un lungo oblio oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che al richiamo improvviso d’una sensazione, sia sapore, sia colore o suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando ancor vivo in noi un essere insospettato” (L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, volume I, tomo I, pp. 507-8.

676 Si pensi che la maggior parte dei passi chiave in questo senso si trovano volume composto per ultimo, vale a dire in Albertine scomparsa.

rifacendosi alla distinzione fatta poco sopra, stanno alle reminescenze come i motivi romanzeschi a quelli lirici).