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I prodromi della critica all’io

2. Il volto di Dioniso L’io nella Nascita della tragedia

2.1 I prodromi della critica all’io

Cominciamo dal mito. La figura che apre e chiude l’intera opera nietzscheana è, simbolicamente, quella del dio greco dell’ebbrezza: Dioniso. Nel suo nome è scritta la prima opera pubblicata da Nietzsche (La Nascita della tragedia) e il suo nome, confuso ormai con quello dell’autore, chiude la strana autobiografia nietzscheana con l’ultimo grido: “Sono stato capito? Dioniso contro il crocifisso!”114. Non è dunque arbitrario cominciare da qui la nostra indagine sul corpo a corpo di Nietzsche contro l’io: già nella prima opera, di cui pure l’autore riconoscerà in seguito i limiti, e per molti aspetti l’incompatibilità con il suo pensiero maturo, la lotta contro l’io è a tema, proprio attraverso l’interazione con il principio dionisiaco. È solo il primo passo della sua critica al soggetto, e certamente è anche quello teoreticamente meno rilevante, se si pensa alla sua stretta dipendenza da una metafisica che molto deve a quella schopenaueriana.

Il discorso nietzscheano è al momento un discorso prettamente estetico, ma, sullo sfondo di quella che egli stesso chiama la sua “metafisica da artista”115, non manca di ampliare il suo respiro fino a farsi morale non meno che estetico, cosmologico non meno che teoretico. Come nota Fink116, l’estetica non è solo il campo di azione del saggio nietzscheano, ma estetici sono anche gli strumenti,

113 R. WAGNER, Tristano e Isotta, atto III. 114 EH, Perché sono un destino, 9. 115 GdT, Tentativo di autocritica, 2.

l’Organon che Nietzsche usa per comprendere il mondo in senso lato, nel suo significato più globale (da qui anche la critica dello stesso Fink ad un testo che risulta sovrabbondante, che vuol dire più di quanto gli permettano i suoi limiti, sostenere più di quanto non riesca a fondare)117.

Eviteremo ad ogni modo qui di parlare in generale della Nascita della tragedia e cercheremo di concentrare il nostro discorso esclusivamente su quegli elementi che collaborano alla critica del soggetto: critica che, vogliamo ribadirlo un’ultima volta, si colloca su di un piano diverso rispetto a quello da cui si apriranno le altre prospettive da cui leggeremo questo attacco, e che in particolare risulta indissolubilmente legata ad una visione metafisica (leggi: schopenaueriana) che poi sarà abbandonata. Pure crediamo di poter scorgere qui i prodromi di quella critica che andremo ad analizzare in seguito nelle sue evoluzioni e crediamo utile contestualmente rilevare il permanere di questa tematica fin dagli esordi filosofici del nostro autore.

La tragedia attica, di cui Nietzsche sta cercando di spiegare l’origine, la breve storia, e la morte suicida, è la forma d’arte che si genera dai due principi opposti e complementari che stanno alla base della civiltà greca. Da una parte il principio apollineo: armonico, luminoso, onirico, intelligibile, espressione del principium individuationis, che si esprime in modo particolare nella scultura; dall’altra Dioniso: oscuro, ebbro, espresso soprattutto dalla musica, che rompe la convenzione sociale, che strappa il velo di Maya118, confonde l’uomo col Dio e annienta l’individuo nel tutto indeterminato che lo assorbe119. L’immagine che solitamente ci si fa del mondo greco come dell’arte greca – immagine che

117 Ivi, pp. 84-85.

118 Già dai termini impiegati da Nietzsche – principium individuationis, velo di Maya – l’eco del maestro Schopenauer appare evidente: Apollo è il principio che crea il mondo fenomenico, individuato, spaziotemporalizzato, comprensibile, mentre Dioniso è il nome nietzscheano, mitico ed estetico che sta per quel fondo indistinto e caotico di tutte le cose che era per Schopenauer la volontà. Cfr. ARTHUR SCHOPENAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-

Bari 2002. La prima occorrenza dell’espressione “principium individuationis”, che Nietzsche riprenderà a più riprese nel corso del suo saggio sulla tragedia, si trova nella seconda parte dell’opera, quella dedicata alla metafisica della volontà (p. 139), ed indica in questo momento solo la spaziotemporalizzazione come principio di discernimento degli oggetti. Nel corso dell’opera il

principium individuationis diventerà uno dei fili conduttori del discorso schopenaueriano ed

assumerà significati più ampi. Il velo di Maya, d’altra parte, non è che l’espressione religiosa – nella religione indù – di questo principio: quello schermo che impedisce all’uomo di andare al di là dell’apparenza del fenomeno, e del suo mondo di oggetti determinati, e di vedere il volto terrificante della volontà.

storicamente si è affermata – è quella unilateralmente apollinea: un mondo di immagini belle e armoniche, dove lussureggia un’esistenza rigogliosa e trionfante, olimpica. Nietzsche vuole ribaltare quest’immagine, o meglio, completarla120. C’è un principio ulteriore, Dioniso, fondo oscuro di tutte le cose, e solo a partire da questo viene costruito il mondo delle immagini apollinee e dei fenomeni intelligibili, che pure non possono mettere a tacere la coscienza del dolore e della tragicità dell’esistenza, che i greci sentirono più chiaramente di ogni altro popolo. Alla saggezza di Apollo si affianca quella, più originaria, del satiro Sileno, devoto di Dioniso121. Apollo esiste anzitutto come pharmakon, come rifugio

nell’illusione, nel sogno, in un mondo ordinato di oggetti definiti (il mondo del limite, pe,raj): “ciò che veramente è, l’uno originario, in quanto eternamente sofferente e pieno di contraddizioni, ha nello stesso tempo bisogno, per liberarsi continuamente, della visione estasiante, della gioiosa illusione”122. Apollo è la maschera di Dioniso, la maschera rassicurante, che insegna la saggezza greca della misura (“Nulla di troppo”) e della conoscenza di sé (“Conosci te stesso”): Apollo maschera la verità di Dioniso secondo la legge dell’individualità, secondo il principio schopenaueriano di individuazione, e tenta così di dare un volto stabile all’ a'peiron 123, all’indeterminato, a ciò che per definizione non ha volto.

È bene comprendere subito che i due principi estetici e metafisici – Apollo e Dioniso – non sono alternativi: non si tratta, nella tragedia greca, di risolvere dialetticamente una contraddizione tra le due divinità che producono lo spirito greco. Il vero nemico di Dioniso e della tragedia sarà piuttosto Socrate. Pure, come dirà retrospettivamente lo stesso autore, La nascita della tragedia “ha un

120 Cfr. anche G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, cit., pp. 19-20, in cui anzi questa rivisitazione e reinterpretazione del mondo greco alla luce del principio dionisiaco come demistificazione di un’immagine inveterata del mondo greco come mondo delle forme armoniche definite è considerata la più grande acquisizione nietzscheana di questo scritto.

121 Cfr. GdT 2: per sfruttare il passo di Calderòn de la Barca tanto amato da Schopenauer, la saggezza di Sileno è quella che dice: “Pues el delito mayor de l’hombre/ es l’haber nacido” (“Poiché il più grande delitto dell’uomo/ è l’essere nato”). Va sottolineata del resto una differenza non irrilevante: lo sforzo filosofico di Nietzsche, diversamente da quello schopenaueriano, sarà volto in seguito alla soppressione del concetto di colpa, dannoso retaggio cristiano (e dunque non avrà più senso parlare di delitto). Già qui però Nietzsche, che pure non è arrivato a liberarsi completamente del concetto di crimine, e dunque di colpa, pone comunque una prima essenziale differenza tra il peccato cristiano e il delitto voluto, prometeico, affermativo, della tragedia greca (cfr. GdT, 9).

122 GdT, 4, traduzione leggermente modificata.

123 Per il paragone, solo implicito in Nietzsche, tra Dioniso e a'peiron e tra Apollo e pe,raj cfr. E. FINK, La filosofia di Nietzsche, cit., pp.74.

ripugnante odore hegeliano”124. Con questo si vuol dire che il modello di fondo attraverso cui Nietzsche legge la tragedia, sebbene diverso da quello hegeliano, ancora si basa sulla logica contraddizione-conciliazione che sta alla base del pensiero dialettico, e che diverrà più avanti la bestia nera di Nietzsche, principalmente in quanto ideologia del cristianesimo125. In quest’opera si parla di una contraddizione primigenia tra l’uno originario, il fondo senza fondo, il caos preindividuale da una parte e la molteplicità delle forme, l’individuazione come mera apparenza dei fenomeni dall’altra. La tragedia rappresenterebbe la forma estetica della conciliazione, ovvero quell’opera d’arte in cui Dioniso domina un’alleanza provvisoria con Apollo, in cui cioè il solo volto di Dioniso – unico protagonista possibile della tragedia – si esteriorizza in una pluralità di maschere (il percorso porta da Dioniso, uno originario, ad Apollo, molteplicità individuale). Pure nella tragedia dei due grandi poeti tragici ateniesi il processo riesce ad invertirsi e a portare di nuovo dalle maschere apollinee all’essenza dionisiaca. Come quando fissiamo il sole e poi guardando altrove vediamo delle ombre prodotte dalle tracce luminose, così la maschera definita e luminosa che vediamo sulla scena della tragedia rimanda a quell’abisso di tenebra che l’ha prodotta. L’eroe torna a perdersi in Dioniso, lo spettatore perde parallelamente la propria identità, e viene riassorbito nell’uno126: il percorso essenziale della tragedia attica è questo secondo che adombra il mondo dionisiaco al di là dell’individuazione apollinea.

124 EH, La nascita della tragedia, 1.

125 Per la lettura di Nietzsche come l’autore anti-hegeliano e antidialettico par excellence, ci si rifà al saggio di GILLES DELEUZE, Nietzsche e la filosofia. Sempre in questo saggio si dà una lettura

della Nascita della Tragedia nei termini di una dialettica, per quanto non hegeliana (cfr. pp. 17- 23).

126 Come accadrà con l’eterno ritorno (che non a caso leggeremo come la forma estrema dell’attacco nietzscheano al soggetto) questo può essere “il peso più grande” (FW 341, in cui troviamo la prima – ipotetica – formulazione dell’eterno ritorno) o la più grande delle liberazioni. Scrive Bodei: “Sin dalla Nascita della tragedia la perdita del principium individuationis non rappresenta soltanto un’esperienza orrorosa, ma – per chi è capace di sopportarla – anche un rapimento estatico, un esaltante senso di liberazione, che scaturisce dal non essere più costretti a chiudersi nella prigione-rifugio di un io murato in se stesso per paura di dissolversi” (REMO

BODEI, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002, p.

95). Perdere la certezza del proprio sé è certamente il peso più grande per colui che non è in grado di liberarsi della sicurezza che il sé garantisce, anche nel momento in cui questa perdita si limita ad un evento circoscritto quale è quello della rappresentazione della tragedia; allo stesso modo l’eterno ritorno può annichilire l’uomo cui toglie la sicurezza facendolo letteralmente esplodere e costringendolo ad un destino di Sisifo o può – nel caso dell’oltreuomo – essere la più grande gioia, e correlativamente il più grande strumento di affrancamento dall’ordine costituito.

Le categorie estetiche della tragedia attica sono immediatamente riferibili alla metafisica stessa: l’individuo non è che finzione di comodo, maschera plurale di un solo dio, che sta al fondo di ogni cosa, e che nega, di fatto, ogni cosa in quanto oggetto singolo, forma definita. Il soggetto individuale non è in quest’ottica che “eco e risonanza dell’unico soggetto che veramente è”, prodotto di una ragione che cerca di dare forma a ciò che non può averla per instaurare il proprio dominio: ovvero illusione perpetrata al fine di garantire una sicurezza individuale e sociale. Ciò che fa la ragione apollinea è il murare in sé, in un rifugio-prigione, l’individuo che altrimenti finirebbe per dissolversi e tornare nell’unità primordiale127. La

conoscenza più profonda è la conoscenza tragica, “la dottrina misterica della tragedia” 128: la verità dell’individuo è la verità dei Titani che smembrano Dioniso, ovvero una verità derivata; la verità dell’origine è l’unità di ogni uomo in Dioniso, l’inconsistenza di ogni soggetto in quanto maschera, e non in quanto maschera che nasconde o distorce un volto reale, ma come maschera dietro alla quale troviamo altre maschere, fino a giungere ad un unico volto, il volto dilacerato, privo di fisionomia, di Dioniso. Da questo punto di vista “dobbiamo considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile”129. Pertanto il contenuto della dottrina misterica sarà riassumibile nei seguenti punti: consapevolezza dell’unità primordiale di tutto ciò che esiste, coscienza dell’individuazione come causa di ogni male, tragedia (o arte in generale) come speranza di una possibile redenzione dall’individuale, come ritorno all’unità130. La conoscenza, ancorché tragica e dunque superiore e più profonda, sarà dunque comunque un imporre al mondo caotico forme stabili e definite, “differimento del mondo dionisiaco in quanto dissoluzione di forme, dissoluzione del soggetto, dell’artista stesso che le produce”131; ma questo imporre forme al fine di conoscere non si darà se non nella consapevolezza che il caos da cui si fugge nega in fondo ogni stabilità e ogni identità stabile. L’origine primordiale di ogni male la troviamo nel mito che vuole Dioniso smembrato dai Titani: l’individuazione è il corrispettivo metafisico dello smembramento mitico;

127 Cfr. R. BODEI, Destini personali, cit. p. 95. 128 GdT, 10.

129 Ibidem. 130 Ibidem.

da ogni parte del corpo del Dio nasce un uomo, ma la sua unità, la sua identità è pura finzione, egli è solo parte dell’unico corpo dionisiaco, che solo nella festa dionisiaca può ritrovarsi.

Dalla stessa prospettiva Nietzsche dichiara anche la contraddizione insita in un’arte “soggettiva”132. Se l’arte in quanto tale, in quanto dionisiaca, richiede la liberazione dall’io, dal capriccio come dalla volontà che nell’individuo rimane prigioniera, allora bisognerà negare la possibilità stessa di un’arte che esprima una soggettività. Sarà dunque necessario buttare l’artista lirico? Archiloco dovrà infine essere cacciato dal Pantheon artistico greco? Il giovane filologo si guarda bene da affermazioni di questo tipo: l’unica cacciata dal paradiso sarà riservata all’“empio Euripide”133, il tragico che uccise la tragedia per non averla compresa. In realtà – spiega Nietzsche – il movimento del poeta lirico è proprio quello di sprofondare nella contraddizione originaria, di farsi uno con Dioniso, di annegare il proprio dolore nel dolore universale, per poi restituire la perdita di sé in immagini apollinee: non si tratta più dell’io del poeta ma dell’io universale che restituisce se stesso nella forma definita di un io specifico.

L’ “io” del lirico risuona dunque dall’abisso dell’essere: la sua soggettività nel senso dell’estetica moderna è un’illusione. […] In verità Archiloco […]non è più Archiloco ma genio del mondo, che esprime simbolicamente in quell’immagine dell’uomo Archiloco il suo dolore primigenio; mentre l’uomo Archiloco che vuole e desidera soggettivamente non potrà mai e poi mai essere poeta.134

Ancora una volta il principio estetico e metafisico del dionisiaco rappresenta un’obiezione radicale alla possibilità di un soggetto, anche come soggetto poetante, ovvero come colui che si costituisce come autore di una poiesis artistica: tale produzione è possibile solo a patto di una rinuncia preventiva alla “soggettività”, solo dopo aver immolato l’io sull’altare del dio Dioniso.

132 Nietzsche pensa alla distinzione tra poesia epica e poesia lirica (Omero e Archiloco, per antonomasia), definite rispettivamente forme di arte oggettiva e soggettiva.

133 GdT 10. 134 GdT 5.

La tragedia greca morì suicida e senza prole. Ad assassinarla fu Euripide, il profano della tragedia, colui che diviene poeta tragico per essere stato un critico ottuso, per non aver capito la grandezza dei suoi predecessori. La sua colpa, si può dire, è essenzialmente una colpa “soggettivistica”. Euripide profana la tragedia privandola della sua essenza dionisiaca, del suo elemento originario e onnipotente135. Quando Nietzsche accusa l’ultimo dei tragici di aver portato sulla scena lo spettatore, l’uomo della vita quotidiana136, la sua accusa si rivolge proprio contro il suo aver creduto all’illusione dell’individuo: l’eroe tragico diventa uomo comune, ovvero diventa soggetto – esattamente come ogni spettatore sa di essere nel fondo del suo comune sentire – e cessa in questo modo di essere maschera di Dioniso, ombra che guarda l’abisso e solo dall’abisso è generata. Così Euripide e Socrate (lo spettatore per cui Euripide scrive le sue tragedie, il vero iniziatore della décadence) introducono anche nel territorio dionisiaco della tragedia una ratio che non può fare a meno di fondarsi su di un soggetto. La divinità che parla per bocca di Euripide non è Dioniso, ma neppure Apollo: è il filosofo greco, colui per il quale può essere bello solo ciò che è razionale137. La tragedia muore quando sulla scena appare il soggetto socratico, e una nuova epoca tragica sarà possibile solo quando questa illusione soggettivistica che da Socrate in poi domina la storia del pensiero occidentale sarà conclusa.