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Lettura della Recherche

1. Frammenti di tempo

1.3 Paradisi perdut

Facciamo ora (molto rapidamente) un passo indietro. Torniamo al racconto del bacio della buonanotte, vale a dire quella sezione che segue le pagine sul risveglio che a loro volta aprono il romanzo e che abbiamo in precedenza definito come sostanzialmente estranea alla struttura temporale dell’opera. Tale estraneità è dovuta al fatto che, al contrario del resto della Recherche, questo episodio non nasce dalla madeleine, ma la precede, e cerca anzi di restituire il passato di Combray in modo alternativo (e fallimentare) alla reminescenza che si verifica, quasi magicamente, attraverso il sapore del biscotto nell’infuso. Ma, per Proust, questo è il modo per restituire solo un’ombra sbiadita del passato, un’immagine depotenziata, priva di vita e soprattutto di verità: è un ricordo posticcio, di quelli che si conservano allo scopo di garantirsi un’identità personale, una storia, all’interno della quale sia possibile riconoscere se stesso nelle azioni che un altro

475 G. POULET, Études, vol. 1, cit. p. 432. Vedi anche p. 434, dove Poulet riassume in maniera brillante la sua posizione (imprescindiblile) su questa prospettiva aperta sul tempo di Proust: “Tale appariva il tempo concreto agli occhi di Proust: tempo dell’esclusione e delle resurrezioni, tempo dei frammenti e dello iato tra i frammenti, tempo dell’eclissi e degli anacronismi, tempo fondamentalmente anarchico”.

476 Molti interpreti hanno più volte sottolineato la distanza di una tale concezione del tempo inteso come discontinuità atomica intervallata da vuoti insondabili dalla concezione bergsoniana di

durée, intesa al contrario come continuità melodica (si veda per esempio il secondo capitolo di H.

BERGSON, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 2002). In

particolare è Poulet, nel saggio L’espace proustien (cit., passim in particolare pp. 107–125) a scagliarsi contro un accostamento tradizionalmente dato per scontato tra i due autori (tale posizione è tra gli altri sostenuta dall’autorevolezza di Jauss). Lo stesso Proust, del resto, in

All’ombra delle fanciulle in fiore (JF, p. 247), si trova ad affermare perentorio: “permanenza e

durata non sono garantite a nulla, neanche al dolore”, affermazione da leggersi senza dubbio (come tutte queste tipiche sententiae proustiane) in contesto, senza che del resto questa lettura possa togliere loro completamente valore. Per una visione analitica e panoramica dei rapporti tra il filosofo e il romanziere cfr. JOYCE N. MEGAY, Bergson et Proust. Essai de mise au point de l’influence de Bergson sur Proust. Librairie Philosophique J . Vrin, Paris, 1976, in cui ancora una

volta viene sottolineata la distanza tra le due concezioni – simili negli obbiettivi contro cui si scagliano (tempo dell’orologio, io superficiale, memoria dell’intelligenza e così via) ma « abissalmente » distanti nella pars construens della loro visione del mondo, ovvero proprio nei loro aspetti più personali e originali – e in particolare la loro distanza riguardo al concetto di tempo (cap. II, pp. 51-73).

io, a noi di fatto estraneo, ha compiuto477. Del passato a questo punto non restano che immagini inanimate, reificate dalla memoria strumentale, prive di verità. Il passato non esiste: è soltanto un vuoto, un abisso, colmato di comodo con riempitivi inessenziali o troppo superficiali, e in cui niente è propriamente attingibile. Il passato è, come tutti i nostri io periti nelle evoluzioni temporali appena descritte, scomparso, morto, risucchiato dalle inattingibili volute dell’oblio. “Morto per sempre? Forse”478.

Esiste infatti ancora una tenue possibilità di far riaffiorare in noi i nostri io sepolti, ovvero il nostro passato. Possibilità, del resto, su cui non abbiamo alcun potere, e che è governata solo dalla forza cieca del caso. Potrà capitare, nell’arco di una vita, che ad un ricordo, con un processo simboleggiato da quel feticismo magico479 per cui le anime dei morti non sarebbero del tutto scomparse ma prigioniere di altri corpi, sia data la possibilità di toccare la superficie della coscienza480. O, altrettanto, questa eventualità può non verificarsi mai: la nostra morte fisica e definitiva resta comunque un termine ultimo non trascurabile. L’uomo risulta così radicalmente impotente nei confronti del proprio passato: “È inutile cercare di evocarlo, tutti gli sforzi dell’intelligenza sono vani, esso si nasconde al di fuori del suo raggio d’azione”481.

Eppure a volte (molto di rado in realtà) può accadere di sfiorare degli oggetti che si faranno mezzi inconsapevoli della resurrezione di un nostro io sepolto. In questo caso l’oggetto “animato” in questione è un biscotto a forma di conchiglia, chiamato madeleine, inzuppato in una tazza di tè. Non appena il narratore porta il biscotto alla bocca, egli è colpito da una sorta di estasi: una felicità senza motivo

477 “Ma poiché quello che avevo ricordato sarebbe nato soltanto dalla memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, e poiché le informazioni che essa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto”. (CS, p. 55).

478 Ibidem.

479 H.R. JAUSS, Tempo e ricordo, cit., p.121. 480 CS, p. 57.

481 CS, p. 55. Si potrebbe a tal proposito citare un altro brano proustiano tra i più celebri, vale a dire il brano che conclude il primo volume della Recherche. Qui il narratore cerca di riportare alla coscienza il tempo passato attraverso la vista dei luoghi che ne erano stati teatro: ma ancora una volta questa operazione è senza esito, infatti: “I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono soltanto al mondo dello spazio, nel quale li collochiamo con maggiore facilità. Essi non erano che uno spicchio sottile fra le impressioni contingenti che formavano la nostra vita di allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto; le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimè, come gli anni”.

sembra porgli un enigma, indicargli la via per una verità, che del resto egli può cogliere solo in questo stato irripetibile in cui egli ha “smesso di sentir[si], mediocre contingente, mortale”482.

Il tempo, a quanto pare, è venuto meno; o comunque la sensazione che il narratore prova è quella di essere riuscito per un istante a divincolarsi dallo scorrere del tempo, di esser divenuto, per così dire, extratemporale483. Qualcosa di molto simile alla montaliana “maglia rotta nella rete”484: “uno sbaglio di natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare, che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità”485, ovvero un particolare che il reale non riesce ad inglobare nel suo ordine dispotico e che la sorte ci ha casualmente offerto per liberarci da tale ordine, e solo così coglierne la verità. La madeleine è qualcosa di molto simile, trasferito sul piano del tempo. È senza dubbio un lavoro doloroso, quello di ricerca del significato nascosto che questo determinato oggetto ci ha offerto, e non sempre destinato ad una buona riuscita486. Un lavoro non solo di ricerca all’interno del proprio labirinto interiore, nelle viscere del proprio sé, ma anche e soprattutto un’operazione creatrice: bisogna non solo far riemergere la verità che è sepolta in noi, ma in qualche modo ricrearla, o, ancora più radicalmente, crearla ex novo, dal momento che sarà un qualcosa di mai conosciuto prima, nuovo in senso forte.

Il sapore è lo stesso che il narratore da bambino sentiva ogni domenica mattina, a Combray, quando la zia Léonie gli dava da assaggiare lo stesso biscotto, intinto in un infuso di tiglio. È tutta Combray così a risorgere alla coscienza del narratore, non solo un episodio, Combray con tutti i suoi giardini, con la chiesa, le case e tutta la sua buona gente. E con essa è risorto quell’io che ha vissuto a Combray, lo stesso che andava a messa con i genitori, leggeva in giardino e passeggiava, quello stesso io che lo stratificarsi del tempo aveva seppellito a profondità geologiche con il susseguirsi di nuovi cadaveri, di nuove morti, con l’avanzare dell’oblio.

482 CS, p. 56.

483 Si è parlato a tal proposito di “estasi metacronica”, cfr. F. ORLANDO, Proust, Sainte-Beuve e la

ricerca in direzione sbagliata, in CSB, p. XVII.

484 E. MONTALE, In limine, in Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1990, p. 7. 485 Ivi, p. 11-12 .

Si realizza, in questa resurrezione, ciò che la gioia extratemporale nel momento in cui il narratore ha assaggiato il biscotto aveva promesso, ovvero, per dirla con le parole del Tempo ritrovato, una sorta di momentaneo affrancamento dall’ordine del tempo487. Il tempo ha subito una violenza dall’esterno che lo ha costretto a ripiegarsi su se stesso, a fare cortocircuito. Un momento del passato risuona in uno presente con il quale condivide la stessa sostanza. In questa violazione dell’ordine lineare del tempo è possibile esperire una sorta di extratemporalità, quasi, potremmo dire, un frammento di eternità488. Una prima forma di eternità – ancora imperfetta – legata al momento estatico, un’eternità dell’attimo.

Ora, attraverso questo episodio sarà anzitutto possibile guadagnare un punto di vista nuovo sulla memoria. Il ricordo – inteso come ciò di cui ci si ricorda costantemente, ovvero ciò che in ogni momento è reperibile nel nostro archivio mnemonico – è una forma dell’inautentico, ed ha un rapporto solo molto superficiale e contingente con il passato: esso si trova nella condizione paradossale di non essere in grado di ricordare, vale a dire nell’incapacità di vivificare il passato489. La memoria autentica, l’unica in grado di far rivivere il passato, è proprio la memoria fallace, incapace di trattenere i ricordi. È la memoria che perde la propria materia. Per dirla con Beckett: “Colui che ha una buona memoria è colui che non ricorda nulla, in quanto non dimentica nulla”490. Bisogna quindi dimenticare, per poter ricordare, così come è necessario morire per resuscitare. L’essenza stessa della memoria (anche così come la concepiamo comunemente – luogo in cui i ricordi si conservano) è l’atto del dimenticare491. “Dimenticare” dunque viene qui a significare sottrarre al potere reificante del

487 TR, p. 229.

488 cfr. R. BODEI, Destini personali, cit., p. 127.

489 Lo stesso Proust (CG, p. 102) sottolinea come la resurrezione stessa dell’anima possa essere considerata alla stregua di un processo di memoria, memoria che del resto dovrà essere intesa in un senso nuovo rispetto alla concezione del senso comune di “ciò che ci si ricorda”. Poulet (Études

sur le temps humain, cit., vol. I, p. 408-410) ha invece notato una somiglianza dell’episodio della

reminescenza con la Grazia nella tradizione cristiana: legata ad una contingenza su cui l’uomo si trova impotente, essa può cadere tanto in un terreno favorevole quanto in uno sfavorevole, ed essa sola, in ultima istanza, ha inoltre la forza di promettere la resurrezione.

490 S. BECKETT, cit. p. 41.

491 Si vedano, a tal proposito, alcuni versi borgesiani che vanno nella stessa direzione: “Aver saputo e scordato il latino/ è possederlo, poiché anche l’oblio/ è una delle forme della memoria, il suo luogo sotterraneo,/ l’altra faccia segreta della moneta”. (J.L. BORGES, Un lettore, in Elogio dell’ombra, in Tutte le opere, cit., vol. II, p. 359).

presente e dell’intelletto, quasi un nascondere i nostri io e il nostro passato in un terreno in cui non siano più attaccabili. Bisogna cioè in un certo senso uccidere i nostri stessi io passati, con il rischio di perderli per sempre, perché essi possano forse un giorno risorgere a nuova vita (una vita in realtà mai vissuta). L’oblio è dunque ciò che conserva il passato, ma anche ciò che ci resta inaccessibile, se non attraverso una contingenza particolare come quella della madeleine.

In realtà la madeleine e con lei gli episodi analoghi di resurrezione non si esauriscono a questo. Hanno ancora qualcosa da dirci sulla temporalità proustiana. Ci serviamo, come introduzione al problema, dell’originale interpretazione “ottica” che fornisce di questi moments bienheureux lo statunitense Roger Shattuck.492 Questi legge infatti l’evento in questione come fenomeno di momentanea visione stereoscopica. Nel romanzo proustiano gli uomini – e il narratore non fa eccezione – vivono con un solo occhio aperto, un occhio aperto sul presente. O meglio sulla superficie del presente, dal momento che in ogni caso – come insegnano le leggi dell’ottica – un solo centro di visione non permette di cogliere la profondità. Siamo pertanto condannati a esperire solo la superficie del mondo, e questa è la causa prima di quella “commedia degli errori”493 che è la Recherche, in cui si cerca la verità sempre in direzioni sbagliate, per una costitutiva impossibilità di cogliere il nocciolo del reale. Soltanto in alcuni momenti è possibile sperimentare per un attimo l’apertura del secondo occhio494. Occhio che si apre sul passato, permettendo per la prima volta una visione in profondità, capace di restituire il passato nella sua vividezza. Il tempo che separa passato e presente (ovvero il vuoto che li separa) sarebbe in questa prospettiva lo spazio che separa gli occhi, necessario alla visione stereoscopica. I due momenti sarebbero così visti contemporaneamente e darebbero una dimensione ulteriore al mondo, permettendoci di attingere una “verità” che altrimenti ci sarebbe rimasta preclusa495. Il punto nodale – già sfiorato in precedenza senza prestarvi particolare attenzione – è che questa visione è inedita. Vale a dire: anche nel passato la nostra 492 Cfr. R. SHATTUCK, cit. 493 Ivi, pp. 97-98. 494 Ivi, p. 40-9.

495 Il meccanismo della stereoscopia è a sua volta ricondotto al tropo della metafora, letto come la sostanza stessa dello stile proustiano. L’avvicinamento tra i due momenti avviene in modo metaforico, vale a dire un’identità di sostanza in una differenza di contesti.

visione è stata monoscopica, e quindi – per esempio – la Combray che rinasce dall’oblio non è la Combray vissuta dal bambino, ma qualcosa di diverso sia dalla Combray reale (di cui realmente si è fatta esperienza) che dalla Combray di un eventuale ricordo volontario: si tratta della “verità” di Combray come non è mai stata esperita. Ciò significa (e Proust non si stancherà di ribadirlo lungo tutta l’opera) che il mondo vissuto al presente è destinato a deludere, o comunque a non poter mai essere vissuto radicalmente e in profondità: la verità, ma anche la felicità, giacciono sempre al di fuori della distruzione del tempo. Per questo c’è bisogno della violazione del tempo, del suo ripiegamento su se stesso, per riuscire a fare emergere, da un lato la verità del vissuto, dall’altro quella felicità di cui vivendo per la prima volta (ovvero come viviamo comunemente) non riusciamo a godere.

Sia che la fede creatrice si sia inaridita in me, sia che la realtà non si formi che nella memoria, i fiori che mi fanno vedere oggi per la prima volta non mi sembrano dei veri fiori496.

O, ancora più radicalmente:

Una realtà non esiste per noi finché non è stata ricreata dal nostro pensiero497.

Soltanto nella distanza è insomma possibile vivere realmente, e soltanto nel vissuto trova un senso e una giustificazione a posteriori il vivere. Anzi: è solo nel passato che può esistere (come autentico reale) il presente498. Conoscere, o più

498 Cfr. G. POULET, Études sur le temps humain, cit. , vol. 1, p. 417. “Nel mondo Proustiano, non c’è alcun Dio, è semplicemente il passato che conferisce al presente la sua autentica esistenza. È il

già vissuto che salva il vivere. Altrimenti esso cadrebbe nell’insignificanza e nell’oblio, prima

ancora d’esser stato vissuto”.

496 CS, p.182. L’affermazione si trova alla chiusura della sezione dedicata alla Combray rinata nel ricordo. Qui sembra che la prima delle due ipotesi esposte possa valere solo per il ricordo d’infanzia, in quanto i ricordi dell’età matura partono comunque da una sorta di preliminare perdita di fede. Solo l’infanzia è l’età della fede creatrice; sembra pertanto che la realtà autentica abbia modo di esistere soltanto in questo interim, in questo intervallo temporale che la reminescenza viene in qualche modo a materializzare.

precisamente conoscersi, si deve sempre configurare come un riconoscersi499. In questi moments bienheureux, pertanto, il passato e il presente entrano in questo legame a doppio filo: il passato è la verità del presente, e il presente la condizione di verità del passato500.

In questo caso dato originario e dato primitivo non coincidono, il primitivo essendo (in linea cronologica) il passato e l’originario essendo né il presente né il passato, ma l’atto stesso che ne pone il rapporto nei termini appena descritti.

Originario, potremmo dire501, è il ritardo. Ovvero la verità del passato si dà soltanto nel riviverlo nella distanza; una distanza che crea propriamente il passato, più che ritrovarlo. Un passato che pertanto si può dare solamente nel ritardo, ovvero nella “risposta ritardata” del ricordo; una risposta che a sua volta anziché ad una reale domanda risponde ad una violenza502 (un appello503

) proveniente dal reale (e che costringe ad una ricerca)504.

Consideriamo per il momento conclusa l’analisi della madeleine, lasciando tuttavia aperta una questione: se l’esperienza in questione è una (ri-)creazione della realtà e un superamento della temporalità nell’atemporalità, sarà possibile ottenere l’analogo di quanto ci ha dato la madeleine (il superamento del tempo) ma restando all’interno del tempo stesso?

499 Innumerevoli volte è stata sottolineata la vicinanza di questo atteggiamento proustiano, di questo nesso tra conoscenza e memoria, con la dottrina platonica dell’anamnesi. Almeno per quanto riguarda questo legame, il fatto che la conoscenza (la vera conoscenza) presupponga l’aver dimenticato, il paragone è pienamente giustificato: conoscere in senso proprio è ricordare. Certamente però che questa conoscenza sia superiore a quella che si ha direttamente porta i due autori ad una distanza non trascurabile.

500 Si pensi (con G. WOHLFART, Der Augenblick. Zeit und ästhetische Erfahrung bei Kant, Hegel,

Nietzsche und Heidegger mit einem Exkurs zu Proust, Karl Alber, Freiburg/München, 1982)

all’etimologia stessa del termine verità nel greco antico (avlh,,qeia) che propriamente indica ciò che si ricorda, o meglio il non-dimenticato (significando il termine lanqa,nein, oltre che nascondere, anche dimenticare).

501 Con Waldenfels (cfr. B. WALDENFELS, Die verspätete Antwort in Deutsch-Franzosiche

Gedankengänge, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1995).

502 cfr. G. DELEUZE, cit., pp. 16-18.

503 Così nelle parole di Waldenfels, cfr. F. MENGA, La “passione” della risposta. Sulla

Fenomenologia dell’estraneo di B. Waldenfels, su “aut aut” n. 316-317, 2003.

504 Cfr. TR, p. 219: “Sì, se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessuna catena tra sé e l’istante presente, se è rimasto al suo posto, ha mantenuto la sua data, conservato le sue distanze, il suo isolamento nelle profondità di una valle o in cima ad una vetta, ci fa respirare un’aria, nuova per la stessa ragione che è un’aria che abbiamo respirato in altri tempi, quell’aria più pura che i poeti hanno cercato invano di far regnare nel paradiso e che non potrebbe dare la sensazione profonda di rinnovamento che ci dà se non fosse stata respirata,

Finora, cioè, abbiamo trattato il tempo proustiano come tempo della morte (dei frammenti discontinui) e tempo dell’eternità (delle reminescenza), vale a dire come forme disincarnate del tempo. Restano ora da vedere le sue forme incarnate, vale a dire il tempo dell’eternità dell’arte e il tempo della morte nell’uomo, che tratteremo nei prossimi paragrafi.