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Lettura della Recherche

1. Frammenti di tempo

1.4 Il Tempo Ritrovato

L’ultimo volume della ricerca – edito postumo505 – è un volume anomalo. È infatti quello più teorico506, quello in cui si giunge alla rivelazione finale e quello

che compie e illumina i volumi precedenti. Questa rivelazione estetica è ciò che riuscirà a dare un senso a posteriori alla vita dell’autore e in qualche modo al suo mondo e che aprirà, in un certo senso, i cancelli dell’eternità.

Ma, prima di giungervi, siamo costretti, nell’apertura dell’ultimo volume, a sprofondarci in un abisso di nausea quale non aveva ancora avuto precedenti. Il narratore, in queste prime duecento pagine del volume, sembra infatti scandagliare

505 Il fatto non è del tutto trascurabile. Se è vero che la Recherche proustiana ha una conclusione e lo stesso autore la riteneva conclusa, resta l’ombra – forse vana ma sicuramente suggestiva – della domanda: “Cosa avrebbe fatto Proust se fosse stato in vita fino all’edizione dell’ultimo volume?” La vanità della domanda è del resto mitigata da due aspetti fondamentali: le continue revisioni proustiane e una tendenza tipica della Recherche a ricrearsi, a tendere in qualche modo ad una procrastinazione incessante della fine. Il primo di questi due dati può avere in effetti un peso relativo, più di revisione esteriore che di sostanza. Non si dimentichi però il ritrovamento di un manoscritto di Albertine disparue in cui la vicenda prende una piega diversa (il testo è molto ridotto e mancano parti sostanziali). Ma anche questo nuovo testo non andrebbe probabilmente ad incidere nell’economia globale dell’opera, essendo soltanto un granulo di tempo perduto, che mantenendo il suo ruolo non è necessitato a svolgersi in un determinato modo. È piuttosto la seconda questione quella che potrebbe provocare problemi strutturali, fino a mettere in discussione l’opera stessa: se il ritardando dell’opera di cui parla Jauss (Tempo e ricordo, cit., pp. 154-159) fosse talmente intrinseco e necessario da non poter trovare mai la pace della sua fine, in un processo in qualche modo asintotico, che ne sarebbe dell’opera? Se cioè la Recherche, capolavoro strutturale, assimilabile a tal riguardo ad una cattedrale, in realtà fosse destinata ad una sorta di implosione? Resta d’altra parte il fatto che Proust, forse conscio egli stesso di questa tendenza insopprimibile, ha posto inizialmente gli argini del suo romanzo, scrivendo le pagine conclusive quasi a ridosso di quelle iniziali, limitando di fatto il ritardando all’interno di un limite superiore già dato fin da subito. Dobbiamo sicuramente concludere dicendo che in tale campo del probabile e del congetturabile, nessuna dimostrazione è possibile, né il plausibile può assurgere al ruolo di dimostrato. La questione risulta del resto – oltre che molto affascinante – dotata di un peso teorico rilevante (l’idea stessa del romanzo ne può uscire anche significativamente mutata). Per una trattazione del problema dell’inconcludibilità della Recherche cfr. M. PIAZZA, La Recherche e il differimento della fine, in Il ricordo del presente. Memoria e formazione del senso, Moretti e

Vitali, Bergamo 2001 e R. WARNING e J. MILLY (a cura di), Marcel Proust. Écrire sans fin. CNRS

Éditions, Paris, 1996, in particolare il saggio ivi contenuto di R. WARNING, Écrire sans fin. La Recherche à la lumière de la critique textuelle.

506 E anche – paradossalmente – quello che vieta l’uso della teoria all’interno di un romanzo (cfr. TR, p. 233).

il fondo del tempo perduto, capace qui di mostrarsi solo come tempo della disperazione. Resta solamente un lasciarsi vivere, stancamente, in giorni uguali, grigi, in attesa di un’altra morte, finalmente l’ultima. Anche la morte, del resto, sembra essersi sbiadita nella constatazione della vanità del mondo.

Il soggiorno a Tansonville, a casa di Gilberte, non riesce a comunicare alcunché al narratore. Il risultato è un’apatia diffusa, un’indifferenza, una nausea radicale (una nausea che non nasce intellettualisticamente dalle radici di un castagno ma da un’esistenza che ha lacerato se stessa, che ha illuso e poi impietosamente mostrato il suo volto).

Intanto è cominciata la guerra ed il paesaggio che essa produce non è meno frantumato, decadente, vuoto. Muoiono amici, crollano palazzi, i tedeschi sono alle porte di Parigi, i loro aerei la sorvolano, il caleidoscopio sociale continua inesorabile le sue evoluzioni in tutta la sua vanità, il vizio assume le sue forme più perverse.

Il nulla (eteronimo del tempo) ha vinto. Il narratore si ritira in una casa di cura fuori Parigi, torna per poco tempo a contemplare il panorama desolato della guerra mondiale, riparte, torna in casa di cura, stavolta per “parecchi anni”, di cui non sappiamo niente. Anche l’ultima delle illusioni si va dissolvendo: non esiste nessuna arte vera e salvifica. Marcel non diventerà mai poeta507.

Tutto ciò che resta da fare in questa situazione è per il narratore continuare a dedicarsi alla vita mondana, non avendo più alcun imperativo estetico a spingerlo a ritirarsi in se stesso e a scrivere. È con questo stato d’animo che il narratore, ricevendo un invito per una matinée dal Principe di Guermantes, sceglie di andare, rassegnato alla sua nuova vita.

Ed è qui, ancora una volta – come nei precedenti moments bienheureux – inattesa e non ricercata, che l’arte gli si rivela508. I piedi finiscono in posizione anomala a causa di un selciato sconnesso, e tutto d’un tratto, senza che sia stato

507 Scrive brillantemente Samuel Beckett (Proust, cit., p. 73): “Tutto, eccetto le adamantine colonne della perpetua noia, è stato corroso dal torrenziale solvente degli anni, una vita talmente protratta nel passato e priva di senso nel futuro, così totalmente spoglia di qualsiasi necessità individuale e permanente che la sua morte, ora, o domani, o tra un anno o tra dieci anni, sarebbe una fine, non una conclusione”.

508 A proposito di questo movimento narrativo: la ricerca che non porta da nessuna parte e la verità che poi si rivela senza cercarla, F. ORLANDO (introduzione a Contro Sainte-Beuve, cit.) ha parlato

di una struttura, presente lungo l’intero romanzo, che si muove tra una “ricerca” inevitabilmente “in direzione sbagliata” e una “non-ricerca in direzione giusta”.

compiuto alcun ragionamento nuovo, ogni difficoltà è svanita509. Di nuovo le sensazioni della madeleine, ma l’intenzione stavolta di andare fino in fondo all’enigma della felicità.

Reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, ecco che l’essenza permanente e abitualmente nascosta delle cose è liberata e il nostro vero io che (da molto tempo, a volte) sembrava morto ma non lo era del tutto, si sveglia, si anima ricevendo il nutrimento celeste che gli viene offerto510.

Cercheremo di capire più avanti il significato di questo “vrai moi” che emergerebbe da questa estasi metacronica. Per il momento, volendo privilegiare la sola prospettiva temporale, ci limitiamo a ribadire lo statuto proprio di questa eternità (atemporalità) che si viene a manifestare: non trascendimento del tempo in assoluto, ma in un extratemporale che si colloca “fuori dall’ordine irreversibile del tempo, ma al contempo tra presente e passato, vale a dire nell’immanenza del tempo”511. Il tempo ritrovato, da questo punto di vista, non è tempo trasceso se

non in questa situazione al limite della contraddittorietà di trasceso nell’immanenza.

Ma fin qui, esclusi gli approfondimenti teorici che l’autore dedica all’esperienza della reminescenza (con l’introduzione di concetti come essenza o idea), non siamo andati molto oltre a quanto avevamo scoperto con la madeleine e con esperienze analoghe. E infatti il discorso proustiano non si ferma qui, non si accontenta dell’effimera extratemporalità dell’attimo512. E così si svela il

significato del percorso proustiano: ciò che era rimasto oscuro nell’episodio della madeleine, e che del resto non poteva essere ancora portato alla luce, è che dall’essere extratemporale può nascere il poeta. Ovvero la verità ultima non è nel frammento resuscitato quanto nell’arte stessa, come solo mezzo idoneo a ritrovare

509 TR, p. 215. 510 TR p. 222. 511 Ibidem.

512 Cfr. TR, p.225 : “Così, in ciò che l’essere tre o quattro volte resuscitato dentro di me

aveva assaporato potevano esserci, certo, frammenti di esistenza sottratti al tempo; ma tale contemplazione, sebbene d’eternità, era fuggitiva. E tuttavia io sentivo che il piacere che essa m’aveva dato, a rari intervalli, nel corso della mia vita, era il solo piacere fecondo e vero”.

il tempo perduto513. Soltanto così il Tempo Ritrovato può essere incarnato, e non immediatamente di nuovo perduto: soltanto nell’arte si dà questa eternità incarnata514.

Ancora una volta, se è la vita di Marcel quella che sarà descritta dall’opera d’arte, a determinarla, a determinarne il racconto, a costituirne l’orizzonte di senso è proprio il tempo: il tempo discontinuo e perduto delle morti successive e il tempo ritrovato delle resurrezioni puntuali ed effimere (eternità che balena nel transeunte), tempo definitivamente perduto con l’epifania della morte della nonna e tempo che porta ad una nuova eternità, non più fuggevole: un’eternità estetica, da intendersi come tempo ritrovato e incarnato515.

513 TR, p. 229. “Ora, cos’era questo mezzo, che mi sembrava il solo, se non creare un’opera d’arte?”.

514 In certo qual modo – molto più semplificato – l’eternità dell’arte era già stata prefigurata ne La

Prigioniera parlando della morte dello scrittore Bergotte. Riportiamo di seguito il commovente

brano che ne tratta: “Era morto. Morto per sempre? Chi può dirlo? […] Lo seppellirono, ma per tutta la notte prima dei funerali, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliarono come angeli dalle ali spiegate sembrando, per colui che non era più, un simbolo di resurrezione” (p. 201-202). È comunque importante notare, con Fernandez, che nella Recherche non si prevede alcuna forma di immortalità o resurrezione individuale di stampo cristiano. Ben diversa sorte toccherà a Swann, il quale, anziché all’arte, affida le sue speranze di sopravvivenza agli esseri umani, in particolare alla figlia: “Un tempo Swann diceva alla figlia, stringendola a sé e baciandola: «è bello, tesoro mio, avere una figlia come te; un giorno, quando non ci sarò più, se si parlerà ancora del tuo povero papà, sarà solo con te e a causa tua», Swann, riponendo così per dopo la morte in sua figlia una spaurita e ansiosa speranza di sopravvivenza, non si ingannava meno del vecchio banchiere che avendo fatto testamento a favore di una piccola ballerina che mantiene, e che si comporta benissimo, si dice che lei, certo, lo considera solo un grande amico, ma rimarrà fedele alla sua memoria”. La figlia di Swann, Gilberte, rinnegherà il padre, cambierà il nome in Forcheville e, interrogata direttamente sul suo vero padre, risponderà che si chiamava “Svann”, vergognandosi perfino di pronunciarne il nome (AD, 211). Altrettanto faranno i vecchi amici di Swann .

515 Tempo che, dal canto suo, continua a darsi nella dialettica di perdita e ritrovamento, che è forse giunto il momento di chiarire un po’ più nello specifico. Seguendo Waldenfels (Die

verspätete Antwort, cit., p. 386), possiamo individuare il tempo come oggetto (“nocciolo

tematico”) del romanzo e nelle articolazioni di perdita, ricerca e ritrovamento gli orizzonti atematici entro i quali questo tema è trattato nell’opera proustiana. Anzitutto: che cosa dobbiamo intendere con “tempo perduto”? Ora, il tempo perduto è senza dubbio il passato, vissuto e sfuggito alla memoria, di cui non resta che un vuoto nella coscienza, oppure un ricordo volontario atrofizzato. Ma tempo perduto è anche il tempo perso (inteso nell’uso comune di “tempo non impiegato”, “wasted time”, ovvero tutto il tempo che si è sottratto all’arte. Tempo perso che del resto viene rivalutato, perché è proprio grazie ad esso che il narratore si trova ad avere a disposizione quel materiale che andrà a costituire la base della sua opera. E ugualmente, tornando al primo senso – quello certamente più significativo nell’economia del romanzo – di tempo perduto come tempo passato e sottrattoci, fino a che punto questa espressione riesce a rendere il senso dell’opera proustiana? Perduto, nel suo senso comune, è qualcosa che, contro la nostra volontà, ci troviamo a non possedere più. Ma, se è vero che il suo sottrarsi al ricordo è involontario, è anche vero che in senso proprio noi non abbiamo mai posseduto il tempo. Non abbiamo mai posseduto le nostre esperienze, che ci appariranno nella loro essenza e nella loro verità soltanto nel momento in cui le ritroviamo: le possediamo, cioè, solo dopo la perdita. La perdita non si viene a configurare come qualcosa che segue un eventuale possesso, ma anzi, come

Ma l’opera si concluderà con un’altra scena, che segue quella della rivelazione: quella del bal masqué, che si configura come speculare alla rivelazione estetica. Rimandiamo al § 5 del presente capitolo l’analisi di questa scena; per ora (non fosse altro che per ragioni di simmetria) è sufficiente comprendere come in questa parte conclusiva dell’opera Proust metta in scena il tempo come tempo della morte incarnato. Ovvero, si tratta qui di mostrare non più il tempo in quanto tale, ma piuttosto il tempo nella sua relazione essenziale con l’essere umano: si tratta insomma di capire l’uomo traguardando il tempo e viceversa di comprendere il tempo attraverso l’uomo. Questa scena – in quanto epifania del tempo della morte

qualcosa che si dà inizialmente (un’assenza). Il nostro stato abituale è quello di perdita del tempo, o meglio del suo non-possesso. Da questo punto di vista anche il termine “ritrovato” viene ad essere sovrabbondante, se non fuorviante: il tempo non può essere, in questa prospettiva, ri- trovato: esso viene semmai trovato (se non più radicalmente creato) sia nella dimensione del ricordo che in quella dell’arte. Soltanto cioè nelle violazioni del tempo, esso viene, per la prima

volta posseduto. E che significa, dunque, ritrovare il tempo? In linea di principio sotto il nome

“tempo ritrovato” vanno ricondotti i fenomeni di reminescenza e l’arte. Nel primo caso il tempo ritrovato è un tempo che si ritrova in seno al tempo perduto (e in parte limitata, sostanzialmente atomica). Ma questo processo è viziato in partenza, perché si trova costretto ad agire in dipendenza dal tempo perduto e perciò è sottoposto alla legge di questo: come tutto ciò che si trova immerso nel tempo perduto, anche la reminescenza – sebbene immagine di eternità – è costretta alla fugacità, ad un equilibrio precario destinato a rompersi. È l’eternità dello hic et nunc, cioè una extratemporalità ossimoricamente effimera, che in quanto tale non soddisfa Proust. E pertanto l’unica forma “verace” di eternità si rivelerà essere l’arte come prospettiva nuova sul mondo, capace di creare dal nulla il proprio universo: è solo questo che permette di ritrovare il tempo in senso proprio. Un’eternità che comunque, riprendendo i termini medievali, si configura come

aeternitas e non come perpetuitas, essendo Proust comunque conscio che l’opera d’arte non durerà

che per un tempo limitato, e che la sua estensione temporale non potrà comunque superare quel giorno in cui il genere umano si estinguerà. Posto preliminarmente ciò, si può veramente parlare di tempo ritrovato? Lasciamo pure da parte per un attimo il problema del ritorno (ri-trovare presuppone un aver già posseduto), vale a dire il problema che è il ritrovamento stesso a creare il tempo perduto. Ma fino a che punto si ritrova il tempo? Sono molti gli interpreti proustiani ad aver messo in questione se si possa parlare di un ritrovamento del tempo. Scrive Poulet: “Partito alla ricerca del tempo perduto, l’essere proustiano ha trovato due cose: dei momenti ed una sorta di eternità. Ma non ha ritrovato il tempo stesso” (Études sur le temps humain, Vol. 1, cit., p. 430). Ci sarebbe dunque un ritrovamento, ma certamente non del tempo in quanto tale: degli atomi di tempo sicuramente e altrettanto dell’eternità dell’arte. Pertanto, anche se possiamo dire che il tempo, in queste due forme – attimo ed eternità – viene effettivamente ritrovato, non dobbiamo dimenticare del resto di notare che attimo ed eternità, come forme limite del tempo, sono in realtà la sua stessa negazione. E proprio di negazione del tempo, contro l’ipotesi del suo eventuale ritrovamento, parla il giovane Samuel Beckett, nel suo saggio su Proust (Proust, cit., pp. 75-80). “Il Tempo non è ritrovato, è negato. Il Tempo è ritrovato e con esso la Morte, quando egli lascia la biblioteca e raggiunge gli ospiti, appollaiato con precaria decrepitezza sugli ambiziosi trampoli del primo e preservato dalla seconda per un miracolo di terrorizzato equilibrio. Se il titolo [Le Temps

retrouvé] è buono, la scena della biblioteca gli toglie qualcosa” (p. 79). Il tempo è considerato da

Beckett dunque solo nel suo senso forte di ‘tempo della morte’, tutto il resto, reminescenze e arte, sono negazioni del tempo, aperture di atemporalità che non rappresentano alcun ritrovamento del tempo, ma semmai il suo contrario. Il ritrovamento del tempo si avrà piuttosto con il bal masqué, scena conclusiva della Recherche proustiana, in cui il tempo tornerà a mostrarsi, di nuovo, come inesorabile tempo della morte.

– viene a mettere in dubbio quanto deciso nella biblioteca dei Guermantes (cioè la consacrazione all’arte come unica forma di eternità). Si tratta qui di mettere in luce da una parte la disgregazione fisica dei personaggi, gli esiti estremi della loro perpetua metamorfosi verso la distruzione ultima e definitiva; dall’altra Proust intreccia in questa scena corale immagini di morte e immagini di eternità (l’arte in particolare), a mostrare che l’una e l’altra si implicano in un discorso che non può risolversi a favore di nessuno dei contendenti. Proust chiude così la sua Recherche con la vittoria del tempo, o comunque con una terrificante manifestazione del potere del tempo e dell’ipoteca che esso inevitabilmente pone sugli esseri umani, compresi coloro che cercheranno di sconfiggerlo attraverso l’arte. Quale sarà l’esito di questa lotta516, non è dato saperlo. Certo, si può sostenere che la Recherche, inequivocabilmente, esiste (per quanto non coincida con l’opera che il narratore si accinge, o dichiara di accingersi a scrivere), e la sua stessa esistenza e compiutezza sembra testimoniare che un’opera d’arte è in ogni caso giunta a mantenere quella promessa di eternità, quella strana sconfitta del tempo cui essa tendeva. Lo stesso Proust si era già premurato di non concludere trionfalmente il suo romanzo con la discesa della Grazia per mezzo dell’arte, ma di farla seguire da una terrificante scena di morte, da una danza di spettri, di cadaveri (e forse si può comprendere ora, a posteriori, che già da sempre lo erano). E lo stesso Proust si conferma troppo lucido per certe celebrazioni:

Un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne, avrebbero certo finito per morire. Ma bisogna rassegnarsi a morire. Si accetta il pensiero che tra dieci anni noi, tra cento i nostri libri non ci saremo più. La durata eterna non è permessa ai libri più che agli uomini517.

516 Scrive R. FERNANDEZ (Proust ou la genealogie, cit., p. 215) : “Se un Proust medievale avesse concepito la Recherche, l’avrebbe potuta tradurre in una lotta dell’arte contro la morte”