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L’uomo è l’essere che non può uscire da sé

Lettura della Recherche

2. Individuum est ineffabile.

2.1 L’uomo è l’essere che non può uscire da sé

La prima parte di questa sentenza, “l’uomo è l’essere che non può uscire da sé”, ci rimanda ad una fitta insistenza di Proust sul tema più propriamente epistemologico, vale a dire sull’impossibilità di conoscere le cose in quanto tali, piuttosto che come proiezioni di noi stessi sul mondo, come se tutto ciò che sentiamo, che percepiamo “dall’esterno” non fosse che un’eco di noi stessi, “la risonanza di una vibrazione interna”526. Del resto non è un caso che nella Recherche, come ha giustamente notato Roger Shattuck, abbondino le metafore di tipo ottico527, a mostrare che la realtà è anzitutto questione di visione, di prospettiva, e soprattutto di molteplicità di punti di vista e di inevitabili cambiamenti di angolatura. Sul vedere, sull’impossibilità di vedere a fondo, Proust scrive effettivamente diffusamente e in luoghi anche molto rilevanti della sua opera, che, non è il caso di dimenticarlo, si apre su alcune figure ottiche: il cinetoscopio, il caleidoscopio, la lanterna magica (questi ultimi due essendo metafore fondamentali nell’economia dell’opera), che indicano tanto la centralità

525 AD, p. 43. 526 CS, p. 106

527 Cfr. R. SHATTUK, Proust’s binoculars, cit., p. 6. In realtà, il critico statunitense non si limita a notare l’abbondanza di tali metafore, ma ne evidenzia l’assoluta centralità. Scrive per esempio in apertura del suo saggio: “Ma è principalmente attraverso la scienza e l’arte dell’ottica che egli guarda e rappresenta il mondo. La verità – e Proust lo credeva – è una questione di visione” (p. 6). Traduzione nostra.

del momento visivo, quanto la sua natura illusoria e costruttivistica. Ciò non toglie che gli strumenti ottici – e più in generale l’assumere necessariamente una specifica prospettiva – siano da considerarsi i primi distorsori della realtà, proprio in virtù di questa inevitabile “costruzione” dell’oggetto di visione che comportano: non a caso Proust mai (o molto di rado) affida al senso della vista, su cui si è costruita l’intera tradizione occidentale, i suoi momenti di reminescenza, e anzi tende a relegarlo a strumento di quell’apparato che fa capo all’intelligenza ed alla memoria volontaria, che operano per costruire incessantemente l’inautentico.

È inoltre interessante notare che Proust lega i fenomeni di visione ad altri fenomeni, che rimandano da vicino alla concezione nietzscheana del prospettivismo. “Per gli uomini, certo,” scrive Proust, “le cose non offrono che un numero ristretto dei loro innumerevoli attributi, a causa della povertà dei loro sensi. Esse sono colorate perché noi abbiamo degli occhi; quanti altri epiteti non meriterebbero se di essi ne avessimo centinaia?”528. Il primo motivo che ne emerge è il nesso che viene ad istaurarsi tra prospettiva e linguaggio: il vocabolario – e, vorremmo aggiungere, la grammatica in cui si articola – dipende dal punto di vista attraverso cui percepiamo il mondo, e questo del resto non può essere che parziale ed orientato. D’altra parte qui Proust lega anche la prospettiva (seppur alla lontana in questo brano, ma si tratta di un tema molto forte nella Recherche) ad una forma di vita: avere questi occhi significa essere inchiodati ad una determinata forma di percezione (come detto, inevitabilmente parziale), e a sua volta ciò che costringe a determinate percezioni è anche il ceto, il sesso, l’inclinazione erotica, l’amore, le convinzioni radicate, i pregiudizi e via dicendo.

È in base a questo che si è legittimati a sostenere, con Shattuck, che la verità, secondo la profonda convinzione di Proust, è una questione di visione529. Legittimati fino ad un certo punto, in realtà. Anzitutto la lettera proustiana è alquanto diversa: egli sostiene, per bocca di Elstir (il pittore che incarna per molti aspetti l’ideale estetico proustiano), che la saggezza, e non la verità, sia una questione di visione. Il discorso ovviamente è diverso: ci si muove su di un

528 AD, p. 320. Cfr. anche CG, p. 76: “Gli alberi, il sole, il cielo non sarebbero quali li vediamo se a conoscerli fossero creature dagli occhi conformati diversamente dai nostri, o dotati, per questa funzione, di organi diversi dagli occhi e tali da fornire, di alberi, cielo e sole, degli equivalenti non visivi”.

campo pratico (nel senso della praxis aristotelica, di cui la saggezza530 è forma massima di conoscenza) anziché teorico (nel senso del theorein, ambito della conoscenza che tende alla verità, appunto, e in cui non ha campo la saggezza ma la sapienza531). Come dire che da un lungo apprendistato alla visione (e soprattutto alle visioni, ai diversi modi di vedere, alle diverse prospettive, al cambiare occhi) nasce una capacità di entrare in rapporto al mondo in modo più avveduto, senza cercare di scoprire ciò che le cose sono, ma consapevoli che le cose non sono mai interamente conoscibili, anche perché parte di ciò che ci comunicano è dovuto al nostro intervento e al nostro angolo visuale. Non si tratta, qui, di trovare uno sguardo da cui dipenda la verità532. Si tratta di un termine epistemologicamente troppo forte, cui Proust darà un significato più complesso e che potremo analizzare solo in seguito. Del resto lo stesso Proust (che pure usa con una certa – inevitabile – disinvoltura nella materia romanzesca i termini “verità”, “falsità”, “menzogna”) mette in guardia dall’utilizzare questo termine: “D’altronde, ci sarebbe molto da discutere su questo termine, «falsità». L’universo è reale per tutti, ma diverso per ognuno di noi”533. Come dire: tutti quanti siamo portati a vedere all’esterno un qualcosa di reale, oggettivo, inequivocabile, per cui siamo spinti a parlare di vero e falso (e lo facciamo giustamente senza troppi problemi, senza interrogarci sulla liceità dell’utilizzo di questi termini), ma bisogna anche capire che per ognuno ciò che ha realtà, oggettività ed inequivocabilità, è diverso: ognuno ha il suo proprio universo, al quale del resto crede ciecamente come fosse l’unica possibile realtà534.

Che la visione in quanto tale abbia del resto una portata di verità è da escludersi. In Proust, come in Dostoevskij, la realtà è presentata non come essa è,

530Quella che viene denominata dallo stagirita “frw,nesij”. 531 La “sofi,a”.

532 In favore della tesi di Shattuck si può tuttavia riconoscere che lo stesso Proust, in relazione ad una forma peculiare di visione, definita dal critico “stereoscopica” – termine destinato ad un’ampia fortuna e che designa la visione che si verifica nei momenti di reminescenza – parla di far risorgere qualcosa, si tratti di Combray o di uno degli innumerevoli “io sepolti”, nella sua verità. Discuteremo più avanti il significato di questi episodi e di questa “verità” che fanno emergere. 533 P, p. 203.

534 Cfr. P, p. 205: “Ma non è uno, sono milioni – tanti quasi quanti sono le pupille e le intelligenze umane – gli universi che si ridestano ogni mattina”. Dichiarazione esplicita, questa, di prospettivismo, alla quale bisogna pure riconoscere una certa attenuazione (quel “quasi”) che ne fa un discorso “al limite”. Da notare, comunque, anche il riferimento ottico: i mondi sono tanti quanti sono la pupille che li percepiscono.

ma come essa è percepita, cioè soggetta alle distorsioni che ogni visione porta inevitabilmente con sé. È quello che viene chiamato il “Côté Dostoïevsky de Mme de Sevigné”, sulla scorta di una lezione di letteratura che il narratore impartisce alla sua prigioniera: lo scrittore russo, e similmente Mme de Sevigné (ed anche Elstir, ed anche ovviamente lo stesso Proust), spezza la visione in due momenti, quello della visione vera e propria da quello della comprensione, per cui presenta una accadimento non secondo il suo ordine logico ma a partire dall’illusione che inevitabilmente esso produce535. Un famoso esempio, spesso prodotto, di differimento della comprensione dalla percezione è il seguente: “Un piccolo colpo sui vetri, come se qualcosa li avesse urtati, seguito da un’ampia caduta leggera come di granelli di sabbia che qualcuno avesse gettato da una finestra del piano di sopra, poi la caduta che si estende, si normalizza, trova un ritmo, diviene fluida, sonora, musicale, innumerevole, universale: era la pioggia”536. Ciò che noi percepiamo sono una serie di effetti, che solo a posteriori ricomprendiamo sotto quel “c’etait la pluie”. La visione, in sé, non coglie la “realtà”537.

Da questo punto di vista si spiega come la Recherche assuma la forma di una “commedia degli errori”, in cui la percezione, l’esperire direttamente qualcosa, ci porta, come primo effetto, lontano da ciò che esso è, o per lo meno da una sua comprensione più ampia. Più che di Bildungsroman, per il romanzo proustiano si può parlare (si è parlato538) di Selbstüberwindungsroman, vale a dire di un romanzo in cui si tratta di superare costantemente se stessi, cioè le idee parziali ed erronee che ci si era venuti costruendo (e non, vorremmo aggiungere, svelando una verità che sia alternativa all’errore, ma scoprendo numerose verità che finiscono per coesistere, pur essendo contraddittorie, con gli errori iniziali stessi:

535 “È un fatto che Mme de Sevigné, come Elstir, come Dostoevskij, anziché rappresentarci le cose secondo un ordine logico, cioè cominciando dalla causa, ci mostra anzitutto l’effetto, l’illusione da cui siamo colpiti. È così che Dostoevskij presenta i suoi personaggi. Le loro azioni ci appaiono altrettanto ingannevoli quanto gli effetti di Elstir per cui il mare sembra stare in cielo”. (P, p. 413). 536 CS, p. 124

537 In sede più teorica si veda CG, p. 76: “Ogni realtà, forse, è altrettanto dissimile da quella che crediamo di scorgere direttamente e che ci confezioniamo con l’aiuto di idee invisibili ma attive”. 538 Cfr. D. LARGE, Nietzsche and Proust, cit., p. 132. Large, nel suo studio che vuole mettere in parallelo Proust e Nietzsche, lega (un po’ superficialmente e un po’ ad effetto), questo movimento di superamento alla Transvalutazione di tutti i valori. Ora, siamo fermamente convinti che Proust vada in questa direzione transvalutativa, ed operi una sistematica demistificazione dei valori costituiti, ma da qui a vedere, nel superamento di errori pregressi attraverso l’affiancamento di altri errori che rendano la visione un po’ più complessa e completa, un qualcosa di più di una significativa analogia tra i due prospettivismi, il passo ci sembra troppo lungo.

persone diverse coesistono in Gilberte, in Françoise, o in Saint-Loup, in contraddizione ma non una più “vera” delle altre).

Tornando al pittore Elstir, rispetto alla sua arte – arte metaforica per eccellenza, quale vuole essere anche quella di Proust – il primo dato di quest’arte è proprio il tentativo di liberare la visione dalle sue ipoteche razionali.

Elstir cercava di liberare ciò che, in un dato momento, sentiva, da ciò che sapeva; il suo sforzo era diretto, spesso, a dissolvere l’aggregato di

ragionamenti che chiamiamo visione.539

Difficile trovare un passo dal sapore più prospettivistico: la percezione è già determinata dai ragionamenti con cui la sistematizziamo, la riconduciamo ai principi, ai concetti, alla grammatica entro cui ci muoviamo. Bisogna però fare attenzione ad un punto: la tentazione sarebbe quella di vedere una contraddizione tra questo passo e quanto detto sopra sul côté Dostoïevsky di Proust. Qui infatti sembra che l’arte vada in direzione opposta al ragionamento (e che solo questo sia l’elemento prospettico in quanto incatenato ad una determinata forma di vita), quasi a ritrovare una genuinità della visione, della percezione. Sembra, appunto, che sia possibile attraverso l’arte attingere ad una percezione “vera”, non compromessa prospetticamente dalla grammatica che vi applichiamo. Non è così. L’arte (in questo caso di Elstir, ma non solo) non vuole attingere ad una visione primigenia ed incorrotta. Nel suo fare un passo indietro, verso la visione in quanto tale (non rielaborata concettualmente), essa vuole assumere su di sé la prospettiva, vuole sapersi prospettiva, costituirsi come prospettiva. Non vuole essere più vera: vuole essere consapevolmente illusoria, deliberatamente menzognera. Semplicemente (crediamo che sia lecito usare qui i termini che Nietzsche usa nel suo saggio su Verità e menzogna) l’arte rifiuta di mentire secondo le metafore usuali, e vuole trovare le proprie metafore. L’intelligenza usa solo le metafore che il linguaggio ha assimilato, l’arte ne vuole scoprire di nuove, che non facciano parte del traffico linguistico comune. L’arte è creazione di prospettive: toglie alle cose il loro nome comune, e le rinomina creandole. Proust

parla dell’infanzia come di quel periodo in cui si crede ancora alla possibilità di creare le cose dando loro dei nomi540, come il dio dell’Antico Testamento, e della perdita di questa fede creatrice con l’arrivo dell’età della disillusione (che coincide con la scoperta dell’irreversibilità del tempo): ecco, l’arte è la riscoperta di questa fede creatrice, attraverso un dare nomi diversi da quelli usuali. L’attività artistica rassomiglia così a quella del viaggio: ciò che conta in entrambe è la capacità di “avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno di essi vede, che ciascuno di essi è”541.

Dell’arte diremo ancora qualcosa più avanti, al termine del presente paragrafo. Per ora si torni per un istante a vedere come il prospettivismo proustiano si estrinsechi tanto in una legge psicologica quanto in una legge epistemologica, e come entrambe conseguano i loro effetti sul piano del rapporto con l’alterità, vale a dire sul piano della possibilità di entrare in relazione (e in relazione conoscitiva) con gli altri esseri umani (nella fattispecie si tratta di comprendere le relazioni che intercorrono tra i personaggi della Recherche, e tra questi e il narratore).

La legge psicologica del prospettivismo viene efficacemente espressa a proposito di Vinteuil, il compositore di Combray (un artista che rappresenta un altro modello per il narratore, simile in questo ad Elstir542). Egli ha un’ottima opinione della figlia, per la quale prova un amore sconfinato, anche se in realtà questa frequenta un’altra ragazza (“praticamente una professionista del saffismo”), a causa della relazione con la quale la reputazione dello stesso Vinteuil è caduta in disgrazia (ed egli finirà per morirne). Ciononostante la sua idea della figlia, di cui pure sa tutto questo (e, aggiunge Proust, anche se la vedesse egli stesso profanare la sua fotografia e la sua memoria543 – spettacolo che sarà invece riservato al narratore bambino), non crollerà, né verrà meno il suo culto per lei. Da qui una sorta di “legge” psicologica: “I fatti non entrano nel mondo dove abitano le certezze della nostra fede, non le hanno fatte né sono in grado di distruggerle; possono infliggere loro le più dure smentite senza indebolirle, e una valanga di sventure o di malattie che s’abbatta senza

540 Cfr. CS, p. 111. 541 P, p. 280.

542 Il passo appena citato sull’arte come “vedere altrimenti” è scritto in relazione proprio alla coppia di artisti Elstir-Vinteuil.

interruzione su di una famiglia non la indurrà a dubitare della bontà del suo Dio o del talento del suo medico”544. I fatti, per Proust, possono anche esistere, ma restano irrilevanti ai fine della nostra percezione e comprensione della realtà, che resta preordinata e difficilmente modificabile: non si esce dalla propria prospettiva come non si esce dalla propria pelle.

Più rigorosamente, dal punto di vista che abbiamo chiamato “epistemologico”, la legge del prospettivismo è quella dell’impossibilità di avere una conoscenza adeguata e completa dell’universo, o di un qualsiasi oggetto. Tutto ciò di cui disponiamo, Proust ce lo dice con estrema chiarezza, sono “visioni informi e frammentarie, che completiamo con associazioni di idee arbitrarie”545. Ciò che percepiamo è sempre dunque, da una parte, estremamente parziale (in quanto prospetticamente determinata) e, dall’altra, tende a ricostruire intorno a questi frammenti sparsi un universo coerente, che però è frutto del nostro arbitrio, del nostro bisogno di coerenza e infine del nostro modo (comune e determinato socialmente, storicamente ma in cui è determinante anche la componente individuale) di pensare.

Non fa eccezione – ed anzi è su questo punto che Proust insiste particolarmente – la percezione che si ha degli esseri umani: gli stessi errori ottici (a maggior ragione data la mutevolezza e la profondità dell’oggetto in questione) si ripresentano nei tentativi che facciamo di conoscere i nostri simili546. Come i volti di un dio di una teogonia orientale, i volti dei personaggi della Recherche ci appaiono come grappoli di volti diversi e talvolta contraddittori giustapposti su piani diversi547, di cui non possiamo vederne che uno per volta, per cui una visione totale risulta impossibile, e così anche una descrizione coerente.