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Il passaggio al prospettivismo radicale

Se anche però la scelta è stata – ancorché inconsapevolmente – fatta, e con ciò si è aperta la strada ad un modo radicalmente nuovo di pensare (ciò che sarà poi la base del metodo genealogico), questi scritti del periodo giovanile di Nietzsche restano legati inevitabilmente ad una dimensione che non è sbagliato definire metafisica (vale a dire: Nietzsche resta dipendente da Schopenauer). Quando il distacco dai suoi maestri (Schopenauer da una parte, Wagner dall’altra) sarà compiuto, e si sarà aperta una nuova fase del pensiero nietzscheano (quella definita tradizionalmente “illuministica”) – vale a dire a partire da Umano, troppo umano – sarà possibile anche compiere questo passo ulteriore: congedarsi dalla cosa in sé51.

Partiamo proprio da qui, da un aforisma della sezione iniziale di Umano, troppo umano – testo che inaugura questa nuova stagione del pensiero di Nietzsche – per constatare il suo netto cambiamento di prospettiva. Si tratta dell’aforisma 16, in cui si analizza il modo in cui i filosofi si sono sempre rapportati al mondo, ovvero come se si trovassero di fronte ad un quadro, fisso e

48 Schema questo (età beata – caduta – redenzione) evidentemente intriso di una concezione suo malgrado cristiana della storia e dell’escatologia.

49 G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, cit., p. 44, cfr. più in generale pp. 43-68. 50 Ibidem, p. 26.

51 È forse inutile sottolineare da una parte la non linearità, dall’altra le difficoltà di questo prender congedo dalle strutture fondamentali della metafisica, di cui il pensiero e il linguaggio sono inevitabilmente intrisi. Sarebbe infatti facile fare da controcanto alle prese di posizione teoriche di Nietzsche contro la cosa in sé, contro la verità come fondo oscuro inattingibile, con altri passi in cui sembra poter constatare un deragliamento nietzscheano, un ritornare – dal punto di vista linguistico, lessicale, talvolta teorico – su posizioni che sembrano far rientrare dalla finestra la cosa in sé. Ma – se anche la difficoltà del congedo va sottolineata – che questo congedo di fatto avvenga, e che sia anzi un momento imprescindibile del pensiero nietzscheano, non sembra da mettere in discussione.

immutabile, che inevitabilmente rappresentasse sempre di nuovo lo stesso processo. Da questo punto di vista per comprendere il quadro (in termini tradizionali, kantiani, il fenomeno) ci sarà bisogno di comprenderne il fondamento, la ragion sufficiente, cioè l’essere (la cosa in sé, l’incondizionato). Ma basta già la logica metafisica per capire che l’incondizionato a sua volta non può condizionare, e che dunque è già da escludere in prima battuta la possibilità di un rapporto (e soprattutto di un rapporto causale) tra mondo metafisico e mondo dei fenomeni52. Ma quello che bisogna capire ancora – e stavolta oltre la metafisica – è che il quadro non è fisso e immutabile, ma è in perpetuo divenire, e in quanto tale è divenuto. Divenuto secondo modalità che noi gli abbiamo gradualmente, nel corso di una storia millenaria, imposto. Siamo stati noi, i nostri vincoli linguistici, logici, razionali, percettivi, gli autori di quel quadro che ci sembra oggi così vario e stabile al contempo e di cui cerchiamo affannosamente un fondamento esterno ed inconcusso.

Ciò che noi chiamiamo ora il mondo è il risultato di una quantità di errori, di fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione complessiva degli esseri organici, e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato. […] Forse riconosceremo che la cosa in sé è degna di un’omerica risata: che essa sembrò tanto, anzi, tutto, e in realtà è vuota, cioè vuota di significato.53

Che questa presa di coscienza della vacuità dell’essere in sé passi – in questa fase – attraverso lo sviluppo della scienza è di per sé meno interessante del fatto che (e del modo in cui) Nietzsche liquida il mondo metafisico su cui si era basata in sostanza l’intera tradizione filosofica che lo ha preceduto. La nietzscheana

52 Il tema sarà ripreso in NF VIII, 14 [184]. Se si eliminasse la prospettiva, ciò non comporterebbe un’elusione del mondo apparente (creato dalla prospettiva stessa) e dunque la possibilità di un accesso al mondo dell’essere. Non è più possibile parlare di apparenza: “non c’è un Essere “altro”, “vero”, essenziale – perché se ci fosse, esprimerebbe un mondo senza azione e reazione”, ovvero un mondo senza effetti, ovvero, l’impossibilità di un mondo.

fede nella scienza di questo periodo illuministico sarà infatti via via accantonata – una sorta di pelle di serpente che Nietzsche veste per un breve periodo allo scopo di liberarsi della tradizione, e di cui poi di nuovo si disfa54 – con il delinearsi della costruzione del metodo genealogico, mentre resterà salda la risata nei confronti di ogni mondo “vero” al di là dei fenomeni. “Conoscere” non è più questione di vedere correttamente qualcosa al di là di una sua “parvenza”, al di là di una maschera, al di là di una distorsione. C’è solo la parvenza (Schein), non come opposto alla sostanza (“che cos’altro possiamo asserire di una sostanza qualsiasi se non appunto i soli predicati della sua parvenza?”55), ma come ciò che

opera e vive nel mondo. Così tutto è parvenza e “fuoco fatuo, e danza di spiriti, e niente più”56: non solo resta un mondo di fenomeni infondati, ma resta un mondo di fenomeni arbitrariamente costruiti dalle nostre percezioni (solo l’interpretazione esiste)57. Ma se solo della parvenza è lecito dire che esiste, essa non ha più ragione di essere chiamata parvenza: resta solo una particolare percezione, una prospettiva, un’ermeneia58.

Ma che tipo di percezione, che tipo di prospettiva? Il punto è che già la percezione stessa è arbitraria, prospettica. Non troviamo nel mondo che quello che ci abbiamo messo o quello che siamo abituati a vederci59. Come ragni, siamo intrappolati nella rete che ci siamo costruiti (e che non c’è modo di non costruire, né c’è modo di oltrepassare, di “sgattaiolarsene via, nel mondo reale”60): ciò che possiamo percepire è ciò che si attacca alla nostra tela, ma anche questo lo possiamo percepire solo in quanto finisce nella nostra rete61. “Abbiamo sensi”,

54 L’efficace metafora del metodo positivistico con una temporanea pelle di rettile è adoperata da E. FINK, La Filosofia di Nietzsche, cit., p. 113. La questione “evolutiva” rispetto al pensiero nietzscheano è tuttavia controversa e dibattuta, e dunque difficile da liquidare con una formula, per quanto, a nostro avviso, felice.

55 FW 54. 56 Ibidem.

57 Cfr. NF VIII, 14 [184], NF VIII, 7 [60] e NF VII, 26 [70].

58 Si veda anche il bel passo NF VIII, 2 [108], in cui il pensiero ermeneutico di Nietzsche è espresso in termini estremamente chiari: “Il mondo che ci concerne è falso, cioè non è un fatto, ma un’immaginazione, l’arrotondamento di una magra somma di osservazioni; è ‘fluido’, è qualcosa che diviene, come una falsità che continuamente si sposta, che non si avvicina mai alla verità: infatti, non c’è alcuna ‘verità’”.

59 Cfr. GD, I quattro grandi errori, 3: “C’è forse da stupirsi se [l’uomo] ha continuato a ritrovare nelle cose solo quello che ci aveva messo?”.

60 Cfr. M 117.

61Cfr. Ibidem. L’immagine del ragno ricorre, in Nietzsche, ad indicare cose diverse: l’abbiamo già vista indicare il procedimento di chi genera un mondo solo a partire da se stesso, lo troviamo

scrive Nietzsche, “solo per un insieme determinato di percezioni”62 (cioè, più o meno, quelle che ci risultano utili): ciò che il senso percepisce è già il frutto di una interpretazione, di una valutazione: percepire è già, in quanto tale, un valutare63. Quello che la nostra coscienza prende come dato, altro non è che un fantastico commento, che la coscienza stessa produce, ad un testo inconscio – addirittura forse inconoscibile – e tuttavia sentito64.

Da questo punto di vista è possibile chiedersi come e fin dove sia lecito parlare di “conoscere”65. L’idea tradizionale di “conoscenza” assumerebbe infatti per Nietzsche che ci sia la possibilità di conoscere tutto ciò che esiste (o per lo meno, che una parte di ciò che esiste sia accessibile all’intelletto umano). Il che richiederebbe da una parte che l’espressione “tutto ciò che esiste” (o per lo meno “ciò che esiste”) abbia senso (il che come detto è da escludere) e dall’altra richiederebbe un occhio sovrumano, platonico, disincarnato, puro66 (che a sua volta non si dà, e il cui potere in ogni caso non si eserciterebbe su niente)67. L’unica modalità in cui si può dire di conoscere è qualcosa di profondamente diverso dalla “Conoscenza” in senso tradizionale: si tratta di un entrare in relazione, secondo interessi, scopi, valutazioni specifiche con un mondo di oggetti che noi stessi abbiamo in qualche modo creato. Questa affermazione risulta già dirompente da un punto di vista politico, instaurando il nesso conoscenza-interesse68 e prescindendo da quello conoscenza-verità, che aveva

ora come immagine della percezione già da sempre orientata, vincolata, lo si ritroverà nello Zarathustra, come immagine dei predicatori di eguaglianza, intrisi di spirito di vendetta.

62 NF VIII, 2 [95].

63 E a sua volta, come commenta Heidegger, “L’essenza del valore consiste nell’essere un punto di vista. Il valore indica qualcosa che è preso di mira. Il valore è l’angolo visuale di un vedere che mira a qualcosa” (La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, cit.).

64 Cfr. M 119. Prendere l’interpretazione per il testo stesso (l’errore base della metafisica e di ogni instaurazione di verità) è sintomo di quella che Nietzsche – che nasce filologo – chiama “mancanza di filologia” (NF VIII, 15 [82]).

65 Cfr. FW 354: “Non abbiamo alcuno strumento per conoscere, per la ‘verità’”; cfr. anche NF VII, 26[127]: “Il nostro apparato conoscitivo non è indirizzato verso la ‘conoscenza’”.

66 Cfr. GM, III, 12.

67 Su questo in specifico, e più in generale sull’intera questione del prospettivismo (maturo) di Nietzsche cfr. NEHAMAS, La vita, come letteratura, cit., pp. 66-67 (59-94).

68 Sul nesso tra conoscenza e interesse, in un percorso che va da Kant fino alla psicanalisi e al pragmatismo, si veda il testo di J. HABERMAS, Conoscenza e interesse, Laterza, Bari 1970. In

particolare il filosofo tedesco dedica l’ultima parte della sua trattazione alla questione di questo nesso in Nietzsche (alle pp. 282-291), cui si riconosce il merito di averlo instaurato in funzione critica, sebbene, come rileva giustamente Vattimo (Il soggetto e la maschera, cit., p. 25 e pp. 146- 147), il discorso habermasiano si concentra su di un piano esclusivamente gnoseologico (rilevando la funzione utilitaristica della verità), ciò che gli impedisce di cogliere il significato positivo e di

fino ad allora tenuto banco. Da un punto di vista epistemologico stiamo negando altresì la possibilità di un conoscere come teoria (contemplazione della realtà), come corrispondenza (adaequatio rei et intellectus), a vantaggio di una conoscenza che è azione sul mondo, intervento volto a riordinare la realtà secondo le nostre strutture acquisite (culturalmente, storicamente, individualmente), secondo i nostri valori, secondo i nostri scopi69. Da un punto di vista ontologico, infine, è in questione il problema che non si tratta di sostituire la prospettiva al mondo, ma piuttosto di negare il mondo come qualcosa di sussistente e di sostituirvi un’inesauribile ermeneia radicata nelle diverse forme di vita70. In virtù di questa ermeneia il mondo torna ad essere infinito, poiché “non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé infinite interpretazioni”71; o meglio (oltre Nietzsche, ma con Nietzsche): il mondo non racchiude in sé la possibilità di queste infinite interpretazioni (questo farebbe pensare ancora ad un qualcosa passibile di interpretazione), ma piuttosto il mondo altro non è che questa possibilità interpretativa, di per sé infinita. Se una forma di conoscenza è possibile, se è possibile una qualche forma di “obbiettività” (le virgolette sono d’obbligo), essa è data dal porre l’una di fianco all’altra quante più prospettive possibili, quanti più affetti possibili, quanti più

liberazione delle opere mature di Nietzsche, lette heideggerianamente come un esasperato soggettivismo. Nietzsche viene criticato dal filosofo tedesco sullo stesso punto in cui già Hegel criticava Kant (come ricorda lo stesso Habermas), vale a dire sulla possibilità di una metacritica, ovvero sulla possibilità di criticare l’intelletto con i mezzi dell’intelletto stesso, ovvero, di criticare la riflessione, proprio attraverso un movimento che è a sua volta riflessivo.

69 Si veda, in relazione a ciò, il passo de L’uomo senza qualità (R. MUSIL, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1997, pp. 641 ss) in cui Arnheim spiega al generale Stumm che senza una disposizione morale non ci può essere neanche l’esperienza, cosa che il generale, ovviamente, non riesce a capire. Sempre sul nesso tra conoscenza e valori (ovvero sull’elemento valoriale insito nella conoscenza a partire dalla percezione stessa si veda, in ambito analitico, JOHN MCDOWELL, Il

non-cognitivismo e la questione del “seguire una regola”, in EUGENIO LECALDANO ePIERGIORGIO

DONATELLI (a cura di), Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni. LED, Milano 1996. Qui, sulle

orme del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, si pone il legame suddetto a partire dalla forma di vita e dal rule-following. In particolare risulta illuminante il passo di Cavell che McDowell cita nel corso delle sue argomentazioni: “Apprendiamo e insegnamo le parole in certi contesti, e quindi ci si aspetta […] di essere in grado di proiettarle in ulteriori contesti. Niente assicura che tale proiezione avrà luogo […]. Che complessivamente lo si faccia è un fatto che dipende dal nostro condividere le fonti dell’interesse e del sentimento, i modi di rispondere il senso dell’umorismo, dell’appagamento e dell’importanza, di ciò che è oltraggioso, di ciò che è simile a qualcos’altro[…] – tutto quel turbinio dell’organismo che Wittgenstein chiama “forme di vita”. Il linguaggio e le attività umane, la sanità e la comunità giacciono su niente di più, niente di meno, che questo. È una visione tanto semplice quanto difficile, e difficile in quanto […] spaventevole”. 70 È il primo passo verso quella che Vattimo chiama ontologia ermeneutica (Al di là del soggetto, cit.), che del resto non potrà dirsi completa finché non ci saremo sbarazzati del soggetto.

occhi possibili72, consapevoli che la sommatoria di queste vedute parziali non raggiungerà mai l’unità73. Si capisce così su quali basi Deleuze possa dare una lettura diametralmente opposta a quella heideggeriana che vorrebbe un Nietzsche metafisico: Nietzsche scardina il modo stesso di porre la domanda fondamentale in termini metafisici. Non più il “ti. evsti,” che avrebbe creato e tenuto in scacco l’intera metafisica occidentale, ma piuttosto la domanda del sofista Ippia, che agli occhi di Socrate sembra quella di un bambino, ma che si rivela essere l’unica domanda che sia lecito fare: “Chi?”74. Ci si rende così conto infatti dell’impossibilità di affidarsi ad una essenza, ad una entità delle cose, che prescinda dal suo senso e dal suo valore, ovvero da ciò che dipende dalla prospettiva e dalla sua inevitabile pluralità (oltre che, nell’interpretazione

72 Cfr. GM III, 12, cfr. anche, sullo stesso tenore, Ma, 16 e MA 29. La difficoltà di questo discorso sta anche e soprattutto nel capire come in ogni caso non esista un oggetto in quanto tale, cui le prospettive farebbero riferimento (“come se restasse ancora un mondo, una volta toltone l’elemento prospettico”, NF VIII, 14 [184]).

73 È forse il momento di mettere l’accento sul tema della selezione del materiale da parte della prospettiva. Anzi: la prospettiva è anzitutto esclusione. Nel momento in cui si prendono alcuni elementi per costruire il proprio punto di vista (senza che ciò comunque denoti un atto volontario), si lasciano fuori dal proprio discorso, dalla propria visione, innumerevoli altri elementi, rimasti non-percepiti, o non presi in considerazione, o non ricondotti al “vecchio”, ovvero entro strutture di pensiero consolidate (si pensi alla definizione di comprendere che Nietzsche dà in un aforisma raccolto nella Volontà di potenza: “‘Comprendere’ significa molto semplicemente poter esprimere una cosa nuova nella lingua delle cose vecchie, conosciute”, NF VIII, 15 [90]). La comprensione dipende dunque prima di tutto da una selezione (non voluta): non esiste un fatto se non siamo in grado di infilarci dentro un senso, (cfr. NF VIII, 2, [149]) e dunque (se vale, come crediamo, l’equazione di Deleuze) da una gerarchizzazione. Lo stesso Nietzsche, nel momento in cui propone di sostituire la “teoria della conoscenza” con una dottrina prospettica degli affetti, sostiene che quest’ultima non può che configurarsi come una gerarchizzazione degli affetti stessi (NF VIII, 10 [28]). Del resto, se andiamo a vedere quale è il significato pittorico della prospettiva, essa consiste propriamente nel selezionare il materiale (questo è elemento che condivide con ogni tecnica pittorica, che in quanto tale non può rappresentare tutto, realizzare una rappresentazione assoluta, che sia a sua volta, di fatto, l’oggetto stesso) e nel disporlo secondo linee di forza che sono linee gerarchiche (sfondo, primo piano, disposizioni intermedie). Per proseguire il paragone pittorico è inoltre doveroso annotare che esso prevede inevitabilmente uno stile (ovvero: selezione, scelta, disposizione, funzionalizzazione del materiale): così la prospettiva nietzscheana non può che essere uno stile con cui rapportarsi al mondo, col che si esclude di nuovo la possibilità di una prospettiva assoluta, di una conoscenza che sia fondabile su criteri extraprospettici. Si ricordi a proposito che “la verità è mentire secondo uno stile”, come sostenuto da Nietzsche in Su verità e

menzogna (UWL, I). Ad andare ancora più a fondo è di nuovo Deleuze, che scrive (Nietzsche, cit.,

p. 153) “Per l’artista, apparenza non significa più negazione del reale, ma significa selezione, correzione, raddoppiamento, affermazione”.

Per l’equazione selezione = gerarchia, cfr.GILLES DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 106.

Per il paragone (che del resto prescinde dal problema gerarchico) tra prospettiva come stile pittorico e prospettiva come punto di vista teorico, cfr. NEHAMAS, La vita, cit., pp. 67-69.

74 “«Che cosa mai?» chiesi io incuriosito. «Chi mai? Dovresti chiedere». Così parlò Dioniso, e tacque nella maniera che gli propria, cioè in maniera tentatrice”, (NF, VIII, 2 [25])

essenzialmente “dinamica” deleuziana, dalle forze che si impossessano di una cosa). Chiedere “chi?” significa porre la domanda tragica par excellence75.

Da qui si può capire come cambia per Nietzsche il modo stesso di fare filosofia, il procedere stesso del discorso filosofico, il suo argomentare, il suo entrare in relazione con pensieri altri dal suo. Per illustrare questo differente filosofare si prenda in considerazione un passo della prefazione alla Genealogia della morale. Qui Nietzsche si mette esplicitamente in polemica (si pensi anche al sottotitolo dell’opera)76 con alcuni moralisti inglesi, e su tutti con Paul Rée e con il suo Origine dei sentimenti morali. Il filosofo dichiara di sentire verso quest’opera un’avversione intima, radicale, una distanza totale. Per questo egli si rapporta a quelle tesi, ma

[…] non già confutandole – cosa ho mai a che fare io con le confutazioni? – bensì, come si addice ad un animo positivo, ponendo al posto dell’improbabile qualcosa di più probabile, e, talvolta, al posto di un errore un altro errore.77

Dunque non si tratta di confutare, di mostrare come una tesi avversaria sia distante dalla realtà, dalla verità, ovvero di mostrarne la falsità (confutarla, come sempre si era cercato di fare in filosofia). Si tratta invece di fare un lavoro sui fianchi78, giustapporre ad una tesi una tesi diversa, che già in quanto diversa, alternativa, figlia di una prospettiva altra, di un diverso modo di pensare, indebolisce le pretese di verità e di universalità di una determinata posizione79.

75 Cfr. G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 113-118. In realtà la domanda “Chi?” evaporerà alla luce della volontà di potenza come unica istanza che vuole, interpreta, valuta, ovvero che sta al fondo di ogni chi, rendendolo a sua volta un costruzione di cui sia possibile disfarsi. Così come Dioniso è maschera di ogni uomo, fondo plurale di ogni maschera, così la volontà di potenza è l’unità del molteplice, l’uno che afferma il molteplice e dal molteplice è affermato.

76 Il titolo per esteso è Genealogia della morale. Uno scritto polemico. 77 GM, Prefazione, 4.

78 Il punto, come rileva E. Fink (La filosofia di Nietzsche, cit., p. 184, è che Nietzsche non ha la minima intenzione di esaminare delle verità, ma le lavora ai fianchi per renderle sospette (si capisce anche perché la definizione di Nietzsche come uno dei “maestri del sospetto” sia particolarmente efficace.)

79 Anche in Wittgenstein è possibile trovare un movimento simile. Si pensi ad esempio al tema metodologico ricorrente, per cui non bisogna muovere direttamente verso la verità, ma bisogna fare un lavoro continuo per portare l’errore alla verità. Un’applicazione del principio per cui alla confutazione si sostituisce un tipo diverso di attività filosofica, (che lavora ai fianchi la tesi che si