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3 “Il mio nome è legione” 149 : individuo e molteplicità.

3.2 L’illusione dell’unità

“Siamo oscuri a noi stessi, noi uomini della conoscenza”163. Nietzsche apre così La genealogia della morale, testo chiave della sua produzione matura. La vicinanza a se stessi, che tanta tradizione aveva ottimisticamente postulato, l’autotrasparenza che permetteva all’io di indagare se stesso e giudicare le proprie facoltà164, si rivelano ad un tratto dei miti ormai inservibili: come i codici morali vengono ricondotti alla loro natura relativa grazie al metodo genealogico (all’origine di una cosa non c’è la cosa stessa, magari nella sua forma più pura, ma qualcos’altro) così anche la possibilità di conoscere se stessi, come se si trattasse di entità definite, analizzabili, mappabili, cade in primo luogo a causa di un’esplosione della psiche nella molteplicità. Fin dai tempi di Su verità e menzogna in senso extramorale Nietzsche ha ben chiara l’inaccessibilità dell’uomo a se stesso, l’impraticabilità del precetto delfico del gnw,qi seauto,n165: l’uomo è chiuso a chiave nella sua “orgogliosa e fantasmagorica

162 Cfr. H. TAINE, De l’intelligence, cit., p. 1. 163 GM, Prefazione, 1.

164 Nietzsche mette in guardia in un frammento che successivamente sarà raccolto ne La volontà

di potenza (NF VII 40 [21]) sulla pretesa di interrogare il soggetto su se stesso, su ogni

autorispecchiamento dello spirito. Cfr. anche NF VIII 2 [87] sull’assurdità di uno strumento che vuole criticare se stesso.

coscienza”166 dalla quale egli non ha modo di gettare uno sguardo al di sotto di questa semplificazione, verso il “lontano intreccio delle sue viscere, il rapido flusso del suo sangue, i complicati fremiti delle sue fibre”167.

L’ignoranza a se stessi, del resto, è una necessità per l’essere umano, e ciò per due ordini di motivi. Il primo, che tratteremo in seguito, si può spiegare così: se il reggente di uno stato dovesse vagliare ogni singolo movimento che si compie nel suo territorio, gli sarebbe di fatto impossibile governare168; così alla coscienza è necessario entrare in relazioni con eventi massimamente semplificati in modo da non soccombere all’infinità di stimoli che le sarebbero proposti. Il secondo ordine di motivi è essenzialmente sociale. Abbiamo bisogno di un io, chiaro, definito, comprensibile, presentabile, per poter entrare in relazione con altri esseri umani. Parafrasando (con Duncan Large) una massima di La Rochefoucauld si potrebbe dire: “Non avremmo mai avuto un io, se non ne avessimo mai sentito parlare”169. L’idea di avere un’identità, di essere una persona con determinate caratteristiche fisse, stabili, con un carattere definito, non è che un portato della necessità di socializzare: per entrare in comunicazione con i propri simili è necessario offrire di sé un’immagine unitaria, semplificata, che anche gli altri possano gestire senza troppe difficoltà. La relazionalità si collega così alla Feste Ruf170, alla salda reputazione che ci si fa di fronte agli altri, e attraverso questa all’idea semplificata di una solida identità personale. Mentre nella nostra vita la tendenza umana sarebbe quella a moltiplicare le maschere attraverso cui rappresentare se stessi, a seconda dei diversi impulsi dominanti in un determinato momento (il centro dell’io è mobile, instabile, gli impulsi si gerarchizzano di volta in volta in modo diverso, la lotta interiore non ha fine e non raggiunge risultati se non provvisori), i bisogni della società richiedono la cristallizzazione della maschera in carattere, in

166 UWL, I, p. 229.

167 Ibidem Cfr. anche Cfr. Sul pathos della verità in PGZ, p. 88. 168 Cfr. ad esempio NF VII 40 [21].

169 Cfr. D. LARGE, Nietzsche and Proust, cit., p. 166. La versione di La Rochefoucauld sarebbe: “Il y a des gens qui n’auraient jamais été amoureux, s’ils n’avaient jamais entendu parler de l’amour”, LA ROCHEFOUCAULD, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris, 1964, p. 421.

170 FW 296. Sul terreno sociale la pietrificazione di ogni opinione sulle altre persone ha per sé ogni onore, mentre ogni atteggiamento che contraddica la salda reputazione è considerato disonorevole.

ruolo sociale ben definito171 (che tutto questo abbia poi un chiaro riferimento al bisogno di responsabilità, di imputabilità, di cui necessitano lo stato quanto la morale o la religione, lo vedremo in seguito). “La personalità dei filosofi”, scrive Nietzsche in un appunto del 1885, “in fondo [è] persona”172 (intesa in senso etimologico di personaggio, ruolo giocato in una rappresentazione teatrale).

Accanto al dato sociale bisogna affiancare un altro aspetto, per quanto senz’altro secondario: a contribuire all’illusione della coesione e dell’unità dell’io contribuisce anche la brevità della vita umana. Nel minimo lasso di tempo che l’uomo passa in vita, egli ha poche possibilità di mostrare diacronicamente la propria pluralità (considerando per di più che è costretto ad aderire ad un ruolo stabilito e cristallizzato): basterebbe pensare ad un uomo di ottantamila anni per mutare radicalmente opinione, e considerare molto più verosimile che il suo carattere sarebbe ben mutevole, e che egli sarebbe, di fatto, molti individui diversi173. (Accenniamo qui ad uno sviluppo possibile: se negli ottantamila anni di cui parla Nietzsche in Umano, troppo umano, l’uomo sarebbe una moltitudine di individui, in un tempo infinito, nel tempo infinito dell’eterno ritorno per esempio, l’uomo finirebbe per essere ogni uomo? È un aspetto che ci riserviamo discutere più avanti174). In realtà con questo ragionamento al limite Nietzsche vuole dare solo una prova macroscopica, tangibile, di alterità: il punto è che siamo individui diversi (anche se la cosa è molto meno percepibile) al risveglio e alla sera del medesimo giorno175.

L’essenziale è che per Nietzsche laddove si vedono delle unità (siano esse soggetti, facoltà, specie, concetti e via dicendo) c’è sempre il sospetto che si tratti di costruzioni mentali, prospettiche, di semplificazioni conoscitive. Ciò che ci si dà come unità – ciò che crediamo che ci si dia come unità, perché non abbiamo modo di vedere se non il suo aspetto semplificato – è in realtà mera “apparenza di unità”176. Ovviamente questo discorso va letto tenendo sullo sfondo il

171 Cfr. FW 52: la cosa più importante è ciò che gli altri sanno di noi, in quanto è questo che ci chiama ad essere qualcuno, ad aderire ad un’immagine che ci viene imposta.

172 NF VII 34 [57]. Si tratta di un aspetto che accomuna tanto il carattere di un popolo (che viene qui usato come ratio cognoscendi) quanto il carattere di un individuo.

173 Cfr. MA 41. 174 Cfr. § 5.3.

175 Cfr. NF VII 25 [374]. 176 NF VIII 5 [56].

prospettivismo nietzscheano e l’idea della necessità dell’errore per la vita: solo in questa luce si comprende l’unità come uno degli strumenti privilegiati della semplificazione: il linguaggio, per poter parlare ed essere comunicativamente efficace, ha bisogno di parole che abbraccino un numero sufficientemente ampio di fatti (ma così stiamo parlando solo dell’unità della parola che designa qualcosa e non dell’effettiva unità dell’oggetto designato, e l’una non può ovviamente garantire l’altra, ma al massimo dirci qualcosa su come parliamo177). A sua volta il fatto stesso non è che una costruzione arbitraria che astraiamo dalla continuità del reale, rendendo discreto questo continuum e chiamando l’unità fittizia che abbiamo creato un fatto. Nell’aforisma 11 de Il viandante e la sua ombra questo processo viene analizzato, e si mostra come questo atomismo dettato da strutture linguistiche (“Nella lingua si cela una mitologia filosofica”178, scrive Nietzsche) sia ciò che determina la nostra concezione del volere e della libertà, concetti anch’essi di utilità esclusivamente sociale (in relazione all’imputabilità) che diventano teoricamente inconsistenti una volta che si sia negata l’immagine di una realtà di fatti e di vuoto tra un fatto e l’altro.

In effetti, per la volontà è possibile fare un discorso analogo a quello che abbiamo fatto per l’unità del soggetto, e che possiamo in qualche modo considerare un prolegomeno a quest’ultimo (che pure avrà ovviamente un’articolazione molto più ampia). Può sembrare strano che quello che è passato alla storia come il filosofo della volontà di potenza sia anche quello che scrive frasi perentorie del tipo “non c’è nessuna volontà”179. In effetti il punto è che sotto il nome di volontà cadono tutta una serie di eventi che – di nuovo – chiamiamo volontà solo per evitare di doverli approfondire e valutare nella loro complessità inestricabile. “Il volere” scrive Nietzsche in Al di là del bene e del male, “mi sembra soprattutto qualcosa di complicato, qualcosa che soltanto come parola rappresenta un’unità”180. Così in quel grande e confuso contenitore che etichettiamo con il nome di “volontà” in realtà si muovono una molteplicità di sensazioni (di ciò cui si tende, di ciò che si respinge, della tensione e della

177 Cfr. MA 14. 178 WS 11. 179 NF VIII 9 [98].

repulsione stesse, le sensazioni corporee collegate, ecc.) di pensieri concomitanti, di passioni (in particolare qui si manifesta la passione del comando, la convinzione della propria superiorità rispetto a qualcosa che deve obbedire, sottomettersi all’altrui volere). Di tutto questo “il volgo” fa un’unica, banale parola, che non tiene conto di questa molteplicità inestricabile. Da ciò consegue che più propriamente dovremmo considerare un atto di volontà come “la razionalizzazione di un’esplosione di forze o di un cambiamento che precede il progetto. Poiché il nostro corpo è cambiato, noi vogliamo cambiare”181. Si tratta, sul modello taineano, di una lotta tra centri di potere interni all’individuo, tra sotto-volontà, che a sua volta servirà da modello per comprendere la strutturazione plurale dell’io182. La volontà, e in specifico il libero volere, restano utili solo in quanto sono comodi appigli per tutte quelle istituzioni che intendono colpire l’uomo per le sue azioni. Per poter legare l’azione al suo autore è infatti necessario mettere in moto l’intero sistema di finzioni della metafisica occidentale: bisognerà infatti fingere un sostrato agente, postulare un rapporto che si strutturi secondo il modello di causa-effetto e per di più aggiungere un legame ulteriore tra l’autore (postulato) e l’accadimento (visto come effetto) che rappresenti l’imputabilità dell’azione all’agente, e per questo si chiama in causa la volontà (e con essa la libertà)183.

In generale, possiamo dire che quanto brevemente detto per la volontà (che abbiamo preso in considerazione sia perché è più volte menzionata da Nietzsche sia perché riveste un ruolo privilegiato all’interno dell’analisi nietzscheana del soggetto) valga come modello per il modo con cui si considerano sinteticamente come “essere”, “facoltà” o “passione” ciò che proviene da diversi istinti fondamentali ma entra nella coscienza come fosse un che di omogeneo184.

181 MICHEL HAAR, La critique nietzschéenne de la subjectivité, cit., p 344. (Traduzione nostra). Alla negazione della volontà si può arrivare anche percorrendo altre strade: per esempio a partire dalla prospettiva della negazione del concetto di fine. Se infatti si nega il fine in quanto fenomeno, concomitante ad una serie di eventi, traguardando il quale sistematizziamo con l’obiettivo di comprenderla quella serie di accadimenti, corrispondentemente alla perdita del fine dovrà cadere anche l’idea di un volere libero (Cfr. NF VIII 7 [1]).

182 Cfr. NF VIII 11 [73], in cui si sostituiscono alla volontà come facoltà unitaria delle “puntuazioni di volontà”.

183 Cfr. JGB 36.

184 Cfr. NF VIII 1 [58]. Cfr. anche a riguardo MA 14: “si parla del sentimento morale o religioso, quasi che siano pure unità: in verità sono fiumi con cento scaturigini e affluenti”.

Ma torniamo alla nostra questione fondamentale: qual è l’idea nietzscheana di individuo? “Il concetto di individuum è falso”185: esso non è che un’illusione atomistica: non di individuum dovremmo parlare, ma piuttosto di dividuum186. Così come l’atomismo fisico è una struttura mentale che applichiamo alla realtà per spiegarla (ancora una volta: il nostro intelletto comprende solo il discreto), ma la realtà rimane un flusso continuo di forze, così l’“atomismo delle anime”187 è una supposizione metafisica (e morale e religiosa) da superare per una comprensione più profonda dell’io e della sua articolazione. L’idea della disgregazione dell’ego viene proposta in termini poetici nello Zarathustra, nel fondamentale capitolo “Della redenzione”. In questo brano, in cui il maestro dell’eterno ritorno indica alcuni degli aspetti fondamentali dell’oltreuomo e del ritorno stesso, si dà un’immagine dell’uomo come di un essere smembrato, di cui non si vedono che pezzi sparsi ed inarticolati. “In verità, amici, io mi aggiro in mezzo a uomini come in mezzo a frammenti e membra di uomini! E questo è spaventoso ai miei occhi: trovare l’uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di macello! […] [Egli è] frammento ed enigma ed orrida casualità.”188: questo è il grido di Zarathustra, e da qui il suo monito a superare l’uomo, creare un ponte verso quell’essere ulteriore che riuscirà a redimere la casualità perché vorrà la casualità, che redimerà il tempo perché imparerà a volere a ritroso. Il punto che ci interessa qui è la disarticolazione dell’uomo, il suo essere membra sparse, la sua incapacità di essere intero. In realtà il movimento teorico nietzscheano in questo frangente risulta duplice: da una parte questa disgregazione, dall’altra – lo vedremo tra poco – la ricerca di un punto di equilibrio, di un baricentro su cui costruire delle forme, per quanto mutevoli ed instabili, di io.

Ma per il momento restiamo sul campo della molteplicità, della presenza nell’uomo di “viele sterbliche Seele”189, di molte anime mortali, anziché di una

185 NF VII 34 [123]. 186 MA 57.

187 JGB 12.

188 Z, “della redenzione”. Discuteremo questo brano in relazione alla temporalità dell’eterno ritorno nel paragrafo 5 di questo capitolo. Per ora vogliamo solo sfruttare l’immagine dello smembramento umano, metterla in relazione alla molteplicità dell’individuo e comprendere cosa sarà l’oltreuomo rispetto a tutto ciò.

sola anima indivisibile ed eterna. Ciò è vero sia perché ci vediamo abitati successivamente da persone diverse (momento diacronico della molteplicità), sia perché siamo campo di battaglia di forze personali che si contendono il dominio sul nostro io (momento sincronico della molteplicità). Come abbiamo già notato non siamo la stessa persona in momenti diversi della giornata e di notte trasferiamo il nostro io in zone diverse da quelle diurne; altrettanto siamo persone diverse in occasione diverse, in relazioni diverse e nel corso della vita risultiamo irriconoscibili a noi stessi190. La nostra esistenza nel tempo (ci riferiamo ovviamente al tempo comunemente esperito all’interno dell’esistenza umana e non di una struttura temporale alternativa quale sarà quella proposta attraverso la dottrina del Circulus vitiosus deus) è un continuo accordarsi a situazioni imposte, un’intonazione della nostra persona ai segni che la vita quotidiana incessantemente ci propone. Scrive a tal proposito Pierre Klossowski: “Noi non siamo altro che una successione di stati discontinui in rapporto al codice dei segni quotidiani, successione sulla quale la fissità del linguaggio tenta di ingannarci. Fintantoché dipendiamo da questo codice noi percepiamo la nostra continuità, benché si viva soltanto in maniera discontinua: ma questa continuità si riferisce unicamente al nostro modo di usare o di non usare la fissità del linguaggio”191. Così quello che facciamo è aderire ad una serie di maschere, nessuna più vera delle altre, e passiamo da una all’altra, senza che sia possibile, in alcun momento, gettare la maschera e vedere un io reale, un io profondo, un’ essenza personale. E questo accade al di là del continuo tentativo di fissarsi in un ruolo stabilito, voluto e imposto dalle strutture di dominio sociale192.

190 Per tutto questo aspetto cfr. NF VII 25 [374]. Un'altra prova di questa molteplicità interna all’essere umano è data da quella comune impressione di aver cambiato idea su qualcosa, di essersi precedentemente sbagliati: piuttosto che vedere in ciò un procedere dall’errore verso la verità bisogna piuttosto verificare il fatto che sono persone diverse ad aver avuto quei pensieri diversi, pur se interni a quella che viene comunemente considerata un’unica persona (Cfr. FW 307)

191 PIERRE KLOSSOWSKI, Nietzsche e il circolo vizioso, cit., p. 72-73. Continuità e discontinuità non si riferiscono, a mio avviso, allo statuto interno della vita psichica, ma vogliono solo indicare l’unità o la pluralità dell’io (l’io è percepito continuo se è unitario e discontinuo se al suo interno si verificano dei cambiamenti di personalità, se – per usare la metafora taineana – viene alla ribalta un io diverso dal precedente). Che le forze che compongono l’io e che in esso si scontrano siano un continuum non viene messo in discussione da Klossowski.

192 La memoria ha un ruolo fondamentale nel processo che fa di sé un individuo unitario, attraverso un meccanismo di selezione che serve a confermare l’idea preconcetta di un io sostanziale, autore di tutte le azioni compiute.

Se infatti riuscissimo a togliere la maschera, a sbirciare nei recessi del sé, quello che troveremmo non è un’eterea anima che custodisce il sé più intimo e puro, ma solo l’incessante fluire di forze, impulsi, stimoli nervosi: ovvero l’uomo, secondo una metafora cara alla psicologia taineana è un “polipo” che sviluppa le sue parti casualmente, rispondendo a degli istinti.

Ogni momento della nostra vita fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere, altri li atrofizza, secondo appunto il nutrimento che quel determinato momento porta o no in se stesso. Le nostre esperienze, sono tutte, come si è detto, in questo senso mezzi di alimentazione, ma sparsi con mano cieca, senza sapere chi ha fame e chi è già sazio. E in conseguenza di questo casuale nutrimento delle parti, anche il polipo interamente sviluppato sarà qualcosa di completamente casuale, come lo è il suo divenire.193

Il modello che presiede a questa descrizione è ovviamente quello citologico: l’io è un organismo proteiforme, indefinito, asimmetrico, formato da “tentacoli”, da entità cellulari diverse che si accrescono o diminuiscono in base ad esperienze casuali, e il nostro io momentaneo altro non è che il risultato casuale del distribuirsi di queste cellule. Cioè, per capire l’io è necessario supporre una “molteplicità di soggetti”194, il cui gioco d’insieme e la cui lotta incessante danno vita alla nostra vita psichica. L’esito della lotta è un formarsi di “aristocrazie di cellule”195, sempre mutevoli, che dirigono il tumulto citologico. L’uomo ha tante

“coscienze” quanti sono i piccoli esseri che costituiscono il suo corpo (o meglio “del cui cooperare ciò che chiamiamo corpo è l’immagine migliore”196) e che si accrescono, lottano e muoiono, dando alla vita il carattere instabile di un continuo nascere e perire.

Così, come pluralità di impulsi, passioni, istinti diversi, siamo di fatto come una colonia di individui che condividono lo stesso organismo. È questa la prospettiva da cui Nietzsche critica le idee morali di egoismo ed altruismo: l’egoismo non è

193 M 119.

194 NF VII, 40 [42] 195 Ibidem. 196 NF VII 37 [4].

possibile come movente delle nostre azioni anzitutto perché non esiste alcun ego. Compiendo un’azione egoistica non stiamo facendo altro che favorire una singola parte di noi, contro alle altre – e non un fantomatico ego monolitico, con un’unica aspirazione, un unico desiderio, un unico istinto. Altrettanto un’azione altruistica è un’azione che, anziché puntare sul proprio interesse, semplicemente si volge a gratificare altre istanze (soddisfa desideri di tipo diverso, altre aspirazioni o altri istinti): l’altruismo non testimonia – come si è pensato, e come certamente fa piacere continuare a pensare – un miracoloso evento morale, ma solo, di nuovo, l’“autoscissione” dell’essere umano197. Fingiamo un ego unico laddove una delle

forze personali finisce per prevalere, e dimentichiamo tutto il complesso gioco di forze che avviene al di sotto della nostra semplificazione percettiva198.

Il punto essenziale è che per Nietzsche non basta riconoscere questa inevitabile pluralità. Questo sarebbe solo il primo passo: la liberazione dall’autoillusione dell’io unitario così a lungo perpetrata dalla metafisica occidentale. Il punto è riuscire a superare il mero riconoscimento e giungere ad affermare la propria molteplicità, a gioire di essa, a volersi plurali. Perdere la propria identità di comodo spalanca inevitabilmente un abisso sotto i nostri piedi, ci dà la vertigine di non poter essere nessuno perché si è troppe persone al contempo, perché si è affollati da una molteplicità di “individui”, di “anime”, che reclamano il possesso temporaneo della nostra identità, nonostante i nostri sforzi di apparirci uno. L’uomo attivo sarà colui che riuscirà a volere il proprio essere individui di volta in

197 Cfr. MA 57. Cfr. anche M 105 e NF V 6 [70], in cui accanto alla critica della riduzione dei