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Carlo Bo sul numero di aprile di Paragone dichiara di voler «prendere la temperatura del nuovo, dell’ultimo romanzo italiano» e, portata a termine la bizzarra operazione, giunge alla conclusione che non mancano «bei romanzi che sono consacrati a un’immagine e a una persona», ma che mancherebbe un romanzo di carattere «internazionale», «qualcosa che interessi tutti». In mancanza di esempi concreti di tale specie di narrativa, si resta assai perplessi sul significato di tutto il discorso. Perplessità che si accentua dinanzi all’assenza dalla rassegna di almeno due nomi: quello di Giorgio Bassani (altri scrittori di racconti vi compaiono e proprio il Bassani stabilisce un discorso sulla società italiana, dunque dovrebbe rientrare di diritto in un discorso sui rapporti fra scrittore e società), e quello di Elsa Morante (per la quale il rapporto non appare esplicito alla superficie del romanzo, ma è appunto ufficio del critico saperlo sviscerare).

Ci sembra che il vizio dell’impostazione di Bo si colga in una sua frase: «A chi parlare? A chi rivolgersi? Questa è la domanda spietata a cui ogni scrittore deve bene o male dare una risposta», dove si mostra un atteggiamento del tutto inadeguato e semplicistico di fronte alla natura della creazione artistica, quasi che i nuclei poetici vengano sagomati in base a una ricerca di mercato. Eguale domanda avrebbero potuto porsi, e con esiziali effetti, un Melville o uno Stendhal: il pubblico non è necessariamente presente e calcolabile, può anche essere proiettato nell’utopia o nel mito degli happy few e, a giudicare dai risultati, con evidenti vantaggi.

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Anno II, n.ro 6, giugno 1957, pp. 499-501.

[Libri] La ciociara

Con La ciociara Moravia porta alla luce un tema che la coscienza comune in Italia ama nascondersi, palliare, sorvolare anche se non è ancora giunta a trasformarlo in tabù: la guerra come in effetti fu sofferta in certe parti d’Italia, dove le plebi rivissero il loro ruolo di spettatrici inerti delle altrui lotte sul proprio suolo e conobbero gli estremi dell’abiezione; sicché la ciociara raminga con la sua casta figliola per le native campagne riporta alla memoria i manzoniani vagabondaggi d’italiani in cerca di scampo dai lanzichenecchi o asserviti agli spagnuoli. Poco è mutato in apparenza, tutto in sostanza, rispetto al modello manzoniano. Intanto l’autore non narra ma fa narrare dalla sua protagonista, operazione assai più rischiosa di quella analoga di De Foe che parla per bocca di Moll Flanders, perché Moll è della stessa natura del suo autore, è una borghese che conosce soltanto la lucidità implacabile della logica del lucro, non una contadina inurbata che tiene il contatto con le regioni dell’affetto e della commozione attraverso un linguaggio materiato di proverbi e di miti. Gl’interventi del narratore che cala a giudicare gli avvenimenti debbono sottoporsi all’esigenza di apparire sotto specie di buonsenso popolano, proverbioso, conciliante a tratti, furioso ad altri; quando poi si giunga a situazioni estreme, mortali, soltanto sbigottito, ridotto al puro istinto di conservazione. Da un verso è dell’autore la costruzione chiara e distinta del periodare (anche se volutamente affaticata nel calcare le relative) che non è il rosario di anacoluti della parlata grezza, dall’altro egli si mimetizza compiutamente con l’abbondanza da cronaca medievale delle endiadi, con il ritorno degli epiteti fissi, l’immissione del vernacolo.

Nonostante i rischi, la maschera che Moravia qui indossa riesce a liberamente atteggiarsi, appunto manovrando quella materia stilistica greve, che soltanto nel ritmo parrebbe trovare movimento e colore. Si veda come sottilmente sia manovrata la materia linguistica nella scena dello stupro: la pagina è tutta costruita a endiadi, quando, al momento di segnare con forza la scena dello svenimento della ciociara interviene, a dirottare l’aspettativa, non una e, bensì un ma: «Lui allora diede un ruggito, mi riacchiappò per i capelli e mi battè la testa, a parte dietro, contro il pavimento, con tanta violenza che quasi non provai alcun dolore ma svenni». Ritornano le endiadi e il tono stupito, incolore, ma quando di nuovo è necessaria una cesura, essa viene fornita da un’immagine di dolore sereno, intimissima e pudica: «Si vedeva… il pelo biondo e ricciuto simile alla testina di un capretto e sulla parte interna delle cosce c’era del sangue e ce n’era anche sul pelo»; sicché la terribilità della situazione rende, di riflesso, biblico il faticoso seguito di endiadi. Così il rischio del travestimento dell’autore viene eluso di certo nei momenti drammatici. Ma una ambiguità della situazione permane, e più si fa sentire che non nella Romana, anch’essa in prima persona, dove era un tal quale rapporto di innamoramento per il corpo, e il nascere dei sentimenti

in quello, a fondere l’autore con il personaggio, ma soprattutto il fatto che una certa quale morale esistenzialistica meglio si prestava a risolversi in meditazione di coeur simple che non il giudizio sulla guerra.

Qual è il giudizio di Moravia sulla guerra? In parte è quello del personaggio di Michele. È questi uno dei molti malati per eccesso di intellettuale lucidità sui quali Moravia si è curvato talvolta con rabbia, specie nell’avatar del Mino della Romana. Ma il nuovo Michele non attrae la lama dell’analisi spietata, in lui l’intelligenza critica non coincide con una paralisi del volere, non è velo dell’isteria, non maledizione interiore insomma, sibbene irritata e bellamente fiera opposizione alla realtà. In Moravia sempre le storie hanno descritto una discorde trinità di personaggi: il personaggio che riflette e perciò si trova a lottare senza speranza contro l’uomo brutale ed efficiente (Figlio contro Padre) per conquistare la donna, calamitosa al primo sempre, animalesca sovrana. Quando non le lotte fra questi tre termini della suprema trinità psicologica, Moravia narra l’adolescenza dell’uomo che riflette, le gesta del Figlio. Ora il Michele della Ciociara è, si vede subito, un Figlio (e come tale attira le materne attenzioni della ciociara), ma ha rinunciato a contendere con gli altri per la donna, e grazie a questo sacrificio può evitare il

sacrificium intellectus. Che cosa è dunque? Ha osservato Citati che Michele somiglia a un personaggio di Silone, e

di fatto non si può non consentire; Michele è un romantico outsider, ha la stessa propensione a un’oratoria anarchico-cristiana, vuole nutrire la stessa fiducia nei contadini. Il giudizio sulla guerra (sulla storia italiana, dunque) di Michele è, a dirla in breve, quello gobettiano. La mancanza di una rivoluzione protestante è la cagione della chiusura dell’uomo italiano nella sfera miseramente compiaciuta del particolare, dove egli sta confinato, ilare o disperato, dipanando una sua futile quanto più realistica saggezza, uno «spirito oggettivo» italiano al quale sempre si è invano opposto, impigliato nelle contraddizioni dell’«anima bella» e della «coscienza infelice», lo spirito soggettivo dei profeti disarmati. Di qui la mancata partecipazione del popolo alle vicende nazionali. Di qui la guerra che ad esso si disegna come sciagura naturale e null’altro. Soltanto imputridendo, morendo come Lazzaro nel suo sepolcro, potrà il popolo uscire dallo scacco in cui si tiene ed è tenuto, proclama Michele.

Ma Moravia vuole sfuggire a questa struttura ideologica, a questa contrapposizione di gregge e profeti senza seguito: vuole uscire, personalmente, dall’impasse. Questa la ragione del suo mascherarsi dietro la voce recitante. Vuole attingere regioni più vere e vive delle strutture ideologiche, perciò scruta le commozioni, il mondo immediato animale e sentimentale, sempre lì presente a smentire l’ideologo. Ma se l’uomo è la malattia dell’animale, non si raggiungerà mai propriamente la «natura», il vitale immediato, che sempre si scopre mediato, se non altrimenti, da una mitologia. E vediamo, dunque, i personaggi contrapposti a Michele (privo di vita sessuale, significativa equazione fra potenza e sesso da un verso, e fra intelligenza e castrazione dall’altro). Non sono certamente più vicini alla vita coloro che credono alla logica del profitto come unica ragione valida dell’esistenza o che ripartiscono l’umanità in fessi e no (la guerra s’incaricherà di smantellare la loro triviale sicurezza, e così si chiude con compiaciuta fierezza un capitolo, con questo commento: «È morto come potrebbe domani morire tanta gente come lui: correndo dietro al denaro e illudendosi che non ci sia che il denaro; e poi improvvisamente restando agghiacciato dalla paura alla vista di ciò che sta dietro al denaro»). Chi, sospetta Moravia, è nella verità e nella vita, è la ciociara stessa (sessualmente fredda, dunque materna senza limiti; oh rapporto fra madre e figlio che si ristabilirebbe se il sesso fosse eluso!), ed essa è anche l’umile Italia contadina inurbata, che delle astrazioni politiche diffida e dalla religione trae quel che può darle leni consolazioni o vaghi sfinimenti di cuore, mantenendosi, per quanto le riesce, in equilibrio fra lo scetticismo e l’ossequio delle forme teatrali in cui si presentano i sentimenti (o la loro finzione): questo equilibrio passa per la verità, e Moravia pensa che forse, almeno in parte, lo sia, almeno quanto le fredde efferatezze ideologiche. Ma che cos’è questa sapienza antica se non il calco della servitù secolare che detta, a difesa dell’uomo, una sua regressione nello stato infantile, lo fissa nel culto della maternità nutritrice, sensuale ma non sessuale, in una mitologia della buona madre vergine, che si precisa in un culto della mammella (e quale altro tema è tanto riverito nel romanzo? Quando torni, ecco gli epiteti fissi, ecco la nomenclatura precisa, ecco la sua visione trionfale a capezzoli volti in su). È questa la vera mitologia dell’italiano medio con le sue indulgenze verso se stesso, fino al gusto della protervia da figlio che sa d’essere sotto lo sguardo della madre, con i suoi sinceri stupori non sentendosi1 chiamato mai a rispondere dei suoi atti da un giudice freddo, scevro della riserva affettiva

sempre fervente dietro la stessa violenza della madre, la quale finisce sempre col blandire.

Ora Moravia, grazie alla voce recitante della ciociara, riesce a calarsi interamente in questo mondo, lo rappresenta schiettamente, conferendogli l’air bête de la nature. Anzi, un certo tipo di dignitosa rettorica borghese avrebbe largo campo di esercitarsi su questo romanzo per elogiarvi il senso morale diritto della ciociara, il suo naturale istinto del bene e del male, e la sua ispirazione morale mai untuosa, mai astratta (difficilmente Moravia riceverà di tali tributi, però, visto che la guerra e i suoi orrori sono in via di diventare un tabù e non si gradisce che vengano intempestivamente riportati alla luce). Non solo, ma nei limiti delle categorie tradizionali, classicamente moralistiche, la psicologia della ciociara non perde, per essere diritta e retta, in sottigliezza, e tocca momenti assai raffinati, come nei tratti di materna ruffianeria, o di turbamento travestito di trasognatezza (sono tratti del resto consueti alla novellistica classica italiana, i personaggi boccacceschi sanno serenamente vivere sentendo dentro di sé tali movimenti dell’animo, e quando la ciociara dopo l’avventura sul mucchio di carbone afferma di aver come sognato, si riallaccia a una tradizione di giochi narrativi sui confini tra veglia e sonno, che giunse al suo fastigio barocco nella novella del grasso legnaiolo).

                                                                                                               

Si aggiunga ancora che la tradizione di questo stampo, di classico moralismo, è un dottor Jekill che di continuo minaccia di trasformarsi in mister Hyde del melodramma. Moravia, nonostante abbia costruito tutta la narrazione sul traliccio dei sette peccati capitali e dei caratteri teofrastici, tuttavia non cade mai nel pericolo della degenerazione melodrammatica o didascalica moraleggiante: Rosetta è vittima dei marocchini, ma ne riceve altresì una rivelazione di vita: la purezza devozionale della moderna Lucia si mostra mero rovescio della promiscuità indiscriminata, non scelta ma abbandono inerte nell’uno come nell’altro caso; ma per ovviare al lato meccanico del rovesciamento che svela l’essenza, Moravia aggiunge l’episodio del pianto addolorato per la morte dell’amante che riscatta Rosetta dalla condizione di fredda puttana; infine, per evitare che questo pianto sia melodrammatico, provvede a che l’amante sia un ignobile gaglioffo. Del finale dolore di Rosetta si compiace la madre, e così a lei, alla ciociara, è affidato di compendiare la logica dell’umile Italia ch’ella impersona: qualcosa che suona come «mai cessar di far vibrare le corde del cuore» (che poi è il rovescio, peccato non sia stato aggiunto, delle altre truculente massime sparse nel libro, come «promettere e mantenere è da uomo vile»).

La situazione di Moravia in questo romanzo, metà ideologo gobettiano, metà corteggiatore dell’umile Italia, metà giudice intellettuale e metà disposto al sacrificio dell’intelletto per ricuperare il calore della vita quotidiana popolare, è del resto quella della cultura italiana in generale, che oggi ama contrapporre l’ideologia alla sensuale, dolce e selvaggia «vita» (non è questo il caso di un Pasolini?). Altri occhi, stranieri, vedrebbero nella ciociara una creatura irretita nella superficie della vita e vorrebbero udire, invece dell’antica sapienza che esce dalle sue labbra, i monologhi segreti, incoscienti anzi, di Marion Bloom. Forse che questo uso dell’intelletto, in Italia scarsamente praticato, risolverebbe quel dissidio che ora si ama porre come definitivo, che Moravia pone per ora come tale?

Ma valgono nelle campagne bruciate dalla guerra alcuni fantasmi meridiani ai quali dovrebbe andare l’attenzione: forse essi, semivivi, sono gli autentici abitanti di una terra desolata piuttosto che non la ciociara e sua figlia, che serbano intatta l’illusione di una piena vita. Una folle che offre a tutti le sue poppe: Madre vergine nutritrice ridotta a larva spiritata (così gli dèi classici apparvero a Giuliano l’apostata quando volle evocarli); un russo senza fede in nulla, che solitario e imponente e svuotato erra per quei monti: memento della vera condizione umana moderna, resti dell’eros o della bellicosa virilità, allucinazioni e realtà fuse in una.

ALBERTO MORAVIA: La ciociara – Editore Bompiani, Milano, 1957 – Pagine 414, lire 2.000.

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Anno II, n.ro 6, giugno 1957, pp. 512-516.