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La rassegna delle riviste inglesi e americane

La critica letteraria

3. La rassegna delle riviste inglesi e americane

La Rassegna delle riviste inglesi e americane, curata da Zolla negli anni della collaborazione con «Tempo Presente» ripropone nei suoi termini essenziali quelli che furono nello stesso periodo alcuni temi portanti del dibattito culturale in Inghilterra e negli Stati Uniti. La selezione delle riviste prese in esame era quella proposta a Zolla dalla redazione del foglio di Chiaromonte e segue, soprattutto per i periodici americani, l’orientamento liberal-democratico e anti-comunista che fu dell’impostazione intellettuale di «Tempo Presente», inserendosi nel più ampio contesto dell’apparato culturale filoamericano in seno alla guerra fredda. Tra le riviste statunitensi a cui si fa riferimento negli articoli di Zolla si incontrano con particolare frequenza testate come «Politics», «Partisan Review», «The New Leader», ma anche riviste che erano punto di riferimento di organi accademici, come la «Kenyon Review» del Kenyon College, «Dissent» dell’università della Pennsylvania e la «Sewanee Review» della Johns Hopkins University, o di comitati come l’American Jewish Committee, la cui rivista «Commentary» divenne un osservatorio privilegiato per le tematiche legate al mondo ebraico e alle istanze della sinistra anti-staliniana. Molte delle figure attive su queste pubblicazioni sono già emerse in precedenza tra le pagine di questo mio lavoro: «Politics» venne fondata nel 1944 da Dwight MacDonald, uno dei principali membri del gruppo di intellettuali americani che si unì sotto il nome di Americans for Intellectual Freedom e che fu fondatore dell’Associazione per la libertà della cultura, di cui faceva parte lo stesso Chiaromonte (e dalla quale «Tempo Presente» riceveva cospicui finanziamenti). In precedenza MacDonald aveva collaborato con il trimestrale «Partisan Review»,                                                                                                                

fondato da un altro membro della medesima associazione, William Phillips, come alternativa al giornale del partito comunista statunitense, «The New Masses». «The New Leader» fu fondata da Sidney Hook, studioso di Marx e del pragmatismo americano e sostenitore di una concezione emersoniana della democrazia radicale. Nonostante l’affiliazione ideologica queste pubblicazioni non si limitavano tuttavia alla mera discussione politica, ma presentavano un panorama ricco e articolato di quello che era il dibattito culturale negli Stati Uniti, nelle sue caratteristiche peculiari, ospitando tra le loro pagine le più eminenti figure di intellettuali del tempo. La Rassegna delle riviste inglesi fu invece curata da Zolla su «Tempo Presente» per lo spazio di una sola annata, dall’aprile al novembre del 1957, passando successivamente al poeta Rodolfo Wilcock. La selezione delle pubblicazioni inglesi, a differenza di quelle statunitensi, si presenta meno legata all’impianto ideologico della rivista e ai rapporti che intercorrevano tra la redazione e gli intellettuali dell’Associazione per la libertà della cultura, attingendo a un ventaglio di orientamenti più diversificato. Vengono citati articoli e dibattiti e questioni apparsi sul «Times Literary Supplement», sul conservatore «The Spectator», sulla rivista settimanale fondata dalla BBC «The Listener», sul socialista «New Statesman», sul «London Magazine», e solo nel caso della rivista «Encounter» si fa riferimento al sostegno statunitense e all’Associazione per la libertà della cultura, di cui la pubblicazione era organo di stampa nel Regno Unito. Nonostante la selezione delle riviste avvenisse ad opera della redazione di «Tempo Presente», le tematiche che in entrambi i casi l’autore pone in rilievo si ricollegano agli ambiti fondamentali dell’indagine zolliana: la critica letteraria e la critica della cultura, nel primo caso riproponendo questioni e casi letterari di spicco, nel secondo dedicando come di consueto uno sguardo attento alle problematiche e alle peculiarità della società contemporanea.

Già dal primo [4] dei cinque articoli dedicati alla Rassegna delle riviste

inglesi, nel numero di aprile 1957, una riflessione del critico e scrittore Kingsley

Amis pubblicata su «The Spectator» mette in risalto una delle principali conseguenze della «degradazione del pubblico popolare nelle spire dell’industria culturale che somministra pregiudizi, mancanza di curiosità, conformismo e sentimentalismo», ovvero l’assenza «di uno standard morale, di una possibilità di giudizio». La ricerca di una visione filosofica che permetta di dar corpo a un sistema di riferimento e di intervenire sulla tendenza all’omologazione culturale è tuttavia ostacolata

nell’ambito accademico anglo-sassone dal predominio del logicismo e dell’analisi del linguaggio (a fronte dell’impostazione esistenzialista francese e tedesca). «Da tale indirizzo», sostiene Zolla, «non può nascere se non una giustificazione sofisticata all’eterodirezione», e come anche dimostrava su «The Listener» un’allieva di Wittgenstein, Elizabeth Anscombe, secondo cui l’analisi linguistica «è concepita

nello spirito dei tempi, anzi si può chiamare la filosofia dell’adulazione di tale spirito e quindi non fa che avallare gli standards correnti».53 Con l’articolo The limits

of logic, il poeta e critico Herbert Read replica sul «London Magazine» alla

questione «allarmante quanto esatta» sollevata da Anscombe. Dopo aver esaminato gli ultimi testi di analisi logicistica del linguaggio, egli sosteneva come vi sia nello spirito umano una funzione autentica che «spartisce il suo carattere decisivo con la conoscenza» e che genera «un potere formativo originario». Tale funzione «non esprime passivamente il mero fatto che qualcosa è presente, ma contiene in sé un’energia indipendente dello spirito umano, grazie alla quale il fenomeno assume un significato determinato e un particolare contenuto ideale». Zolla tuttavia puntualizza l’aporia che sorge da una simile interpretazione, ovvero «se scansare il problema ricorrendo all’istanza delle forme eterne dello spirito umano non sia una fuga da una certa realtà storica, dove appunto sorge la minaccia di smarrire la funzione interpretativa».54 Tra le conseguenze di tale realtà storica vi è l’emergere di una creazione poetica fondata sul nulla, che esclude «ogni riferimento alle ragioni

umane», come appunto in certa poesia contemporanea di cui un anonimo compilatore

si lamenta sulle pagine del «Times Literary Supplement» del marzo 1957:55 liberata dalla pressione sociale, l’opera di questi scrittori diventa variazione di una «sofisticata trivialità [...] così dando appoggio allo statu quo che essi tengono in dispregio».56

La questione si allargò a vero e proprio dibattito sulle colonne del «London Magazine» che, nel numero di maggio, chiedeva agli scrittori se fosse subentrato un atteggiamento di indifferenza verso i problemi politici e sociali e se avessero rinunciato a stabilire un rapporto fra letteratura e scienza. Le risposte giunsero da scrittori come Roy Fuller, John Osborne e Colin Wilson, e incarnarono una tendenza di mediazione e inclusione piuttosto che di radicalismo oltranzista. Per Osborne il                                                                                                                

53 Appendice [4], p. 126. 54 Appendice [4], p. 127.

55 Fino al 1974 le recensioni contenute nel settimanale londinese erano generalmente

anonime.

terribile compito dello scrittore è quello di trovare un linguaggio comune, rifiutando

la «prospettiva calibanica dell’uomo all’angolo della strada», quello che negli anni Trenta era «minacciato dalla miseria mentre oggi, acquistata la sicurezza, sembra diventato un orrendo mostro che consuma in football pools ciò che viene sottratto alle altre classi». Per Wilson la letteratura inglese poteva essere rivitalizzata solo attraverso un nuovo esistenzialismo, e «il vero problema è di intendere la posizione

della civiltà, evitando la superficiale adesione a qualche ideologia politica (o

filosofia, come al positivismo logico, sorta di fascismo filosofico)».57 Il limite della letteratura inglese del tempo sembrava a Zolla quello di rivelarsi incapace di affrontare le «varie realtà sociali con una visione chiara e distinta del comportamento etico ideale» (donde il contemporaneo estendersi dell’ammirazione per Jane Austen, legata alla «nostalgia verso una capacità di giudizio sociale»).58 In questa stessa

prospettiva, su «Twentieth Century» dell’aprile 1957 il critico Philip Nicholas Furbank «coglie un tratto rivelatore della mentalità della middle class attraverso certi suoi manierismi di linguaggio sui quali finora non si era soffermata l’attenzione. Egli nota la tendenza a coniare in ogni occasione non propriamente uno scherzo, ma un

pro-scherzo, che soddisfa il bisogno di dire qualcosa su una situazione e non già

l’esigenza di giudicarla». Il totale divorzio delle parole dai fatti: «anche qui un atteggiamento di passività rispetto al condizionamento sociale e una tendenza a fossilizzare, attraverso il linguaggio, il carattere e la capacità di spontaneità».59

In un articolo anonimo dal titolo Loyaltis, apparso nel numero di giugno del «Times Literary Supplement» emerge il quadro preciso della situazione sociale da cui conseguono queste manifestazioni letterarie: «fra noi in Occidente, incerti di noi stessi e timorosi del futuro, il pensiero indipendente è bloccato, l’originalità è rara, e i vecchi avversari, minacciati l’uno e l’altro da quanto viene nascendo di poco familiare, serrano i ranghi e appaiono difficilmente distinguibili». E questa è la matrice, continua l’articolo del TLS, anche delle peculiarità in seno alla politica inglese: le strane identità di posizione nell’Inghilterra odierna fra conservatori e socialisti, «l’oppressivo conformismo dell’establishment, la preoccupazione delle autorità che cercano ansiosamente i loro ‘privilegi’ e l’aggrapparsi dell’uomo comune al conforto della posizione sociale, del protocollo, dell’etichetta. Vecchi e giovani, governanti e governati tendono ansiosamente a vedere garantita la loro                                                                                                                

57 Appendice [7], p. 130. 58 Appendice [12], p. 137. 59 Appendice [12], p. 137.

sicurezza, e sicurezza significa soltanto la perpetuazione del familiare».60 Ma questo dato di fatto esce dai confini anglosassoni e si eleva a condizione universale; vige una nuova schiera di “traditori”, estranei a ogni contenuto di “lealtà”, di cittadini-del- nulla che, atomizzati, «non danno alcun valore positivo alla loro società e al suo Stato amministrativo», fra i quali serpeggia «un pragmatismo nudo e senza pudore […] e una insistenza latente sul bisogno di conformarsi».61 Un articolo dello psicologo Frank H. George, tra i primi studiosi di cibernetica, apparso sulla «Quarterly Review», già insisteva a paragonare questo processo di atomizzazione sociale allo stato delle cavie da laboratorio degli esperimenti di psicologia, invitando a riflettere «sul generale effetto che può avere l’assenza di stimoli veramente efficaci e umanamente sentiti nella vita quotidiana e sulla conseguente solitudine». Ridotta la cultura a mero interesse di una minoranza, «la folla solitaria» sviluppa, come la cavia alienata, «la stessa tetra assenza di critica, la stessa disponibilità all’emozione isterica incontrollabile, la stessa inclinazione a una visione del mondo come cospirazione e persecuzione».62

Il dibattito critico sulla sclerotizzazione sociale nella civiltà di massa non si limita all’analisi del ruolo dell’intellettuale; nel numero di aprile 1957 di «Encounter» il giornalista conservatore Angus Maude analizza un tema che sarà affrontato a più riprese dallo stesso Zolla e, due anni più tardi, troverà ampia trattazione tra le pagine di Eclissi dell’intellettuale: la passione del gioco. Con il diffondersi su larga scala del tipo del giocatore, icona simbolica del mondo moderno, totalmente affidato al caso o alla fortuna, «Ahimè, ogni gloria è svanita. Come l’architettura georgiana cede alla subtopia, i grandi giocatori sono sostituiti da milioni di sempliciotti, tutti destinati a perdere, e dei quali ben pochi riceveranno una scossa sessuale o di altra natura».63 Ma in generale – osserva Zolla – scarseggiano le prese di posizione intese a smuovere l’opinione comune dalla palude del conformismo, e sembra che solo «verso problemi meno complessi, dove gli antichi strumenti di giudizio meglio si prestano a concretare una reazione etica, invece, l’equilibrio inglese si riafferma»: ne è un esempio l’attenzione verso la situazione sudafricana, dove il problema razziale dell’Apartheid risulta ancora più grave della                                                                                                                

60 Appendice [15], p. 141. 61 Appendice [15], p. 141. 62 Appendice [24], p. 160.

63 Appendice [7], p. 130. «Il neologismo subtopia» - spiega Zolla – «nasce da una polemica

della Architectural Review che levò l’allarme per la diffusione delle nuove cittadine micidialmente utilitarie».

questione afro-americana negli Stati Uniti, che trova ampio spazio di discussione ad inizio 1957 tra le pagine di «Encounter» e del «New Statesman».

Le questioni di critica letteraria si presentano anch’esse in queste pagine essere il più delle volte legate a doppio filo alle questioni sociali. È il caso, in primo luogo, del dibattito sul new criticism che emerge nella Rassegna delle riviste inglesi [7] del maggio 1957 con riferimento ad un articolo di Middleton Murry apparso sul «London Magazine», in cui lo scrittore recensiva l’ultimo volume del critico statunitense Richard Blackmur,64 inquadrando i motivi che avevano indotto i new

critics a slegare l’analisi critica dalle contingenze storico-ideologiche. Sostiene

Murry che «le forze economiche che hanno spinto la critica a cercare rifugio nelle Università sono una delle conseguenze del crollo culturale che, come seconda conseguenza, ha costretto individui di genialità letteraria a crearsi dei mondi privati. [...] In realtà avviene che la critica stessa genera mondi privati ai quali difetta la freschezza creativa o la perentorietà dell’incarnazione».65 Tra i casi letterari che animavano la critica inglese sul finire degli anni Cinquanta e che vennero ripresi da Zolla sulle pagine di «Tempo Presente» vi è quello legato alla figura di James Joyce. Nel «New Statesman» del marzo 1957, lo scrittore e critico Victor Sawdon Pritchett ritrova nello Ulysses la «robusta architettura della tradizione letteraria», mentre in

Finnegans Wake «Joyce ricorre, come molti altri artisti esausti, a un tema troppo

liquido, troppo facilmente universale. […] Ma fu il primo in una civiltà urbana a creare una città e a darle l’unica parola che ne rende possibile la vita, il sì dei suoi ricordi vaganti, il sì di Molly Bloom, così spesso volgarmente travisato». Affermazione che Zolla, tendenzialmente ostile a Joyce, commenta ironicamente: «il problema dell’adjustement alle nuove condizioni, come si vede, interviene anche nei problemi di valutazione estetica».66 La pubblicazione delle lettere di Joyce portava nel frattempo allo scoperto alcuni giudizi sconcertanti dello scrittore irlandese: «l’accusa rivolta a Lawrence di essere un mero pornografo, la scrollata di spalle dinanzi alla fama di Proust (non vedo alcun particolare talento in lui)». Nel numero di maggio 1957 del «Times Literary Supplement» la sentenza, che Zolla fa propria

                                                                                                               

64 Il titolo dell'opera non viene citato da Zolla ma si suppone, vista la coincidenza temporale,

possa trattarsi di Form and Value in Modern Poetry, edito nel 1957.

65 Appendice [7], p. 130. 66 Appendice [7], p. 130.

con tacita approvazione, è perentoria: «L’impressione generale è che Joyce non fosse un uomo spiacevole, ma tremendamente limitato».67

Anche nella Rassegna delle riviste americane, di cui si ha un ventaglio molto più nutrito che copre l’intero arco della collaborazione dell’autore con «Tempo Presente», gli snodi tematici messi in rilievo da Zolla nelle sue analisi coinvolgono dibattiti e questioni riconducibili alla critica della cultura e alla critica letteraria, colte sovente nel loro reciproco intersecarsi. Donde un panorama multiforme che spazia dalle ricadute letterarie della civiltà di massa, alle riflessioni sull’arte d’avanguardia, alla narrativa americana contemporanea. Nell’autunno del 1956, un intervento di Thomas Stearns Eliot sulla «Sewanee Review», rinnegando la paternità del new

criticism, a lui spesso attribuita, si schierava in difesa di quello che era a suo modo di

vedere il reale obiettivo della critica, «che dovrebbe essere sintesi di comprensione e piacere estetico, e che rompe tale sintesi quando soffoca il testo sotto l’apparato delle spiegazioni»; nel che, sostiene Zolla, «il saggio di Eliot può anche riuscire utile a mostrare l’errore di chi scambia l’esposizione della ricchezza di riferimenti possibili del testo per un avallo della validità poetica»,68 come nel caso di tanta critica joyciana.

Da un articolo della «Hudson Review» dell’inverno 1956, Zolla riporta un primo affresco della narrativa americana contemporanea e, citando autori come Sloan Wilson, Cameron Hawley, Herman Wouk, ne evidenzia una comune struttura narrativa: «non più il vecchio tema della conquista del denaro o della donna domina, sibbene il desiderio di integrarsi in un gruppo, di conformarsi, dopo avventure, dubbi e tribolazioni pseudo reali. Il momento della verità è quello di integrazione (nella marina in The Cain Mutiny, nel business in Executive Suite), gli eroi fanno il loro dovere, e gli scellerati vorrebbero poterlo fare; il male è per lo più l’intellettualità cinica».69 Scrittori che Herbert Gold, nel numero estivo della «Partisan Review», definisce pseudo-romanzieri, opportunisti dei problemi. Ma esistono altre categorie, a completare il panorama americano contemporaneo, e sono quelli che Gold definisce come i brutali, i romanzieri alla Hemingway, «troppo impauriti da ciò che si svolge dentro un cervello, entro una memoria, entro un gruppo di persone per poter affrontare queste realtà per un tramite che non sia quello di far scoppiare dei simboli fisici come pugni sulla pagina»; o i catalogatori, che riconducono tutto a trivialità e                                                                                                                

67 Appendice [12], p. 138. 68 Appendice [2], p. 124. 69 Appendice [5], p. 128.

la cui prosa «è un’oppiacea elencazione di particolari che corrisponde a una rinuncia ad ogni giudizio dinanzi al peso morto dei fatti»; e infine i the outer-essence girls, «le fanciulle dell’essenza esteriorizzata, i decorativi alla Truman Capote».70 Nella primavera del 1957 su «Dissent» un articolo del critico Richard Chase, Heresy and

modern culture, si propone «sulla base di un paradigma di umanità integrata e di

letteratura integrante» come «ricerca delle linee di forza della letteratura americana». La civiltà di massa non porta che ad una recisione ancora più profonda tra highbrow e lowbrow literature (ma anche tra uno stato d’animo conservatore e uno radicale), e Zolla sottolinea come l’errore sia quello di «voler individuare la salute nella falsa mediazione della cultura media […], mentre solo nella dialettica degli estremi la letteratura attinge una sua vitalità».71 Quella che Dwight MacDonald definì come la

controrivoluzione della cultura media fu in realtà l’esito finale di una demonizzazione dell’avanguardia degli anni Venti e Trenta che, accusata di aver perduto il contatto con la quotidianità, «si era congelata in un atteggiamento di superiorità distruttiva».72 Identificarsi con la società divenne allora il modo per lo scrittore di riabilitare la propria legittimità e di opporsi allo snobismo avanguardista, i personaggi dovevano incarnare una bontà che era tutta fatta di adattamento alla vita e alle circostanze (e per essi l’hipster era il radicale antagonista). La letteratura massificata diventa per lo più un coacervo di ripetizioni e stereotipi: è la letteratura dei romanzi di science-fiction, dei western, dei polizieschi, il nuovo genere che fornisce anche l’identikit del lettore medio e di quella new illiteracy che per Blackmur (citato da Zolla dal numero dell’inverno 1956 della «Hudson Review») non è ignoranza, analfabetismo, ma conoscenza frammentata o specializzata.

L’altro filone della selezione zolliana pone in rilievo principalmente due argomenti: l’analisi della cultura di massa e quella della questione razziale. Nella rassegna apparsa sul numero di «Tempo Presente» del luglio 1957 [13] Zolla segnala sulle pagine di «Dissent» una diagnosi e una percezione lucida dei fenomeni della cultura di massa, e cita in proposito il numero invernale della rivista dove Murray Hausknecht esplora gli effetti dell’invasione «delle dimore private da parte della televisione», che «trasforma il domicilio inviolabile (l’antico intérieur borghese sacrale) in una vasca di pesci rossi». «Ora tutti possono, vendendo la loro sfera privata, diventare celebrità. C’è da aggiungere che si porta agli estremi uno sviluppo                                                                                                                

70 Appendice [25], p. 162. 71 Appendice [13], p. 138. 72 Appendice [33], p. 175.

già intimamente legato al mezzo fotografico, di cui Melville diceva: Una volta il

ritratto eternava il gentiluomo, oggi la fotografia quotidianizza l’imbecille».73 Nel numero dell’estate 1957, parallelamente all’uscita del volume di Bernard Rosenberg e Manning White Mass culture, la rivista ospita una rassegna di interventi – tra cui spiccano quelli di George Orwell, Theodor Adorno, Dwight MacDonald – che «riassume l’intera gamma degli atteggiamenti del pensiero liberale interessato ai fenomeni di massa. L’editoriale di «Dissent» prende toni acri e denunciatari:

Possiamo davvero avallare l’idea che si viva in una società sana, in una società che richiede soltanto alcuni miglioramenti occasionali e non mutamenti radicali, quando leggiamo che nel 1956 si consumarono centocinquanta milioni di dollari di ‘tranquillanti’ contro gli ottantacinque del 1935?. «Dissent» vorrebbe dunque

tentare di rispondere alla domanda, apparentemente apolitica: L’uomo è felice?».74

Nello stesso numero l’articolo Americans in subtopia a firma di W. J. Newman ritrova nel sobborgo la patria della classe media, luogo dove socializzarsi e dove estendere, applicandole alla famiglia, le battaglie per il successo dell’uomo d’affari, il nuovo piccolo-borghese. È nel foot-ball il paradigma dei rapporti umani: «ognuno deve attenersi al proprio ruolo, che conviene interpretare con spirito sportivo».75 Nelle classi lavoratrici invece «i messaggi dell’industria culturale stanno sradicando nell’operaio il desiderio di rendersi indipendente e autonomo: egli sogna ormai di ostentare un’automobile di lusso o una casa arredata secondo i precetti dell’arredamento in serie, ed è disposto a caricarsi di ore lavorative supplementari o addirittura di due lavori per poter attingere il paradiso come appare nelle pubblicità e