• Non ci sono risultati.

Sotto gli auspici di Thomas Mann, una parte del romanzo di Robert Musil L’uomo senza qualità era apparsa nel 1931, né a rigore si può dire che non ne fosse riconosciuta l’importanza. Nell’agosto del ‘33, sulla Nouvelle

revue française, il Bertaux colpiva il carattere dell’opera, osservando che «ce sont pour ainsi dire des paralipomènes

òu la fantaisie erre à son gré comme dans les Essais de Montaigne», e anche scopriva il segreto della critica dell’epoca attuale svolta con tale minuzioso accanimento dal Musil: «opposer un pas encore, écarter les apparences de solution, entretenir une utopie des possibles est la seule activité qui convienne au moraliste: celle de Montaigne pendant les guerres de religion».

Altri accostamenti, altre parentele furono prospettate quando il libro apparve in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma bisognerebbe guardarsi dai frettolosi imparentamenti con Joyce (il monologo interiore in Musil è sempre fermamente dominato dalla ragione, mai l’autore vi si invesca affascinato) o con Proust (se anche in Proust c’è sovente il gusto della metafora che paragona al gioco degli elementi chimici i rapporti affettivi, non c’è la tonalità freddamente scientifica, il rigore secco e l’esasperazione che l’accompagna in Musil). Più vicini al vero sarebbero semmai accostamenti con il mondo della cultura austriaca; per il particolare genere di commedia brillante in cui tratto a tratto danzano i personaggi si può pensare alle commedie leggere di Hugo von Hoffmanstahl, per l’umore corrosivo e per l’intransigenza verso ogni facilità a Karl Kraus.

Saggio? Romanzo? Interrogativi, questi, che probabilmente saranno ripresi ora che l’opera appare con un certo ritardo in Italia, ma che paiono di ben scarso interesse, e chi fosse tentato di disquisirne dovrebbe prima meditare l’ironia con cui il Musil tratteggia la commissione di penalisti che discutono interminabilmente se in un certo quale articolo d’un progetto di legge, che mai sarà varato, si debba scegliere fra due ipotesi il collegamento dell’oppure o quello dell’e. Tralasciamo dunque la questione se L’uomo senza qualità sia romanzo e saggio, romanzo oppure saggio.

La tensione del narrare anima la lettura, anche se difficilmente si riesce a distinguere in sé, leggendo, il piacere dato da quella che Mann chiamava «la festa del narrare» o l’altro che proviene dalla lucidità risolutrice di problemi speculativi. La trama è sì coerente e tesa, ma sempre variamente proliferante: il protagonista Ulrich, come l’autore, si dà prima alla vita militare, poi si dedica alle scienze naturali, infine si ritrae a vivere dei sussidi paterni in un palazzotto viennese, coltivando l’amicizia di una coppia di wagneriani, Clarisse e Walter, facendo l’amore con la moglie di un giudice, Bonadea, oziosamente preoccupandosi delle sorti di un delinquente sessuale il cui processo appassiona la città, Moosbrugger (un tipo di primitivo con tratti da demagogo; la materia alla Döblin è trattata con penetrazione di saggista ironico). Ulrich viene attratto poi nel giro di una strana iniziativa patriottico–culturale promossa dall’ambiziosa signora Diotima, che con l’aiuto dell’industriale umanista Arnheim (e si dice che questi sia ispirato a Rathenau) cerca disperatamente di scovare un bell’ideale unificatore chiamando grottescamente a consultazioni i rappresentanti della burocrazia, dell’esercito e della cultura. L’impresa finisce nel vuoto, salvo far accendere d’amore Diotima e Arnheim, e salvo rivelare alla fin fine che Arnheim profonde massime goethiane e accenni di alta spiritualità per impadronirsi dei petroli galiziani. Mentre Ulrich frequenta il salotto di Diotima si trova anche impigliato nella difficile impresa di liberarsi dalla ardente Bonadea, e nell’isterico amore di una ragazzina, Gerda, che fa parte d’un gruppo di giovani nazionalisti tedeschi feroci avversari dell’impresa di Diotima, ispirati e vaneggianti sulla scia di Stefan George.

Il romanzo restò incompiuto, ma se ne stagliano perfettamente compiuti alcuni caratteri destinati a sopravvivere fra i personaggi esemplari della narrativa: Clarisse, con il suo torbido desiderio di purezza e la sua confusionaria velleità di chiarezza, l’isterica Gerda e il goethiano Arnheim. Ma il pensiero di Musil, per essere disseminato a caso o proposto a mezza voce sulle labbra di personaggi, è nondimeno di una coerenza speculativa che lo apparenta, come si diceva, a quello di Karl Kraus. Paiono aforismi krausiani le diagnosi dell’uomo moderno del Musil, che con leggerezza viennese si impiantano nello stesso filone di critica della civiltà che fu propria di Walter Benjamin: «L’uomo moderno viene al mondo in una clinica e muore in una clinica, per conseguenza deve anche abitare in una clinica! Questo era l’assioma di un architetto di grido» (p. 21); «domande e risposte ingranano come i pezzi di una macchina, ogni individuo ha soltanto compiti precisi, le professioni sono raggruppate in luoghi determinati, si mangia mentre si è in moto, i divertimenti sono radunati in altre zone della città, e in altre sorgono le torri che contengono moglie, famiglia, grammofono e anima» (p. 34); «il regolo calcolatore... è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore» (p. 41); «alla fine non rimangono che le formule, e che cosa significhino le formule umanamente non si può esprimere... se oggi qualcuno vuole chiamar fratelli gli uccellini, non deve fermarsi a queste piacevolezze, ma esser pronto a gettarsi nella stufa, a infilarsi nel terreno attraverso una conduttura elettrica o a guazzare nelle fogne giù per un lavandino» (p. 75); «la probabilità di apprendere dal giornale una vicenda straordinaria è molto maggiore di quella di viverla personalmente, in altre parole oggi l’essenziale accade nell’astratto e l’irrilevante nella realtà» (p. 78); «Platone riconoscerebbe in una redazione di giornale quel topos uranios, la patria celeste delle idee» (p. 375); «il denaro è

affine a tutte le forze spirituali, e sul suo modello gli scienziati scompongono il mondo in atomi, ipotesi, leggi e strani segni algebrici, e su queste finzioni i tecnici costruiscono un mondo nuovo... l’uomo, cosciente che prima o poi bisognerà reggere le nazioni come fabbriche, guardava laggiù il brulichio di uniformi, di facce boriose piccole come uova di pidocchio con un sorriso in cui si mescolavano superiorità e tristezza» (p. 590); «si era accorto per un’inesprimibile associazione d’idee che l’ordine porta al bisogno di uccidere» (p. 607); «i vocaboli mira e scopo provengono dal linguaggio degli archibugieri; essere senza mira e senza scopo, nel suo significato originale, vuol dunque dire non essere un uccisore» (p. 652); «nella forma della divisione sociale del lavoro, non s’esprime altro che l’antica dicotomia della coscienza umana in scopo giusto e mezzi tollerati, per quanto in modo grandioso e pericoloso» (p. 743).

Un elenco, questo, di aforismi che si potrebbe attribuire, a occhio, a Kraus o Benjamin. Ai critici della decadenza cioè, che non scavitolano nell’elogio dell’irrazionale o delle antiche forme di vita; in questo la sanità mentale del Musil. Infatti: «Se tu fuggi da questa lugubre normalità e ti ripari nel profondo del tuo essere, dove stanno di casa gli impulsi incontrollati, in quell’umido tenebrore che ci protegge dall’aridità della ragione, che cosa trovi? Stimoli e riflessi previsti, rotaie d’abitudini e d’attitudini, ripetizioni, serie, fissità, monotonie! Quella è caserma» (p. 437). Musil rifiuta di essere asservito al tempo «che non per vocazione di fede torna a manifestare forti tendenze religiose, ma soltanto, si direbbe, per femminea puntigliosa ribellione contro il denaro, la scienza e il calcolo, ai quali soggiace appassionatamente» (p. 451).

Una tale consapevolezza della dialettica storica trova nel Musil un corrispettivo stilistico che è diverso da quello joyciano (il quale soggiace al fascino del disordine e viene ingoiato nella materia bruta). La sua metafora è sempre esasperata, come sofferente per un eccesso di lucidità, le similitudini sono forzate, come quelle di Kafka (se in Kafka la pioggia è composta da «ferrei getti» e il cielo è «una lastra di vetro continuamente spezzata», per Musil una veletta è un intrico di sbarre di ferro arroventate), oppure sono destate in vita da uno shock di natura viscerale («pane su cui sia versato del profumo») o dalla ripugnanza dell’accostamento del naturale organico allo scientifico– surreale («gli assali degli occhi sporgono dalle teste come quattro lunghi steli», dove la natura è accostata in modo volutamente stridente all’immagine scientifica e poi alla vegetale). Ma alla fine del romanzo tale tecnica dura e aspra nella costruzione delle similitudini viene assorbita in un metaforeggiare consapevole sì ma anche esaltato, che trasforma miticamente eppure controlla la realtà (al modo di certe pagine di Mann), nel discorso sui pesci (p. 711) che raggiunge la fusione dell’empito miticizzante e della psicologia analitica con un’intensità che raramente si sente in Joyce. In tale tendersi dello stile, che nella scena dei pesci trova un esito nella metafora pregnante, si riflette la visione speculativa del Musil, che cerca, nel disordine della «crisi», di non abdicare alla totalità, alla comprensione unitaria dell’universo, anche se una visione totale e organica di una realtà inorganica implica che da tale realtà ci si ritragga per tenerle fede e che ci si rifugi, come esattamente intravedeva il Bertaux, in una posizione negativa e utopistica.

ROBERT MUSIL: L’uomo senza qualità – Editore Einaudi, Torino, 1957 – Pagine 773, lire 4.000.

[4]

Anno II, n.ro 4, aprile 1957, pp. 315-317.

[Rassegna delle riviste] Inghilterra

LA CARENZA di uno standard morale, di una possibilità di giudizio, è lamentata da vario tempo in Inghilterra e con insistenza. Naturalmente alle analisi superficiali sembra di poter gettare la colpa di un certo offuscarsi della reattività e creatività sulle conquiste del Welfare State. Sullo Spectator di marzo Kingsley Amis, rilevata 1° degradazione del pubblico popolare nelle spire dell’industria culturale che somministra «pregiudizi, mancanza di curiosità, conformismo e sentimentalismo» (dal Leavis in qua il lamento continua), osserva che taluni di tali caratteri sono endemici dalla caduta di Atene, mentre altri, quale la tolleranza come livellamento, sono una triste novità. Non resta che suscitare una certa moralità, ovvero intolleranza, ed è questa la preoccupazione dominante. Talmente essa preme che le superficiali esortazioni di Colin Wilson paiono riscuotere credito, come se non fosse un logoro luogo comune la sua conclusione: «La nostra civiltà può essere soltanto salvata da una nuova èra religiosa» (così ribadisce su Encounter di gennaio).

Ma, al di fuori di tali frivole ricette, quale visione filosofica può esservi oggi in Inghilterra che dia una struttura alla realtà che promuove il problema? Si sa quanto le università sono impregnate del logicismo e dell’analisi del linguaggio, e però da tale indirizzo non può nascere se non una giustificazione sofisticata dell’eterodirezione. Lo conferma G. E. Anscombe su The Listener (14 febbraio) rispondendo alle accuse di amoralismo rivolte alla filosofia oxoniana: l’analisi linguistica «è concepita nello spirito dei tempi, anzi si può chiamare la filosofia dell’adulazione di tale spirito» e quindi non fa che avallare gli standards correnti.

Conclusione allarmante quanto esatta, alla quale tuttavia l’anonimo compilatore dell’articolo apparso sul

imprecisa e riduttiva: «Ci si può domandare anche quale sia la preoccupazione umana di coloro che vogliono fondere le sfere che gli ultimi sviluppi della logica paiono aver separato: non è forse la spinta verso un’unità assoluta e indipendente che è a un tempo morale e metafisica?... La cura potrebbe essere (per il filosofo) di scrivere la propria autobiografia, come fece R. G. Collingwood».

Una replica assai meglio equilibrata fornisce Herbert Read allo stesso quesito sul London Magazine, fascicolo di marzo (The Limits of Logic), dove conclude il suo esame degli ultimi testi di analisi logicistica del linguaggio richiamandosi a Cassirer: «La funzione autentica dello spirito umano spartisce il suo carattere decisivo con la conoscenza, non si limita a copiare ma piuttosto dà corpo a un potere formativo originario. Non esprime passivamente il mero fatto che qualcosa è presente, ma contiene in sé una energia indipendente dello spirito umano, grazie alla quale il fenomeno assume un significato determinato e un particolare contenuto ideale... Tutti vivono in particolari mondi immaginativi che non si limitano a riflettere il dato empirico».

Ma ancora qui ci si può domandare se scansare il problema ricorrendo all’istanza delle forme eterne dello spirito umano non sia una fuga da una certa realtà storica, dove appunto sorge la minaccia di smarrire la funzione

interpretativa: una situazione storica che genera una nuova poesia come quella lamentata sul Times Literary Supplement dell’8 marzo (Too late for Maverick), in cui i giovani poeti vorrebbero costruire l’opera in un vuoto,

escludendo ogni riferimento alle ragioni umane: «Gli scrittori che scelgono di indirizzare in questo senso il loro lavoro sono condannati a riflettere le astrazioni filosofiche e i miti sociali che li circondano... Evitare la pressione

sociale consente a un certo pensiero, la sofisticata trivialità di una minoranza colta, di pervadere la loro opera... così

dando appoggio allo statu quo che essi tengono in dispregio».

I tentativi di uscire da questa impasse sono rari, e si legge con interesse l’invocazione di Julietta Hawks (A

new Morality) nel New Statesman and Nation del 5 gennaio. La Hawks, probabilmente a sua insaputa, formula

piuttosto rozzamente i pensieri espressi nella recente opera di Herbert Marcuse, e chiede l’avvento d’una moralità dove la virtù sia «l’esercizio, l’addestramento e il godimento dei sensi, dell’immaginazione e dell’intelligenza» e il male sia «l’azione che conduce al brutto»: dalla rovina delle antiche città ai rumori molesti, allo spirito di profitto.

E tuttavia si resta sempre all’enunciazione vaga quando non si resti alla superficie. Così Desmond Shaw Taylor nel New Statesman del 23 febbraio (O. K. for Angst) ritiene di poter assumere un tono di critica sufficiente verso la musicologia di Adorno importata in Inghilterra dal Mitchell, senza affatto intenderne i motivi.

Verso i problemi meno complessi, dove gli antichi strumenti di giudizio meglio si prestano a concretare una reazione etica, invece, l’equilibrio inglese si riafferma. È il caso della situazione del Sudafrica risollevata in

Encounter (gennaio) e nel New Statesman (23 febbraio).

In Encounter Colin Welch individua nella mancanza di una dialettica politica sudafricana una delle più gravi minacce per il futuro, ciò che rende la situazione sudafricana assai più grave che non quella degli Stati Uniti: è che solo opinioni estreme trovano espressione nel paese mancando la funzione mediatrice anche se ipocrita che possiamo riscontrare nei propugnatori americani del caso per caso e dello sviluppo naturale.

Nel già citato fascicolo di gennaio di Encounter è offerta una rivelazione straordinaria, un Nô moderno di Yukio Mishima, (Hanjo), sorta di trasposizione delle lesbiche di Huis Clos nella rarefatta allusività della tradizione del dramma sacro giapponese. Il giovane Yukio Mishima (è nato nel 1925) mostra di seguire, piuttosto che Osamu Dazai, la lezione di Yasunari Kawabata, fondendo una problematica psicologica moderna nelle antiche forme nazionali.

Nel numero di marzo di Encounter Leslie Fiedler ritorna al suo tema preferito: l’assenza dell’amore-passione nella letteratura narrativa americana. Anche se qualche forzatura offusca la sua esposizione (ad esempio l’identificazione della Pamela di Richardson con la borghesia e del Lovelace con l’aristocrazia), si segue persuasi la sua calata negli inferi, nelle fonti segrete da cui nascono i simboli della narrativa. In America, Lovelace (il tenebroso seduttore di Richardson) viene spezzato in due diverse figure: da un lato l’uomo marito-bambino, dall’altro la donna tenebrosa destinata a essere uccisa con paura. L’uomo-bambino proietta a proprio conforto l’immagine della donna angelicata, riflesso della sua impotenza. Dal Pierre alla Figlia del dottor Rappacini, fino alle eroine di Hemingway e Fitzgerald si rintraccia lo svolgersi unitario del mito, che trova una sua espressione voyeuristica e vendicativa nel Popeye di Faulkner. La donna tenebrosa poi è sempre associata all’idea di una mescolanza di sangui diversi. Il quadro è troppo suggestivamente lineare per essere vero, ed a scalzarlo basterà pensare a Addio alle armi.

[5]

Anno II, n.ro 4, aprile 1957, pp. 317-318.

[Rassegna delle riviste] Stati Uniti

SULLE PAGINE di Dissent (estate e autunno ’55 – inverno ’56) ebbe luogo una polemica fra Herbert Marcuse ed Erich Fromm che ora Meyerhof riprende sul numero invernale della Partisan Review. Marcuse taccia Fromm di una morale idealistica, quasi che non fossero state smascherate le basi repressive di una tale moralità. Ora Meyerhof

stabilisce la linea di differenziazione fra l’uno e l’altro dei polemisti in modo troppo netto: la libertà per Fromm sarebbe l’interiorità spinoziana, per Marcuse la non-repressione degli istinti. In verità l’ideale morale prospettato in

Eros and Civilisation è piuttosto racchiuso dal verso baudelairiano: «Là tout n’est qu’ordre et beauté, luxe, calme et volupté». Questa polemica è comunque il tratto più importante dell’attuale panorama ideologico americano.

In uno stile criptico R. P. Blackmur, nel numero invernale della Hudson Review, tratta del «rifiuto della poesia di venire a patti con la società che la confronta» e della lotta fra la literacy e la new illiteracy, che a diversità dell’analfabetismo antico non è ignoranza, bensì conoscenza frammentata e specializzata. L’arte per l’arte non è che il riflesso di una società dominata dall’industria culturale. La nostra è la prima autentica èra pirronistica («Dubitiamo del valore e del fatto, di tutto, salvo del calcolo e della manipolazione»); si levano inni al puerile e si lamenta una frustrazione che se dovesse davvero comprendere sotto il suo segno l’intera vita «dovrebbe essere fato, tragedia, dannazione».

Così suona la condensatissima prosa di Blackmur: «I due fatti esterni del nostro tempo sono l’esplosione di popolazioni e le esplosioni di nuove energie. I due grandi fatti interiori sono la ricreazione del diavolo (come puro comportamento) in una posizione d’autorità e lo sviluppo di tecniche per scovare mali distruttivi nell’individuo».

Ancora sulla situazione della poesia si legge su The Atlantic di gennaio un saggio di Auden (Making and

Judging Poetry). Il sacro e il profano non sono riconosciuti come distinti nella nostra società, e il poeta non scrive

né come cittadino né come adepto, la poesia non è né pubblica né esoterica. Poi Auden richiama la distinzione parallela del Coleridge fra immaginazione primaria e secondaria; la prima incontra oggetti sacri, belli o orrendi, che affermano «io sono chi sono» e non sono anticipabili e sgomentano esaltando panicamente. In essa non hanno diritto di esistenza la libertà, la temporalità, l’umorismo, che invece sono le categorie dell’immaginazione secondaria, di natura borghese, dominata dall’idea della bellezza come simmetria e regolarità, tesa all’accordo con gli «altri».

Le due forme debbono essere contemperate nel poeta d’oggi, a rischio di cadere, concedendosi interamente alla prima, nella follia; cedendo alla seconda, nel meccanismo. Auden tenta una certa fenomenologia dal sacro: «Taluni oggetti sacri paiono tali a tutti e in tutti i tempi. La luna ad esempio, il fuoco, i serpenti, e quei tre esseri capitali che non si possono definire se non negativamente: tenebra, silenzio, nulla, morte. Altri, come i re, sono sacri soltanto nella cerchia di una certa cultura… , altri solo per certi individui». Tali sacertà sono acquistabili per contagio sociale ma non consciamente; non si può imparare a conoscerli, ma solo essere convertiti a conoscerli.

Indicazioni, evidentemente, prezione per determinare ciò che solitamente viene designato con i luoghi comuni sul «mistero poetico».

Ancora sulla Hudson Review Herbert Gold delinea il profilo dell’ultimissima narrativa americana: di Sloan Wilson, Cameron Hawley, Herman Wouk, tutti accomunati da una nuova struttura narrativa. Non più il vecchio tema della conquista del denaro o della donna domina, sibbene il desiderio di integrarsi in un gruppo, di conformarsi, dopo avventure, dubbi e tribolazioni pseudoreali. Il momento della verità è quello di integrazione (nella marina in The Cain Mutiny, nel business in Executive Suite), gli eroi fanno il loro dovere, e gli scellerati vorrebbero poterlo fare; il male è per lo più l’intellettualità cinica.

Una simile deviazione è spartita con i nuovi narratori dall’ultimo Riesman, che esorta a non eccedere nell’autonomia, nell’autodirezione, poiché si può raggiungere un’eterodirezione consapevole e voluta, «mentre l’eterodiretto banale guarda I love Lucy perché tutti lo guardano, l’eroe autonomo delibera, indaga, considera, misura e poi decide fra la rete A e la B della televisione. E poiché è tanto autonomo da essere orgoglioso di essere nel suo tempo, guarderà I like Lucy. Ma c’è una sottile differenza: lui lo voleva davvero». I narratori sono sempre stati dalla parte di Giobbe, questi si pongono dalla parte dei suoi tre amici.

Sugli ultimi numeri del New Leader si segue la polemica fra Norman Thomas e Bertrand Russell, dove questi