La letteratura alchimistica è rimasta chiusa a ogni tentativo di decifrazione: la teoria dell’alchimia come stadio preparatorio della chimica disconosce la non-traducibilità delle esperienze alchimistiche in termini chimici, d’altra parte l’ermeneutica psicologica di C. G. Jung, che metteva in rapporto certi sogni con la procedura e la simbologia alchimistica e ne traeva una teoria dell’alchimia come esercizio spirituale per il recupero dell’armonia psichica, non spiegava la manipolazione dei metalli che era la base stessa del rituale.
Ora Mircea Eliade riesce forse a impostare fecondamente il problema ravvisando una continuità fra le esperienze mitiche e rituali primitive sul tema dei metalli e delle pietre preziose ed i processi alchimistici, distinguendo quindi le due fasi, operativa e speculativa. Per giungere alla comprensione è necessario astrarre dalla condizione attuale del lavoro, che è diviso dalle altre attività ed esperienze umane, dominato esclusivamente dal principio dell’utilità contingente, in cui la natura modificata dal lavoro appare come mero oggetto di sfruttamento e il tempo lavorativo è mercificato. Prima della secolarizzazione della natura il lavoro era liturgia, poneva il tempo invece di ritagliarsi in esso. Quando poi si dice liturgia si intenda in senso amplissimo: non solo l’homo faber era impegnato nel lavoro, ma tutta la struttura psichica umana; l’esperienza cosmica faceva tutt’uno con l’opera lavorativa, che era partecipazione e propiziazione di eventi naturali-cosmici, nascita-morte-trasformazione dell’universo; l’esperienza sessuale parimenti impregnava ogni atto del lavoratore, sicché ognuno d’essi era anche simbolo della vita erotica e veniva vissuto con le reazioni emotive proprie del sesso e della riproduzione. L’amore rituale che accompagna l’opera georgica, i misteri cantati e danzati che la propiziano non sono momenti accessori, ornamentali, ma parte integrante.
La capacità di mutare la natura, di produrre e di catalogare e calcolare si è acquistata dai moderni solo a patto di ridurre la tecnica a fatto staccato e autonomo dall’uomo, sicché il lavoro ha perduto i suoi momenti erotici e cosmici; ma ciò che prima avveniva alla superficie è stato ricacciato nel profondo, e di là opera sull’uomo con forza pari e semmai si avvale della potenza della tecnica per scatenare uccisioni di capri espiatori, mutilazioni dell’umano e fanatismi ben più totalitari e ben più tragici, in quanto la veste rituale che indossa è chiaramente posticcia, l’irrazionalità chiaramente visibile e quindi più penosa. Ma, tornando al libro dell’Eliade, tale astrazione del lavoro dalla liturgia è ricondotta precisamente all’alchimia.
L’attività mineraria dei primitivi non poté non essere un rito nel quale l’uomo impegnava la sessualità e la visione del cosmo, il minatore cavava il metallo dalla terra sentendosi ostetrico che estrae il feto dal grembo: la terra-utero è in stato di continua gestazione del parto perfetto, l’oro, di cui sono forme embrionali i metalli. Il minatore propriamente si sente responsabile di un aborto (e in talune tribù vien fatta abortire una donna per stabilire un equilibrio fra ciò che si fa alla terra e ciò che la società fa a se stessa). Il metallurgista e il fabbro tentano di trasformare secondo segreti di mestiere i metalli e le pietre in oro e tale incubazione accelerata prodotta dall’uomo non potrà non impegnarlo a produrre anche l’uomo artificiale, l’homunculus, attraverso un intervento sul tempo. In tal senso è nell’alchimia che nasce la secolarizzazione del tempo. Ma non ancora la divisione utilitaria del lavoro, in quanto il lavoro alchimistico è tuttora impegno della totalità umana nell’opera: l’alchimia è anche esercizio spirituale e l’oro vagheggiato sarà anche potabile e generatore di forze vitali rinnovate. Il bagno mercuriale delle materie sarà il loro ritorno nell’amnio e per l’alchimista un regressus ad uterum che si risolve nell’idea dell’incesto; seguirà la nigredo che è morte rituale anche dell’alchimista, donde il suo carattere malinconico e saturnino, perché punito dal padre Saturno dell’incesto perpetrato.
Resta da domandare, dopo letta la feconda opera dell’Eliade, se l’alchimia non mirasse ad una conciliazione dell’uomo non solo con la realtà cosmica e sessuale, ma anche con la società. Se l’ascesi preliminare fa pensare ad un ritrarsi ai margini della società, come fenomeno di evasione, il rito in se stesso è un tentativo di conciliare con la società e le sue contraddizioni; già l’oro, metallo nobile e durevole, è veramente vivo rispetto ai metalli semivivi; ora, se questi possono per perfezionamento attingere quello, anche gli uomini meno vivi possono giungere a perfetta vita e piena, diventando simili a coloro che posseggono l’oro. Ciò pare confermato dalla
descrizione dell’effetto psicologico del rito alchimistico data da Zosimo di Panopoli (citato da Jung) che suona: «È bello dare e bello ricevere, bello dire e bello ascoltare, bello essere ricco e bello essere povero».
Oggi la conciliazione dell’uomo con la realtà non si attua più nel lavoro che, perduto ogni carattere liturgico, è anzi l’esperienza più radicale di alienazione. La conciliazione diventa o il fine astratto di programmi tecnici, di pianificazione e di terapie, o un’utopia che rischia di essere soffocata.
MIRCEA ELIADE: Forgerons et alchimistes – Editore Flammarion, Parigi, 1956 – Pagine 211, frs. 800.
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Anno III, n.ro 1, gennaio 1958, pp. 71-72.
[Rassegna delle riviste] Stati Uniti
SUL NUMERO AUTUNNALE della Sewanee Review Edward Shils pubblica un articolo («Daydreams and
Nightmares») dedicato ai critici della civiltà di massa. «Tra le due guerre le voci erano scarse e la loro attenzione
dispersa. Wyndham Lewis e Ortega y Gasset, F. R. Leavis e la sua cerchia criticavano la cultura degli analfabeti e vennero o accusati di fascismo o ignorati. Dalla fine della seconda guerra mondiale, la critica ha preso maggior lena e si è messa più a fuoco». Affermazioni false poiché i tre autori non erano affatto isolati, e anzi non c’è autore del tempo che non rechi traccia della critica della società, da Wells a D. H. Lawrence a Eliot. Shils critica la nuovissima critica, quella che ha promosso la redazione di buona parte dei saggi del volume di Rosenberg e White Mass
Culture, e individua i due focolai principali e originari nella rivista Politics di Dwight Macdonald e nell’Institut für Sozialforschung di Horkheimer. Egli accusa i critici delle due correnti di essere soltanto dei trotskisti delusi per aver
visto naufragare il sogno d’un’èra in cui secondo Trotski «il tipo umano medio si solleverà all’altezza di Aristotele, o Goethe o Marx; e di là di quelle giogaie nuove vette sorgeranno».
Amanti delusi del proletariato sarebbero, secondo Shils, oltre ai due autori ch’egli pone a capo della schiera, anche Adorno, Leo Löwenthal, Fromm, Hoggart, Howe, Milosz e Herbert Marcuse. È un’accusa che ricorda quella un tempo corrente nei confronti del movimento socialista, tacciato d’essere mera espressione di risentimento. Non è la sola; a Horkheimer, Shils rimprovera di idealizzare il passato, di spiegare l’avvento del nazismo come un effetto della diffusione di una cultura di massa (in quanto soltanto una massa privata del suo tessuto connettivo tradizionale può desiderare di entrare in una comunità artificiale e rigida). La prima obbiezione ha trovato replica varie volte. A convalidare la seconda, Shils osserva che in Italia, in Germania e in Spagna il fascismo trionfò prima che le popolazioni fossero imbevute della cultura di massa e che «negli Stati Uniti, dove la cultura di massa è così sviluppata e dove, secondo le ricerche di Adorno e dei suoi collaboratori in The Authoritarian Personality, tanti americani sarebbero proto-fascisti, esiste una florida democrazia». La cultura di massa invero non è affatto così recente come Shils suppone, e se egli avesse voluto esaminare le opere di Benjamin che sono alla base del lavoro di Horkheimer e degli altri chiamati in causa, avrebbe potuto appurare che essa nasce addirittura con lo sviluppo industriale della riproduzione, ovvero con la scoperta della fotografia. Quanto alle ricerche sulla personalità autoritaria, essere non indicavano la possibilità di un colpo di Stato fascista negli Stati Uniti, ma sottolineavano la frequenza di un tipo autoritario che d’altronde ha dato prova della sua esistenza e virulenza con il maccartismo e con fenomeni sociali di natura non politica (il mondo delle juvenile gangs, l’irritazione contr gli egg-heads intellettuali).
Il tratto che più colpisce nell’articolo di Shils è la sua sostanziale mancanza di argomenti a favore della cultura di massa: gli pare semplicemente che le ricerche sociologiche sono serie solo se empiriche e solo se prescindono da impostazioni filosofiche. Egli sostiene che la ricerca deve essere «realistica», e accusa di scarso realismo Herbert Marcuse. Ma forse che le analisi della cultura di massa trattano di irrealtà? Ciò che ripugna a Shils (e vale la pena di notarlo perché il suo atteggiamento riflette una mentalità alquanto diffusa) è che non si stia contenti alla realtà quale è, che si osi commettere il reato di fusione delle specializzazioni, unendo nello sforzo di chiarificazione «sociologia speculativa, filosofia dell’esistenza, pubblicistica e critica letteraria». La paura di mescolare le specialità è oggi forte come il tabù della mescolanza di sangui nelle società di casta.
Lo stesso numero della Sewanee Review celebra il centenario di Madame Bovary. È da segnalare un articolo di Martin Turnell, che individua assai acutamente il male dell’eroina di Flaubert nella «incapacità di trovar parole adeguate ai suoi sentimenti e ai suoi bisogni». Turnell mostra però un curioso bisogno di rassicurarsi che Emma Bovary sarebbe stata altrettanto tragicamente infelice anche fuor del suo squallido mondo e della pessima letteratura che assimilava.
La Literary Review è una nuova rivista, organo dell’università Farleigh Dickinson. Nel numero invernale reca un articolo di Kenneth Burke, «Total conformity», che analizza giocosamente in termini aristotelici l’idea di conformità nell’uomo e nella natura, giungendo a dimostrare che essa conduce alla morte.
Ancora uno strano saggio-racconto-fantasia di Kenneth Burke appare sulla Kenyon Review autunnale, ma la parte narrativa mostra tali ingenuità da gettare nel ridicolo le giocose astruserie concettuali. Sullo stesso numero
della Kenyon Review, John Peter depreca la facilità con cui in Inghilterra si è soliti acclamare nuovi autori, invitando a concentrare l’attenzione piuttosto su William Golding, del quale fornisce un ritratto seducente, esponendo i tre romanzi Lord of the Flies, The Inheritors, Pincher Martin (i critici americani sovente vedono le lettere inglesi con notevole lucidità: sull’ultima Partisan Review venne con opportuno coraggio critico posta la domanda se Lawrence Durrell non abbia ormai, con Justine, attinto un livello artistico d’eccezione).
Sul Bullettin of the Atomic Scientists di novembre appare un articolo di Harrison Brown «How vulnerable are
we?». Brown ritiene che un disastro assai simile alla carestia che colpì l’Irlanda nel 1845 minacci l’intera umanità,
in ragione delle varie iatture che egli elenca (riduzione del terreno coltivabile, esaurimento di materie prime, sovrabbondanza di popolazione) e soprattutto per la pressoché inevitabile lotta atomica che scoppierà non appena tutte le nazioni minori abbiano costruito le loro bombe.
Patricia Blake nel Reporter del 14 novembre esamina le condizioni della nuova élite scientifica sovietica. Gli scienziati annoverano mezzo milione di studenti e cinque milioni e mezzo di dipendenti di istituti di ricerca. È un ceto privilegiato non solo economicamente. Le necessità di ricerca impongono una libertà d’espressione sconosciuta altrove: le teorie di Einstein debbono essere applicate anche se le dottrine ufficiali condannano la relatività. Ne deriva l’atteggiamento incredulo degli studenti verso l’indottrinamento politico e la possibilità addirittura di opporsi alle direttive dei politici, per gli scienziati che si siano resi indispensabili. Fino a quale punto potrà spingersi la tolleranza dei politici senza compromettere l’autorità dei dogmi? La tecnica, comunque, comincia a imporre un ceto avulso dalle dottrine ufficiali, e forse non fermo alla generica spregiudicatezza dei giovani intervistati dalla giornalista americana.
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Anno III, n.ro 1, gennaio 1958, pp. 76-77.