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«Si dice che l’amore, l’affetto, l’amicizia siano la migliore forma di comprensione. Ma ecco, il viso che ci era più caro, il viso in cui per lunga consuetudine credevamo di aver letto così chiaramente il pensiero, ecco che, quando meno ce lo aspettiamo, quel viso ci appare strano, misterioso, angoscioso, simile al viso dell’ignoto che, al volante di una macchina ferma vicina alla nostra ci fissa in silenzio per tutti i lenti secondi di un semaforo rosso» [Il

vero Silvestri, pagina 187]. Forse a tal segno la sinistra indifferenza verso «l’uomo sulla macchina accanto» è

diventato abito generale e quotidiano, che l’amicizia stessa ne resta contaminata. Perfino una amicizia come quella fra il personaggio che narra la vicenda, Peyrani, e Gustavo Silvestri. L’amicizia sempre apparirà «recitata» in un mondo dove il rapporto vero e costante è l’indifferenza, dove la promiscuità è solitaria, dove il dialogo materiato d’affetto, che è la sola forma di conoscenza, resta o sporadico o chimerico.

Che cosa è infatti l’amicizia del Peyrani? Un decoro assai puntiglioso nei rapporti, una ostentata (appena appena) volontà di «pensare bene» dell’amico e di mettere a sua disposizione il proprio denaro: lo stesso atteggiamento dell’analogo «personaggio che narra» in Henry James. L’amicizia è di fatto una «snobistica» licenza dal mondo della volgarità economica e dell’indifferenza non celata, come uno spazio con privilegio d’asilo in una terra di stragi e di sangue. «Nello sfacelo dello scettico – diceva Soldati in un suo saggio sulla empietà della pittura moderna – sopravvive il proposito di rimanere, almeno, una persona beneducata», ovvero di restare attaccati a delle forme che non hanno più consistenza reale, così al decoro borghese, all’idea di una società ordinata per ceti e per stili di vita come all’amicizia basata sul tatto che in tale ambiente può ancora vivere. Ma posta tale esigenza, Soldati ne mostra l’inattuabilità, e ogni suo racconto è una riprova, una ulteriore dimostrazione: anche l’amicizia resta inservibile come strumento di conoscenza e di umana comunicazione. Ciò che è ormai impossibile è la confessione. Per ottenerla, a dispetto di tutto, si adotteranno i metodi dell’estorsione poliziesca, confronti e interrogatori più o meno imposti o provocati, raccolta di testimonianze e materiale probatorio, si saggeranno presunzioni. Con il prevedibile risultato di non affermare mai la prova di un peccato che dia fisionomia chiara e nitida all’uomo che l’ha commesso. La casistica più raffinata, esperta della lezione gidiana, viene messa a frutto, finché ci si accorge che indagine poliziesca e analisi casistica sono in funzione delle sorprese ben congegnate: delle tappe della dimostrazione che s’è detta. Dimostrazione che non attinge forse la perfezione artistica della Giacca verde, e tuttavia ancora una volta avvince al suo gioco.

In un paese di montagna l’avvocato Peyrani incontra una donna che aveva creduto moglie di un suo amico, certo Almagià, e che aveva saputo corteggiata da un altro e assai più caro amico, Silvestri, smorta figura e patetica di intellettuale fallito, corteggiatore senza speranza. Da lei apprende una storia del tutto diversa da quella creduta: l’amico Silvestri pare ricattasse la donna, minacciando di denunciare ad Almagià una sua tresca. Come era Silvestri? Bieco e tormentatore, o svagato e candido? Forse, come dice la donna, si abbassò al ricatto; e tuttavia così propendendo, Peyrani non sente disprezzo ma rimorso, e questo è il momento più sottile del libro: quando egli scopre che la sua fu un’amicizia o falsa o comunque pigra, dunque inservibile, che si limitò a deformare l’immagine di Silvestri entro un cliché mondanamente leggero.

Soldati resta per un verso dentro il mondo che ritrae quando ne parla il linguaggio (come: «Era donna di una bellezza singolare. Un paradigma») ma poi se ne distanzia: («Occhi marroni, lucidissimi, ma non luminosi... riso aperto, violento, ma breve», secca e plastica immagine che segue l’espressione di prima), sicché il gioco mondano e il senso del tragico, l’eleganza e la disperazione si fondono.

MARIO SOLDATI: Il vero Silvestri – Editore Garzanti, Milano, 1957 – Pagine 190, lire 900.

[19]

Anno II, n.ro 8, agosto 1957, pp. 681-682.

[Libri] Valentino

Natalia Ginzburg ha raccolto tre racconti: Valentino, storia d’un uomo infantile che evita i rischi della vita sposando una donna ricca e anziana, per finire separato da lei, dopo che è venuta alla luce la sua omosessualità; La

madre, raffigurazione dal rapporto fra due ragazzi e la madre, dove l’indifferenza è appena lievitata da una

struggente vergogna; Il sagittario, la prova narrativa più alta della Ginzburg, dove una vasta schiera di personaggi s’aggira in un quieto provinciale girone infernale, accentrandosi attorno ad una donnetta invescata in un imbroglio che, nel deserto squallore della sua vita, è pur l’unica luce.

Ma né riferire le vicende né estrarre passi può servire a lumeggiare il sinistro fascino del libro. Forse un paragone può avvicinare alla struttura interna del Sagittario e di Valentino: certi pezzi pianistici dell’espressionismo musicale, dove frantumati motivi affiorano, squallidi e senza sviluppo, per poi coronarsi a un tratto d’uno spunto melodico dolcissimo che, in quel paesaggio sonoro arido e deprimente, nella sua brevità trasognata agghiaccia, unico barlume di canto e di vita. Ecco il momento «melodico» di Valentino: la sorella, con la quale Valentino vive dopo la separazione dalla moglie, dice: «Ma non dura a lungo la mia rabbia contro di lui, perché lui è la sola cosa che rimane nella mia vita; e io sono la sola cosa che rimanga nella sua. Così, sento che da quella rabbia io mi devo difendere…, mi rallegro del suo passo ancora così felice, trionfante e libero: mi rallegro del suo passo, dovunque lui vada». Ecco lo stesso momento nel Sagittario, quando la protagonista ricorda la truffatrice che l’ha ingannata: «A mia madre pareva lontanissimo il tempo in cui quella zazzera sventolava accanto alla sua spalla; lontanissimo come il tempo della gioia negli anni della sfortuna, come i giochi d’infanzia quando siamo in punto di morte. Era stato un tempo felice, eppure lei doveva cancellarlo dalla memoria; perché non le aveva portato che ombre e cenere».

La Ginzburg ha abbandonato il salmodiante gioco di rengaines per narrare con una secchezza che segna un esito artistico e una maturità sicura nel cuore di una certa poetica dell’abbandono al reale e alla lingua «reale». Ed è l’unica, tra gli scrittori a lei congeniali, a esserci pienamente riuscita. Sicché si staglia nitidamente il tema che la muove a narrare: l’angoscia della vita quotidiana piccolo-borghese, stretta nella famiglia che non è più un carcere o una fossa di serpenti ma l’ambiente «naturale» inevitabile, perché il prigioniero non saprebbe dove fuggire. Fuor di quegli squallidi confini usurati dalla banalità quotidiana non si aprono orizzonti, ma si alza il muro della vita opaca e spettrale della società. L’angoscia è tale che la voce recitante è sul punto non di urlare o di piangere, ma di svenire; che i personaggi, pur perfettamente individuati, sono sinistramente intercambiabili. L’atrocità d’un racconto di guerra non potrebbe conturbare più di questi racconti di pace senza vita.

I moti di emulazione o il desiderio di entrare nel mondo della cultura, che di quando in quando affiorano nei personaggi, sono velleità tristissime, da non poter nemmeno destare un sorriso, poiché ognuno d’essi vive nel vuoto senza provare un moto di ripulsa, spegnendo il dolore in una sala cinematografica. Solo le donne più rattristate e forse il medico segnato dalla prigionia dei campi di sterminio paiono non essere pietrificati in una lugubre infanzia, e resistere con una debole lena a vivere in qualche misura; la sorella di Valentino ancora vive grazie a un residuo di familiari affetti che in lei allignano con la bianca tristezza di un fiore allevato al buio, il medico Wesser grazie al fragile filo che lo lega all’amore della poesia.

E l’assenza di ogni manierismo di scrittura rafforza l’orrore di questo mondo; ci si accorge solo all’ultima pagina che si è contemplato ignari un volto di Medusa.

[20]

Anno II, n.ro 9, settembre-ottobre 1957, pp. 708-717.